Tempi difficili. Città, disuguaglianze, emergenze e pandemie

 Romeo Farinella | Città fragile | Vol II | Futuri urbani


Premessa

Oggi parliamo di transizione ecologica grazie a una che ha messo in ginocchio l’economia del mondo e ha sollecitato una risposta degli stati, con misure economicamente rilevanti. In realtà, i segnali e gli avvertimenti di una ambientale climatica e sanitaria in divenire erano stati segnalati diversi decenni fa da numerose ricerche scientifiche. Le riflessioni che seguiranno sono state oggetto, in questi due anni, di articoli[1] e webinar[2] con colleghi di diverse parti del mondo, riprese e aggiornate in questo testo. Prima di addentrarmi in questo racconto intrecciato è opportuno però segnalare alcuni punti importanti per il ragionamento che segue e che riguardano le città e il loro futuro, le , e il rapporto emergenza/resilienza. La storia delle città – e quindi di una grande parte dell’umanità – la potremmo raccontare attraverso il susseguirsi delle pandemie generate dalle rotte degli uomini. Le pandemie sono citate dagli storici come tra i rischi più forti per l’umanità, in particolare oggi che il pianeta è abitato da quasi otto miliardi di persone. La deforestazione massiccia della terra facilita certamente il rischio di zoonosi e costituisce uno degli indicatori più evidenti dell’attuale crisi ambientale. Potremmo azzardare l’ipotesi che la crisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente inizi circa diecimila anni fa, con la rivoluzione agricola; ma allora eravamo pochi, così come per i secoli a venire – perlomeno fino alla rivoluzione industriale. Oggi le grandi riserve naturali del pianeta lasciano sempre più il posto all’urbanizzazione, all’agricoltura intensiva, alla ricerca di combustibili fossili. Viste le particolari condizioni ambientali della terra, potremmo dire che il Covid-19 è una pandemia annunciata. Gli ecologi, dal canto loro, hanno evidenziato come alcune delle regioni più urbanizzate del pianeta e con il più alto tasso di inquinamento dell’aria (tra queste la pianura padana), siano state tra le più colpite nel mondo dalla pandemia. Dalle molte e forse troppe riflessioni che si leggono sul web o sulla stampa sembra emergere – a proposito di sostenibilità o circolarità e anche di approccio alla gestione della pandemia – un approccio più prestazionale che strutturale. È naturale che le prestazioni siano importanti per misurare il fenomeno e il suo radicamento, ma sembrano essere meno rilevanti le riflessioni ontologiche – inerenti l’essenza del fenomeno e la sua dimensione globale – come ad esempio il modello di sviluppo auspicato, le pratiche di cooperazione e di contrasto alla povertà, il come contrastare l’urbanizzazione del pianeta salvaguardando le risorse naturali. Già nel 1977 Barry Commoner sollecitava a chiudere il cerchio[3], perché nel rapporto tra l’uomo e l’ecosfera l’andamento da circolare è diventato lineare: si estrae il carbone e poi il petrolio, li si trasforma in vapore e carburanti che vengono utilizzati in vari modi: nelle fabbriche, nelle case, nei battelli e nelle locomotive, infine nella auto generando fumi e smog. Ma le politiche sono andate (e continuano ad andare) in altre direzioni. Riferendosi alle numerose letture di questi mesi e agli aspetti approfonditi da numerosi ricercatori, credo che valga la pena riflettere sul rapporto tra città e pandemia riprendendo tre categorie. La prima riguarda lo come chiave interpretativa per parlare di città, mettendo l’accento sulle alimentate dai mezzi di informazione; le altre categorie riguardano aspetti di cui si parla poco, ovvero le diseguaglianze e il rapporto tra emergenza, previsione e resilienza.

Spazi pubblici e pratiche urbane

La pandemia si ri-declina e impatta in maniera diversa nelle varie città del mondo. Questo ci impone di non generalizzare soluzioni pensate per le aree urbane dell’Europa benestante (dove comunque le sacche di povertà sono in aumento). Un esempio: il “distanziamento sociale” è divenuto una pratica applicabile (seppur con fatica da noi), ma così non è stato nelle città del sud del mondo dove molta popolazione vive in aree urbane informali. Come distanziare i moradores de rua, che nelle città brasiliane vivono nelle strade e sotto i viadotti, dando vita a veri e propri insediamenti con spazi privati e collettivi? O ancora, come distanziare le donne africane che tutte le mattine escono dalle proprie abitazioni – dove vivono interi clan familiari, 20-30 persone – per recarsi al mercato ad approvvigionarsi di cibo? E come gestire le attività informali che ogni mattina aumentano lungo le strade grazie ai nuovi venuti in città dalle campagne africane? In un mondo sempre più dominato dal messaggio immediato e dalla comunicazione assertiva e poco problematica predomina normalmente l’informazione legata ai grandi gruppi che la controllano. La questione non è banale perché l’ottanta per cento della popolazione si informa attraverso i media, consulta gli oroscopi per interrogarsi sul proprio futuro, e certamente non legge le ricerche scientifiche. Un’informazione corretta ed etica dovrebbe contribuire alla diffusione di informazioni approfondite e fondate sul rispetto della pluralità delle opinioni, e alcune testate giornalistiche – come The Guardian o Le Monde – lo fanno più di altre. La prova è che agli inutili stati generali promossi dal secondo Governo Conte, a parlare di città e territorio non sono stati invitati i presidenti delle società scientifiche degli urbanisti, dei geografi o dei sociologi ma alcune archistar che in quel momento stavano saltando da una tribuna all’altra dispensando efficaci banalità.

