Bianca Buccioli | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani
INDICE:
Spazio urbano e neoliberalismo
Lo spazio costruito. Forme dell’insicurezza urbana
L’imprenditorialità urbana ai tempi della città-vetrina
Architettura di controllo e spazio pubblico: un’estetica negativa
Spazio pubblico tra frammentazione e pacificazione
Prospettive progettuali: tra corpo senziente e spazio vissuto
Bibliografia
Note
Viviamo in città bellissime ma inospitali: Atene o Roma, Berlino o Alessandria sono parte di un lungo diorama, immensi palcoscenici o decori a cielo aperto in cui ognuno di noi vive una vita che ha la stessa consistenza di un immenso spettacolo di ombre. Nessuno di noi abita realmente queste città e nessuno di noi può farlo perché le «città sono, letteralmente, inabitabili»[1]. Se è vero, come dice Emanuele Coccia, che la città contemporanea – fatta di strade, bar, teatri e piscine – ci consente di nasconderci ovunque, di immaginarci altrove senza aver coscienza dello spazio che stiamo occupando, è anche vero che il contatto atmosferico con lo spazio suggestiona l’intera quotidianità ed è una realtà che tutti conoscono – in modo più o meno diretto e consapevole. Questo contatto atmosferico è definito da Tonino Griffero come «uno stato difficilmente definibile, non perché raro o inconsueto ma, al contrario, perché tanto onnipresente, seppure talvolta inavvertito, quanto lo è la situazione emotiva»[2]. Portare avanti un’analisi estetica del vivere urbano diventa, allora, una strategia per restituire senso a questo inavvertito e renderlo consapevole, usandolo come strumento efficace per orientarsi tra i fenomeni odierni – soprattutto quelli che afferiscono alla «manipolazione mediatico-emozionale in cui sfocia l’estetizzazione della politica e della vita sociale nell’economia “scenica” tardocapitalista»[3]. Le forme, le caratteristiche e l’atmosfera degli ambienti urbani, infatti, prendono forma in base alle forze geografiche, politiche ed economiche a cui la città è soggetta e a cui contribuisce. Nella sua morfologia fisica e sociale sono iscritti gli effetti di queste forze, i loro esiti sempre diversi e storicamente determinati. Leggere gli effetti esercitati dallo spazio urbano sui nostri corpi può essere, allora, il primo passo per identificare le forze che sono alla base del design delle nostre città e per progettare una vita più consapevole all’interno delle stesse.
Nelle prossime pagine si cercherà di dare una lettura di alcuni fenomeni urbani che passano necessariamente dall’esperienza del corpo nello spazio urbano – che derivano dall’interazione tra utente e spazio progettato. Si vedrà come una panchina, una porta scorrevole, uno spartitraffico sono diventati esempi di ciò che il designer Dan Lockton ha definito «architettura di controllo», cioè forme del design urbano con le quali conviviamo pacificamente ma che in realtà sono il simbolo materiale delle difficoltà che animano oggi lo Spazio pubblico, nonché dell’ostilità trasparente che pervade le nostre città.
Apparentemente integrate negli spazi del quotidiano, infatti, le implementazioni dell’Architettura ostile sono parte integrante di un tipo di design a vocazione disciplinare, che a sua volta si situa nel contesto del progetto neoliberale della città contemporanea e che con esso si evolve costantemente.
Spazio urbano e neoliberalismo
La città moderna è l’esito di complesse operazioni di regolarizzazione e igienizzazione – non solo del tessuto urbano, ma anche e soprattutto dei comportamenti urbani. È nelle città del diciannovesimo secolo che si afferma il tipo di spazio prescrittivo in cui viviamo ancora oggi: «una città concepita come rete di istituzioni, ospedali, carceri, workhouses, scuole e griglie di strade e viali per la circolazione del traffico o il controllo in veste di polizia urbana e di sorveglianza burocratica»[4].
A partire dalle riflessioni di Foucault sul panopticon di Bentham è possibile delineare una genealogia dell’urbanistica come disciplina utile al governo e al controllo dei territori, un tracciato che ci porta fino alla nostra vita urbana contemporanea. Occorre precisare che il controllo è qui inteso tanto come sorveglianza sugli spazi di azione e sui comportamenti quanto come «codifica di norme, autorizzazione e/o censura di credenze e valori, messa in circolazione di enunciati rilevanti al fine di stabilire confini, ovvero procedure di entrata nello – e di uscita dallo – spazio comunicativo»[5].