E così è iniziata una rincorsa allo scenario più lungimirante, sentenziando che dobbiamo vivere in case di almeno 60mq con spazi per lo smart working; ma è emersa anche l’alternativa del borgo vuoto nel bel paesaggio italiano. Luoghi remoti dove poter lavorare in remoto ma connessi con il mondo virtuale. Giancarlo de Carlo questo approccio lo aveva sperimentato nel 1995 a Colletta di Castelbianco inventando l’albergo diffuso o il paradiso per creativi e smart worker stanchi dell’alienazione metropolitana. Ma la forza di questo progetto sta nella sua eccezionalità, meno nella sua replicabilità. L’appennino toscano, il Salento o le Langhe sono piene di cittadini benestanti o di “nomadi digitali” che si sono comprati case in borghi isolati o che affittano location con la formula smart working & farm supporting, ma si tratta di un di più. Può essere una reazione all’alienazione della città per chi se lo può permettere, ma perché la gran parte di questi borghi sono vuoti? Italia Nostra ha stimato in circa seimila i borghi abbandonati in Italia, e la soluzione non può ridursi solamente alla formula dell’“albergo diffuso” – come se il turismo fosse l’unica spiaggia su cui approdare per rilanciare il paese. Alcuni interrogativi emergono: come questi luoghi remoti, dove si respira un’aria pura e meno infetta, possono costituire una soluzione per famiglie che conducono una vita normale, con i problemi che tutti quotidianamente dobbiamo affrontare? Dove compro il pane? E se ho bisogno del medico, dove vado, visto che in Italia hanno chiuso tutte le strutture ospedaliere di piccola e media dimensione e la medicina di territorio sta scomparendo? E poi speriamo che non si debba fare la coda con l’automobile di classe 6 per portare i figli nella scuola della cittadina più vicina. Quando l’architetto Stefano Boeri annuncia in piena crisi pandemica «via dalle città: nei vecchi borghi c’è il nostro futuro», a chi si riferisce? Al giovane creativo metropolitano o anche al lavoratore del centro spedizioni di Amazon di Rovigo che vive in un camper nel parcheggio del capannone, come la protagonista del film Nomadland? Se non sei un anziano obbligato a viverci per condizione economica o per radicamento al luogo di origine, il ritorno ai borghi è una scelta di “classe”, o una scelta “esclusiva” che la grande parte della popolazione urbana non può permettersi; basta girare l’appennino italiano per rendersene conto, ma questo lo si riscontra anche nella campagna francese. Quindi, perché proporla come una delle soluzioni al problema dell’abitare nelle città infette? Il dibattito sul che fare dei borghi svuotati è uno dei temi proposti dall’Agenzia per la Coesione Territoriale per le aree interne nel 2013 da Fabrizio Barca e vanta in Italia una ricca tradizione di riflessioni e proposte – mai divenute politiche concrete – che riguardano anche i modelli di infrastrutturazione (o de-infrastrutturazione) del paese. Del ruolo dei piccoli paesi nella trama urbana italiana – che si stava consolidando sulla scia del boom economico – ne hanno parlato strumenti di pianificazione nazionale e regionali rimasti inattuati come il “Progetto 80” o il Piano regionale della Regione Umbria, incentrato sul tema della “città-regione”. Queste proposte, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento segnalavano il bisogno di riequilibrare territorialmente le aree del paese soprattutto sotto il profilo dello sviluppo urbano, ma sono rimasti esercizi teorici nonostante il loro carattere programmatorio. Stessa sorte è toccata alle numerose ricerche condotte in quegli anni sul tema dei “piccoli centri” in diverse università italiane. Forse si potrebbero rileggere criticamente quelle esperienze o comunque ripartire da lì, e non dalle sollecitazioni interessate di architetti che, dopo aver riempito il mondo urbano di grattacieli per ricchi e benestanti, ora scoprono il countryside. Probabilmente l’effetto che questa retorica genererà non riguarda la rivitalizzazione dei borghi, ma piuttosto il rigonfiamento delle località che danno vita all’urbanizzazione diffusa attorno alle nostre città. Stiamo parlando dei territori del “periurbano” che, vista la precaria situazione del trasporto pubblico locale, genererà nel nostro paese un incremento del trasporto privato – quindi automobilistico – verso le città e le loro periferie, dove sono localizzati i servizi e i luoghi di lavoro.

L’altra retorica che ci ha accompagnato in questi mesi è quella della “città dei 15 minuti”. Di cosa si tratta? Semplice a spiegarsi, difficile a farsi in Italia attraverso politiche, progetti e incentivi. Si tratta di promuovere un’organizzazione dello spazio urbano nel quale, entro 15 minuti, a piedi, riesco ad accedere alle attività commerciali e ai servizi. La città dei 15 minuti è la città della prossimità, ed è un tema che attraversa le riflessioni dell’urbanistica da decenni – potremmo dire fin dalla sua fondazione. È la città di quando si andava dal fornaio o nella bottega e poi passava la mamma a pagare. Ma questa città è sparita da almeno quarant’anni. Da quando si sono privilegiate le politiche degli ipermercati, dei centri commerciali, degli outlet che hanno costruito falsi centri storici a pochi chilometri da veri centri storici ormai deserti. Se il fenomeno può apparire meno evidente in una città di media grandezza, nel reticolo – molto diffuso nel nostro paese – dei paesi o delle piccole città emerge in tutta la sua evidenza. Muovendoci lungo le strade delle nostre campagne è normale incontrare borghi o paesi senza alcuna attività commerciale di prossimità che ritroviamo casomai aggregate con officine, piccole attività artigianali, grande distribuzione, lungo le “strade mercato” che connotano l’urbanizzazione diffusa del territorio. È questo il contesto nel quale si colloca la politica dei “15 minuti” che rivela un’altra deficienza riguardante la nostra incapacità (o non volontà) di interpretare il contesto urbano e territoriale nel quale siamo inseriti. Si tratta della tendenza a generalizzare alla varietà del mondo urbano e insediativo soluzioni o approcci che sono studiati e praticati pensando a particolari situazioni urbane quali sono le città più grandi. Tale situazione non riguarda solamente il commercio di prossimità ma anche i servizi pubblici. Le politiche volte alla concentrazione dei servizi hanno generato forme di dipendenza – ad esempio delle persone anziane nei confronti dei figli – perché solo ricorrendo all’automobile si può raggiungere l’ufficio dove attivare un contratto di servizio o farsi una visita medica. Uno sguardo più attento ci avrebbe portato a osservare che almeno da quarant’anni – con l’avvio in Europa della stagione della riqualificazione urbana, poi divenuta rigenerazione – si parla di mixité. I francesi, attraverso alcune grosse operazioni dentro la città consolidata hanno sperimentato questo concetto creando nuovi luoghi urbani dove, al posto di aree industriali dismesse o di spazi infrastrutturali non più necessari, sono stati progettati nuovi quartieri con le funzioni mescolate: residenza e lavoro, commercio di prossimità e specializzato, aree verdi di varia taglia e natura. Possiamo citare anche le riflessioni condotte in questi decenni sul come ripensare le strade nella loro organizzazione e funzionamento. Le esperienze di Jan Gehl attraverso Kevin Lynch arrivano a Jane Jacobs. Nel 1961 la giornalista americana – nella sua lettura venata di romanticismo della città americana e dei mali che su di essa stavano per abbattersi – sottolinea con grande efficacia il carattere promiscuo e vitale delle strade, che per lei ne costituiscono l’essenza. Certo, in esse spesso vige un notevole disordine, ma è il prezzo da pagare per avere degli spazi caratterizzati dalla fitta mescolanza di usi e attività, con cittadini che a volte usano il marciapiede come estensione della propria abitazione o nei quali le attività di commercio stabili, temporanee o informali danno vita a un’intensa attività sociale, scandita da tempi e orari differenti. Una vitalità che diviene anche una forma di controllo e sorveglianza della vita e dei comportamenti quotidiani, assai importante in un momento come l’attuale, nel quale sempre più emergono paure ed esigenze di sicurezza. La Jacobs – pensando alle trasformazioni che la sua città, New York, stava subendo sotto la spinta del “riformatore” Robert Moses – elabora inconsapevolmente una sorta di teoria della “città promiscua” (e dunque dei 15 minuti) per contrastare il progetto Lomex, voluto da Moses per inserire Manhattan in una rete metropolitana di motorway in grado di connettere l’intero sistema metropolitano che stava crescendo attorno al suo cuore. In questi ultimi decenni il tema dell’“abitare” la città contemporanea – rigenerata nei suoi spazi e luoghi – è stata oggetto di numerosi progetti, e appare singolare come le tematizzazioni emerse nei mesi della pandemia e presentate come intuizioni geniali per tracciare il futuro delle aree urbane non abbiano tenuto in nessun conto anni di studi e ricerche che avevano da un lato messo in guardia sulle distorsioni in corso e, dall’altro, tracciato scenari che nel nostro paese non sono mai stati presi in considerazione dalle politiche di governo delle città[4]. La “città dei 15 minuti” non può non identificarsi con la strada: indicatore basilare della complessità e socialità urbana. I termini del problema della strada come prossimità erano ben chiari a Henri Lefebvre che nel 1973 scriveva:

La strada si ripete, e cambia, come la quotidianità: si ripete nel cambiamento incessante della gente, degli aspetti, degli oggetti, delle ore […]. Lo spettacolo della strada ferma lo sguardo e stimola lo spirito di osservazione […]. Nella strada, io partecipo. Ma sono anche spettacolo per gli altri.[5]

La strada descritta da Lefebvre è la rue corridor avversata da Le Corbusier e anche il boulevard parigino descritto da Honoré de Balzac e da tanti altri scrittori. La strada è forse il simbolo più diretto dello spazio pubblico inteso come bene comune. Il diritto alla strada significa diritto allo spazio pubblico e lo possiamo leggere come una metafora della quotidianità con tutta la ricchezza di relazioni che lo contraddistinguono. L’inizio della pandemia ha coinciso con una sorta di demonizzazione dello spazio pubblico. Nonostante la riconosciuta utilità dello stare all’aperto, esso è stato identificato immediatamente come il luogo del contagio attraverso il contatto. All’inizio della pandemia abbiamo visto i lavoratori infettarsi nelle fabbriche e gli anziani nelle case di riposo, ma abbiamo visto anche camminatori solitari su una spiaggia deserta, avvolti dall’aria salubre del mare, multati perché il dispositivo di controllo della pandemia non consentiva tali comportamenti. Abbiamo visto in seguito giovani andare nelle terrazze dei caffè o nelle discoteche mentre agli studenti era impedito lo stare in un’aula. Se le riaperture consentivano da un lato l’avvio delle attività economiche private, dall’altro quelle pubbliche e sociali continuavano a essere interdette. La Storia ci ha raccontato che i dispositivi di controllo non sono oggettivi, ma sono determinati dalla prevalenza di un bene ritenuto comune ma in realtà condizionato da scale di valori che possono essere opinabili e che non sempre è possibile mettere in discussione. È un tema che l’urbanistica conosce bene: è la regola che deve adattarsi al reale o viceversa? E la regola chi la stabilisce? Certo, la realtà per determinare i comportamenti – inevitabilmente plurali – deve essere conosciuta, letta e interpretata secondo parametri e punti di vista che non possono essere né univoci, né oggettivi. Qui entra in ballo il rapporto tra la conoscenza (la ricerca scientifica, la tecnologia) e la convenienza di azioni che rispondono a esigenze di determinati gruppi di potere. Infine, un’altra retorica dominante è associata al tema del “verde”. Un tema di vitale importanza per le nostre città se inquadrato nella giusta prospettiva. A proposito della “naturalizzazione” delle città, il messaggio che viene mediaticamente veicolato è chiaro: vegetalizzare. Non importa come, non importa dove, non importa per chi. Ma il piantare alberi non è sufficiente a ridurre il calore urbano se non si ragiona sull’organizzazione della città. L’anno scorso sono comparse delle immagini di un giardino flottante a Copenhagen composto da minuscole isole con superfici di prati o di legno di circa 20mq da cui sbuca un albero, e un aitante signore – dopo aver raggiunto con la barca l’isoletta – si siede al suo piede. A Milano (e non solo) i boschi diventano verticali per contrastare i cambiamenti climatici, ci dicono, ma quanto cemento serve per sostenere i balconi che devono ospitare la vegetazione? E lo sfalcio verticale quanto costa, e chi se lo può permettere? O ancora, le piccole foreste urbane che la Sindaca di Parigi Anne Hidalgo voleva costruire nel centro della città non sembrano appartenere più a un certo simbolismo ecologico che trasforma questioni serie e strutturali in immagini effimere? Avremo sicuramente città più verdi – qualcuno ne godrà sedendosi nel suo piccolo bosco al ventesimo piano, altri potranno solo guardarlo camminando per strada –, ma che questo abbia degli effetti reali sul clima è probabilmente tutto da dimostrare. Inoltre, questa vegetalizzazione diffusa delle città richiede acqua che sta diventando un bene sempre più scarso: come captare le acque piovane? Probabilmente ripensando spazi della città da trasformare in bacini di acqua. Lione lo sta facendo trasformando, ad esempio, un’autostrada urbana dismessa in un reservoir, ma tali soluzioni non sono possibili ovunque, e quindi entrano in campo le condizioni locali diverse da luogo a luogo, da città a città. In ogni caso entra in gioco il modo con cui le città sono costruite e gli spazi urbani organizzati. Le città storiche del Sud o del bacino del Mediterraneo sono da questo punto di vista un esempio che forse andrebbe studiato meglio. Bisognerebbe approfondire il ruolo delle strade strette che, seppur minerali, consentono all’aria di incanalarsi e ne favoriscono l’ombreggiatura, mentre a fianco i cortili degli isolati o dei patii sono rinfrescati dagli alberi. L’importanza dell’ombreggiatura per regolare la temperatura delle case è un’esigenza che ha messo in relazione la distribuzione degli edifici con l’articolazione degli spazi aperti. Nel corso dei secoli, nelle regioni mediterranee o in numerose zone aride o semiaride si sono sviluppati saperi e conoscenze locali orientate verso tecniche costruttive e di ventilazione in grado di favorire il raffrescamento naturale, così come la raccolta dell’acqua – come ci mostrano i qanat arabi che ancora oggi ritroviamo nel sottosuolo di Palermo.

In Italia le nostre città presentano un deficit di strategia e progettualità impressionate. Milano in questi decenni incarna il modello del dinamismo rigenerativo italiano con una retorica – associata, come abbiamo sottolineato, al verde e alla rinaturalizzazione urbana – talmente spinta da far passare operazioni immobiliari speculative – come quelle legate alla ricostruzione del nuovo stadio o ai sette ex scali ferroviari – come azioni urbane sostenibili di una metropoli verde ed ecologica. I temi ricorrenti nelle agende politiche, pressate dagli studi sui cambiamenti climatici e ora dall’impatto della pandemia, parlano di città e natura, di aree urbane car free, di mobilità dolce, di città resilienti, attive e accoglienti… ma, ahimè, spesso ne parlano solo. Potenziare la mobilità dolce è un’ottima scelta ma va governata. Si rafforzano sempre più i conflitti tra pedoni, ciclisti e – possiamo aggiungere – anche i monopattini. Questi ultimi sono anche pericolosi. E come garantiamo la sicurezza agli anziani (la componente più numerosa della nostra società)? Il come si intreccino le varie forme di accessibilità (privata, pubblica, dolce) prima di essere un problema tecnico/normativo da PUMS (Piano urbano della mobilità sostenibile) è un tema di civiltà, di diritto alla città, di strategia urbana e di assunzione di responsabilità di governo. Entra in campo la qualità e l’autorevolezza della governance, a livello locale e globale, e la consapevolezza che oggi la nostra società è più reattiva a parole che non con i fatti verso le crisi globali, siano esse pandemiche o climatiche. Dovremmo probabilmente fare tesoro del ricco patrimonio di conoscenze ed esperienze che la storia urbana ci ha consegnato. Abbiamo a disposizione esperienze come quelle di F. L. Olmsted, J. C. N. Forestier, o di P. Geddes che hanno trasformato l’idea di verde e natura in “materiale” per la riforma delle metropoli ottocentesche introducendo concetti quali il “corridoio verde” o il “sistema di parchi urbani”, il “cuneo verde”. O, ancora, esperienze come l’Amsterdamse Bos, il bosco pubblico di circa 1000 ettari iniziato a costruire agli inizi degli anni Trenta a Amsterdam o il Finger Plan, il piano per l’area metropolitana di Copenhagen articolato in cinque direttrici (dita) di trasporto pubblico per i pendolari, convergenti sul centro cittadino e alternate a cunei verdi. Potremmo continuare citando numerose altre esperienze rilevanti. Tutto questo parlare oggi di natura e città, di trame verdi e di acqua come soluzioni per “ecologizzare” le nostre città è in fondo per gli urbanisti un ritorno a casa. L’impressione è invece che i modelli che tendono a prevalere come soluzioni sostenibili e orientate verso la cosiddetta “transizione ecologica” delle nostre città del futuro siano in realtà dei modelli segregativi ispirati al principio della “bolla” ipertecnologica ed eco-sostenibile, ricca di verde, di agricoltura idroponica e acqua ma costruite in luoghi impervi da società immobiliari legate a poteri autocratici e quindi selettivi e segregativi.

Diseguaglianze

L’educatore brasiliano Paulo Freire, nel periodo del suo esilio in Africa, durante gli anni della dittatura militare nel suo paese, ricordava – a proposito del rapporto tra insegnare e ascoltare – che gli africani detestavano chi arrivava e usava solo la bocca, perché molto prima di parlare bisogna saper vedere e ascoltare. Prima di fare un discorso bisogna percepire una situazione onde evitare di parlare senza sapere chi hai di fronte, chi ti ascolta. Questo pensiero di Freire mi è ritornato in mente durante i mesi “cacofonici” del Covid-19, dove è emersa una visione del mondo che si potrebbe definire neo-colonialista perché le soluzioni sbandierate per far fronte all’emergenza non erano (e non sono) alla portata di tutti. Che la povertà e la miseria fossero le condizioni per l’accumulo del capitale e della ricchezza lo abbiamo scoperto negli anni della rivoluzione industriale. La spinta verso il progresso, le rivendicazioni per i diritti sociali e sindacali, l’avanzamento della ricerca scientifica, la lotta contro la povertà hanno certamente contrassegnato il passaggio tra Ottocento e Novecento, ma non hanno eliminato i conflitti alla base di queste rivendicazioni. Le disuguaglianze che noi oggi associamo normalmente alle relazioni tra Occidente e il Global South in realtà le ritroviamo anche nei nostri paesi occidentali (dove povertà e marginalità sono in aumento) e credo siano alle base dell’idea di progresso che l’Occidente ha alimentato e esportato nel mondo. Un modello generale e assoluto a cui riferirsi, al di là delle differenti culture e idee di sviluppo riscontrabili in giro per il pianeta. Agli inizi del Settecento, il medico e filosofo inglese Bernard Mandeville inizia una riflessione metaforica sui vizi privati e le pubbliche virtù della società di allora intitolata La favola delle api[6], nella quale parla di quanto è sporca Londra e di come lo sporco, il cattivo odore, il degrado che si riscontra nelle strade della città – e che i riformatori avversavano in quanto possibile forma di contagio – siano indicatori di benessere, un segno di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali e dall’avvio di quel processo che sancirà il dominio dell’industrializzazione. Le opposizioni ordine/disordine, pulizia/sporcizia, igiene/malattia, risorsa/sfruttamento hanno in fondo generato tale modello di sviluppo – che è causa della crisi ambientale che stiamo vivendo. Tra il 1889 e 1937 escono diverse pubblicazioni e indagini, tra cui possiamo annoverare le mappe della distribuzione della povertà a Londra promossa da Charles Booth: un’indagine durata quattordici anni e pubblicata in diciassette testi intitolati Labour and Life of the People in London a partire dal 1889. Tali ricerche, con modalità diverse, approfondiscono il nesso tra miseria, povertà e sviluppo della ricchezza nel Regno Unito che allora era il paese più industrializzato del mondo. Dal canto suo, l’urbanistica nasce in quegli anni come terapia per curare la città malata di industrializzazione e quindi di inquinamento atmosferico e miseria sociale, e come lo fa? Ripensando la città in quanto spazio dell’igiene attraverso interventi urbani puntuali (il verde diffuso, l’ampliamento delle strade, la circolazione conseguente dell’aria, il risanamento dei quartieri abitativi densi, ecc.) e organizzandola come dispositivo da controllare attraverso pratiche di gestione urbana. L’Ottocento è un secolo in cui si cercherà di perseguire l’idea di una società perfettamente governata. Tale approccio si rende necessario per controllare il “male” e la sua diffusione. Le Poor Laws volute nel 1832 da Edmund Chadwick, avvocato di Manchester e la Parigi riformata del Prefetto Haussmann sono anche esempi e tentativi di controllo delle patologie urbane. Chadwick – nelle sue leggi per il controllo della povertà e della miseria – arriverà a definire dei modelli di insediamento residenziale (workhouse) desunti dal panopticon, il carcere pensato e progettato da Jeremy Bentham. Molti critici parlano di una prigione per poveri che presuppone una sorveglianza asimmetrica, come sostiene il filosofo francese Michel Foucault: il controllore può vedere ma il controllato no[7]. Le workhouse – introdotte dalle Poor laws e criticate da Charles Dickens nel racconto di Oliver Twist – erano di fatto ospizi per lavoratori indigenti dove vigevano condizioni molto dure che sconfinavano nella reclusione e nella segregazione. Le famiglie venivano separate: i genitori dai figli e i mariti dalle mogli, mentre il cibo era volutamente economico e al limite della decenza[8]. Il nome era ripreso dalle strutture introdotte agli inizi del Seicento, ma già presenti alla fine del Trecento e usate come tentativo di gestione delle epidemie di peste attraverso la segregazione spaziale. Se la lebbra si controllava attraverso “rituali di esclusione” dalla città, la peste richiede al contrario “schemi disciplinari” quali appunto il panopticon, la cui traslazione verso dispositivi di controllo del conflitto sociale diviene immediata, essendo la povertà considerata un male da estirpare prima che un problema sociale da governare – con tutti i corollari che ne seguono. La sorveglianza asimmetrica di Foucault ha oggi assunto altre forme: non è più solo fisico-spaziale ma digitale. I meccanismi segregativi e la disparità tra povertà e ricchezza – alla base del nostro modello di sviluppo e della nostra idea di progresso – ancora permangono in molte dinamiche e processi della nostra società, ma diventa evidente ed eclatante nei rapporti tra Occidente e Global South. Nei paesi occidentali queste opposizioni non sono più così evidenti, ma non sono scomparse; in ogni caso le disuguaglianze e la povertà si sono spostate e radicate in altre parti del mondo grazie al colonialismo e ai modelli di sviluppo neoliberali che ancora oggi consentono il dominio dell’Occidente. L’innovazione tecnologica – tanto enfatizzata nel discorso sul superamento della crisi ambientale – non so se renderà smart ogni nostra azione quotidiana, ma in ogni caso non si sta configurando come un diritto per tutti – e una grande parte dell’umanità non ne avrà accesso. Senza aiuti umanitari seri – e non utilizzati come leva per alimentare governi o poteri locali compromessi con gli interessi occidentali – non sarà possibile ricomporre le fratture sociali e razziali che infiammano la gran parte del mondo. Amartya Sen, nelle sue riflessioni sul rapporto tra sviluppo e libertà, già vent’anni fa evidenziava come il mondo fosse caratterizzato da una opulenza senza precedenti mentre le privazioni, la miseria e l’oppressione diventavano sempre più grandi[9]. Il neoliberismo ha radicalizzato un’organizzazione sociale che ha reso evidenti le disuguaglianze e ha reso fortemente gerarchico il sistema economico mondiale, che non mette i vari paesi in condizione di lottare (o di affrontare problemi come quelli posti dalla pandemia) ad armi pari. In Italia e in Europa la reazione alla pandemia è stata abbastanza tempestiva – seppur con differenze regionali e nazionali – e mentre noi eravamo chiusi in casa e ragionavamo su come praticare il distanziamento, parlavo con gli amici brasiliani che ancora condividevano la strada e il loro Presidente parlava di gripezinha. Pensando alle misure che in Italia si stavano varando e che in buona parte sono state praticate dai cittadini, il pensiero correva alle città brasiliane ma anche sudamericane, africane, orientali con le quali lavoro regolarmente e pensavo come le nostre misure potevano applicarsi in quei contesti. Pensavo a luoghi come i mercati di Quito, São Paulo o Dakar, pensavo al quartiere dei pescatori di Guet Ndar a Saint Louis du Sénégal, uno dei più densi al mondo, dove nella stessa casa un clan familiare si turna durante il giorno per dormire perché non c’è spazio per tutti. Pensavo alle strade percorse in autobus tra le principali città del Brasile, dell’Ecuador, o dell’Africa occidentale dove tra la natura e i silenzi delle Ande, della foresta atlantica o della brousse africana spuntano improvvisamente animatissimi villaggi mercantili che sostengono i tanti camionisti e autisti che percorrono quelle strade. Se in Italia gli anziani sono stati la fascia sociale maggiormente colpita all’inizio della pandemia, nelle situazioni di Southern Urbanism il fenomeno ha riguardato prevalentemente i poveri colpiti dai virus portati da chi viaggia (occidentali e borghesia locale). Ho pensato a come molte di queste città, in Brasile o in Africa, siano state costruite o ampliate tra Otto e Novecento sulla scia del pensiero urbanistico europeo, che doveva igienizzare le sue malate città industriali applicando principi quali l’accesso alla luce, all’aria che doveva scorrere libera tra le strade ampie o al verde. Ovviamente tutto questo era pensato per le città abitate dagli europei, o dalla borghesia locale in corso di formazione. In fondo, il colonialismo “urbanistico” e segregativo non è mai morto, lo vediamo anche oggi nelle città del sud del mondo, interessate da ricchi progetti di urbanizzazione che impongono ipocrite smart e green city all’europea nei deserti africani o nelle foreste tropicali. A São Paulo la costruzione del quartiere di Higienópolis inizia alla fine dell’Ottocento, su di un’altura attraversata dai venti e circondata dai quartieri poveri dove la febre amarela e altre epidemie imperversavano. Nei medesimi anni, la legge del 1888 abolisce la schiavitù ma determinata la nascita dei quartieri informali, conosciuti con il nome di favelas. Tali insediamenti vengono costruiti dagli ex schiavi, liberati ma non assistiti, in cerca di un posto dove vivere nei paraggi delle città. Ovviamente allora come oggi non tutti potevano vivere a Higienópolis. Spostandoci a Dakar, vediamo analoghi principi applicati alla costruzione del quartiere della Medina, avvenuta nel 1914 a seguito dell’epidemia di peste che colpì l’allora capitale dell’Africa occidentale francese. Dubai viene presentata come la città più felice del mondo grazie alla qualità dei suoi spazi costruiti nel deserto, ma il novanta per cento della popolazione è costituita da immigrati dall’India, Pakistan o Bangladesh che hanno costruito questi spazi ma ai quali vengono prelevati i passaporti, e sono obbligati a vivere in grandi camerate senza aria condizionata. A causa del Covid-19 molti di loro hanno perso il lavoro ma non riescono a ritornare nei loro paesi per le ristrettezze imposte dalla pandemia. Altro esempio risulta la diffusione del virus nell’area amazzonica, dove il mai interrotto sfruttamento economico delle risorse naturali della grande foresta ne ha determinato la propagazione presso le popolazioni indigene a seguito dei contatti tra queste e chi lavora nelle imprese petrolifere dell’Ecuador o del Brasile o con chi è impegnato nei processi di disboscamento finalizzati allo sfruttamento agricolo del territorio.

Queste riflessioni mi portano a pensare che non possiamo disgiungere il tema della pandemia da quello della crisi ambientale, ed entrambi non possono essere dissociati da una riflessione sulle disuguaglianze nel mondo. Tale condizione la ritroviamo sia all’interno dell’Occidente sia nei rapporti che esso ha con il sud del mondo. Le informazioni che ritroviamo nel World Inequality Database[10] ci parlano di una situazione che associa le discriminazioni razziali, retaggio delle antiche dominazioni coloniali, all’impatto dell’iper capitalismo contemporaneo. Diversi studi hanno sottolineato come la pandemia del Covid-19 abbia bloccato la crescita di paesi considerati emergenti e come milioni di persone siano ricadute nella povertà. In questi ultimi cinque anni, numerose grandi imprese come la Harley Davidson o la General Motors hanno lasciato un paese considerato da tutti emergente quale è l’India. Un fenomeno iniziato prima ma aggravato dalla pandemia. Anzi, questa crisi ha messo in discussione il concetto di “emergente” con il quale si classificavano i paesi sui quali l’occidente investiva per favorire una crescita rapida e l’inserimento nelle dinamiche dell’economia mondiale. Migliaia di famiglie che erano considerata “classe media” sono ricadute sotto la soglia di povertà. Secondo dati della Banca Mondiale, una popolazione stimata tra 100 e 150 milioni di abitanti dei paesi un tempo considerati emergenti sono ricaduti nell’estrema povertà. Le regioni più colpite sono state certamente l’Asia del sud-est e l’Africa sub-sahariana, e la popolazione toccata era prevalentemente impiegata in settori informali e nell’industria manifatturiera e viveva nelle città. Se incrociamo queste riflessioni agli effetti che i cambiamenti climatici stanno generando in molte parti del mondo, constatiamo come i processi migratori si stiano intensificando. La scarsità di acqua in molte zone rurali – dal Marocco al Kirghizista – sta generando migrazioni interne verso le città. Il rapporto “Groundswell” della Banca Mondiale, pubblicato il 13 settembre 2021, stima che entro il 2050 le migrazioni interne ai paesi potrebbero raggiungere il numero di 216 milioni di persone. Dipenderà molto dalle scelte di sviluppo che verranno seguite. Ovviamente tali migrazioni saranno più forti nei paesi più poveri e l’Africa del Nord, insieme ad altre regioni africane, asiatiche e dell’America Latina saranno le più toccate. Del resto, già nel 2020 la stima di quanti vivessero in condizioni di esilio nei propri paesi a causa di catastrofi ambientali ammontava a sette milioni. Tale situazione, come quella generata dalla pandemia, può essere affrontata solo attraverso una governance mondiale e attivando un sistema di aiuti finanziari da parte della comunità internazionale verso i paesi più esposti. Queste dinamiche interessano direttamente le città, primo porto di sbarco delle migrazioni dalle campagne.

Emergenze e resilienza

Il concetto di emergenza si trascina con sé quello di resilienza. Il modo con cui si stanno affrontando la crisi climatica e la pandemia Covid-19 appartiene più alla sfera dell’emergenza che non a quella della prevenzione, e questo è uno dei problemi strutturali che abbiamo di fronte – certamente in Italia. Il nostro paese, pur avendo un’ottima protezione civile, non può certo essere considerato un riferimento per le politiche di prevenzione e gestione delle catastrofi. Dunque dobbiamo essere resilienti per affrontare le crisi che ci si prospettano, cercando di trovare altri equilibri. Se l’essere umano – come sostiene lo storico indiano Dipesh Chakranbasty[11] – è divenuto un “agente biologico”, è perché ha modificato equilibri che si erano consolidati per secoli. La cultura giudaico-cristiana sancisce – a differenza di quella greco antica – il primato dell’uomo sulla natura stabilendo che l’uomo è padrone delle risorse naturali, che deve fecondare la donna e moltiplicarsi per riempire la terra di esseri umani. In questo modo ha creato le condizioni per la crisi ambientale che stiamo vivendo, nella quale ormai otto miliardi di persone hanno spezzato quel punto di equilibrio che per secoli si era mantenuto tra essere umano e ambiente[12]. Tale percorso ha determinato di volta in volta nuovi equilibri e adattamenti (le pratiche agricole, la formazione delle città, l’uso delle risorse naturali, ecc.), e in un ulteriore scenario l’uomo potrebbe non esistere più come componente di una natura che si è trasformata a seguito degli effetti al centro oggi delle nostre riflessioni sulla crisi climatica. Da più parti si coltiva l’illusione che la tecnica e la tecnologia ci salveranno anche senza mettere in discussione il modello di sviluppo che ha governato il mondo per secoli, fondato sulla dominazione della natura da parte dell’uomo, sulle disuguaglianze e sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse, nella convinzione che queste fossero inesauribili. La rottura e la separazione tra politica, economia, scienza e tecnologia da un lato, e la biosfera, l’ecologia e la geosfera dall’altro, evidenzia la complessità della sfida che l’umanità deve affrontare, ma anche la difficoltà di definire nuovi paradigmi che prefigurino diversi scenari di sviluppo in grado di farsi carico anche delle disuguaglianze, delle povertà vecchie e nuove, dell’aumento dei fronti di crisi generati dai cambiamenti climatici. L’impressione è che nelle pratiche di governo si pensi a una transizione ecologica che si legittima negli avanzamenti tecnologici senza porsi il problema del cambiamento delle nostre modalità di usare il pianeta e le sue risorse, o di organizzare e far funzionare le nostre città. La retorica della forestazione urbana, come già sottolineato, è da questo punto di vista uno degli emblemi di queste pratiche che scambiano il mezzo con il fine. Per sopravvivere dobbiamo dunque essere resilienti. Il termine è certamente pervasivo ed è in buona compagnia. Sostenibilità, smart, transizione, circolarità, resilienza sono aggettivi che accompagnano da tempo le nostre letture e riflessioni sul futuro delle città, sui modelli di vita e sulle scelte che riguardano l’economia di questi tempi. L’uso ridondante del concetto ne ha sicuramente ridotto la portata e il significato qualitativo, prestandosi a banalizzazioni determinate dalla necessità di generare consenso. Quale politico può oggi esimersi dall’uso di tali concetti, quale strategia di marketing può permettersi di non riferirsi ad esse, quale università può oggi non ricorrere a tali termini per rendere accattivante una propria offerta didattica o un proprio master? Ogni termine si porta con sé dei significati che spesso sono plurimi nelle loro appartenenze o che sono cambiati, precisandosi nel corso del tempo in una direzione o nell’altra. Il concetto di “resilienza” ha una origine scientifica e in seguito entra nelle scienze sociali attraverso la psicologia – come possiamo desumere dagli esperimenti del tecnico e metallurgista membro dell’Accademia delle Scienze francese George Charpy (1864-1945) o dalle ricerche svolte nel 1955 dalle psicologhe statunitensi Emmy Werner e Ruth Smith. Sulla capacità dell’uomo di resistere alle avversità manifestando capacità di reazione si sono interrogati scrittori come Thomas Mann e Primo Levi o neuropsichiatri come Boris Cyrulnik. Se per la scienza dei materiali “resilienza” significa conservare la propria struttura o riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione, e se per la psicologia significa essere messo in grado di affrontare rotture, depressioni, turbolenze ricorrendo alle proprie risorse personali, o ancora per la biologia e l’ecologia significa esprimere la capacità di ritornare a uno stato di equilibrio in seguito a un evento perturbante, come definire il concetto di resilienza nel campo dell’urbanistica? La resilienza è un fine o è un passaggio verso una condizione urbana più complessa? Se è un fine, dobbiamo riconoscere l’incapacità o l’impossibilità di concepire il progetto per le città come strategia trasformativa complessa in grado di prevedere nuovi futuri o equilibri. Del resto, vista l’attuale condizione urbana, è necessario affinare metodi progettuali “resilienti” per sopravvivere agli eventi. Si potrebbe affermare che il concetto di resilienza nel campo delle pratiche urbanistiche è associabile a quello del rischio e dunque dell’emergenza. La “resilienza” è quindi una difesa più che una proposizione. Il progetto urbanistico in quanto previsione del futuro non dovrebbe quindi essere resiliente, o perlomeno questa resilienza ne potrebbe costituire un passaggio, uno dei fattori costituenti. Ma la finalizzazione dovrebbe essere altra, ovvero la prefigurazione di un futuro che in presenza di rischi non valutabili preventivamente può attivare questa capacità di reazione e di difesa. Se la resilienza diventa un dato fondativo e identificativo del progetto significa che siamo condannati a resistere a situazioni permanenti di conflitto, significa che è impossibile tracciare una visione. L’impatto di fattori quali la rivoluzione industriale – con la distruzione delle risorse naturali e l’emissione di gas climalteranti, la pressione demografica e l’urbanizzazione planetaria – di fatto ci pone in una situazione di conflitto perenne e globale che solamente un intreccio virtuoso tra politiche mondiali e locali può mutare – a condizione di intervenire sul modello di sviluppo fino a oggi perseguito. Diversamente, dovremo abituarci a convivere con una entropia globale nella quale le megalopoli e le regioni urbane crescono continuamente rafforzando situazioni di vita insostenibili e nelle quali i diritti fondamentali vengono sistematicamente negati, mentre i ricchi si chiuderanno nelle loro “bolle” eco-sostenibili e ricche di verde costruite nei deserti o addirittura su Marte, come si inizia a leggere. La città “reale” è dunque l’inferno dei viventi di cui ci parla Italo Calvino, in conclusione del suo libro sulle Città invisibili, e la abitiamo tutti i giorni. A questo punto abbiamo due strade da seguire, ci rammenta lo scrittore. La prima è facile: decidiamo di non vederla, ci illudiamo che non esista, non ne parliamo e quindi di fatto la cancelliamo o, pensando alle retoriche ricorrenti della “transizione ecologica”, ci illudiamo che esista sempre una soluzione tecnologica ai problemi del mondo che non metta in discussione i modelli di sviluppo. La seconda strada è più impervia, se la percorriamo dobbiamo cercare di riconoscere dentro l’inferno cosa non è inferno e dargli spazio, facendolo durare. Ma questo atteggiamento esige attenzione, apprendimento, capacità di lettura e di interpretazione. Abbiamo bisogno di una pianificazione pubblica ampia e partecipata – e non di boutade da architetto guidate dal potere delle società immobiliari – sulla quale far convergere temi e approcci orientati alla complessità e non alla settorializzazione. È arrivato il momento di stimolare un confronto partendo dal basso, visto che dall’alto non arrivano sollecitazioni e assunzioni di responsabilità, come dimostra il dibattito sul PNRR. Questa è certamente una forma di progetto politico resiliente: a mio parere l’unico oggi possibile. E per l’urbanistica democratica, che non si interessa solo alla “città dei ricchi”, è probabilmente tramontato il sogno di prefigurare sintesi urbane ideali ma si fa sempre più forte la necessità di sporcarsi le mani immergendole nella miseria nella quale molti abitanti vivono quotidianamente, come la giovane protagonista del film Parasite di Bong Joon-ho che, con fare resiliente, cerca di tenere chiuso il coperchio del water sommerso dagli scarichi generati dall’inondazione in corso nel suo quartiere. E i nostri percorsi di urbanisti attraversano continuamente questi territori.

Note

  1. Farinella, Romeo (a cura di), 2020, Città e Covid-19. Riflessioni dal mondo, in «Urbanistica-informazioni», n. 289 INU Edizioni; Id., Retoriche urbane al tempo della pandemia, in «Contesti» Beyond the pandemic 2020, n. 2, pp. 49-64.

  2. https://www.youtube.com/channel/UCdjQJPLZGUvPC0JcXF-lF1g.

  3. B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1977.

  4. R. Farinella, Abitare la città contemporanea, in R. Farinella, M. Ronconi, Politiche dell’abitare e progetto urbano. Esperienze europee, Editrice Compositori, Bologna 2011, pp. 11-37.

  5. H. Lefebvre, Dal rurale all’urbano, Guaraldi, Firenze 1973, p. 105.

  6. B. Mandeville, La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù, Rizzoli, Milano 2020.

  7. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976, pp. 213-247.

  8. F. M. Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, Yale University Press, New Haven and London 2019, pp. 187-189.

  9. A. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano 2018.

  10. https://wid.world/.

  11. D. Chakranbasty, Climate and Capital: On Conjoined Histories, Critical Inquiry, vol. 41, fasc. 1, pp. 1–23.

  12. U. Galimberti, L’usura della terra, Editore AlboVersorio, Senago 2014