La prospettiva foucaultiana ci invita infatti ad abbandonare una concezione di potere unidirezionale, centralizzato e definito, risultato di una strategia concepita da un gruppo che è portatore di interessi specifici. Il potere nella condizione neoliberale «va visto piuttosto come un assemblaggio di norme, regole, istanze, retoriche, discipline, tecniche, progetti architettonici e urbanistici»[6], un potere disperso che – proprio in virtù di questa dispersione – ottiene duttilità ed efficacia. Il discorso neoliberale parla a un soggetto libero e su di lui esercita un potere che non deriva dall’impiego di mezzi disciplinari di sottomissione. Si tratta piuttosto di una forma di potere che agisce indirettamente sui soggetti la cui libertà non è mai messa in discussione: per questo le scelte individuali diventano il bersaglio di tutti gli interventi biopolitici ispirati al neoliberalismo.
L’obiettivo principale di una formazione sociale definibile come neoliberale, infatti, risiede nell’elevare una specifica forma di razionalità – basata in primis sull’agire economico – a struttura di senso prevalente, se non unica e dominante. In altri termini, un elemento costitutivo del neoliberalismo in quanto progetto politico consiste proprio nell’applicazione del modello dell’agire economico a ogni piega e interstizio della vita quotidiana, al fine di incorniciare narrativamente i processi di soggettivazione. All’interno di questo scenario, la città si definisce come complesso di spazi costruiti la cui funzione è quella di sollecitare l’aderenza tra soggetti e comportamenti. Interrogarne le forme spaziali diventa allora fondamentale per dar conto di come il paradigma neoliberale sia incastonato non solo all’interno delle interazioni sociali che hanno luogo negli spazi del quotidiano, ma anche – e più originariamente – all’interno degli spazi organizzati condivisi che forniscono il quadro per tali interazioni sociali. Come sostengono Aru e Puttili, insomma, «l’urbano rappresenta il luogo in cui gli effetti delle politiche neoliberali si manifestano con maggiore evidenza»[7], ed è proprio lì che bisogna guardare per comprendere come il progetto dello spazio contribuisca a orientare l’azione e a legittimare forme di potere e strutture di controllo specifiche che operano all’interno degli spazi del quotidiano.
Se, come si è detto, il soggetto diventa il bersaglio principale delle strategie governamentali, la gestione dei corpi non può che avvenire nella porzione di mondo che essi occupano. Come suggerisce Cavalletti, si tratta di pensare il concetto biopolitico di popolazione come un preciso concetto spaziale, di cogliere la coessenzialità di biopotere e popolazione: «qualsiasi segno sul territorio, strada, canale o confine» può allora essere letto come «segno impresso sulla popolazione»[8]. Alla base vi è dunque una concezione di spazio inedita rispetto alla modernità: non più mero supporto dell’azione organizzativa o istituzionale, bensì spazio inteso come articolazione di vari dispositivi governamentali, che regolamentano il passaggio di confini, la circolazione di flussi e non solo. Tra gli esiti di questa concezione di spazio risiedono alcuni degli elementi centrali attorno ai quali l’urbanità contemporanea sta ridefinendo le proprie forme, funzioni e significati, nonché il proprio immaginario. In altri termini, nel contesto di senso della città biopolitica di Foucault è possibile leggere l’imperante violenza spaziale che viviamo quotidianamente all’interno di spazi omogenei, componenti di un progetto estetico ben definito, ma assai diversi da quelli panottici.
Se nel panopticon, infatti, la reclusione del corpo nello spazio era ancora imprescindibile per l’esercizio del potere, nella città contemporanea, invece, la reclusione o esclusione è soltanto indotta da una serie di indicatori (come il mercato) o di norme (come i piani urbanistici). Più in generale, è indotta da tutti quei dispositivi e strumenti che le politiche neoliberali della gestione degli spazi mettono a disposizione di pratiche di distinzione, esclusione, marginalizzazione e separazione. Tali pratiche – interpretabili, a livello globale, nel segno di un unico processo di trasformazione – sono perpetrate attraverso il disegno dello spazio urbano, i cui esiti progettuali esercitano la loro influenza tanto nei confronti di chi esclude quanto di chi è escluso.
Lo spazio costruito. Forme dell’insicurezza urbana
Come scrive Nam Ellin, «la forma segue la paura»[9] sin dalla nascita della città. Questo avviene «dalle antiche città della Mesopotamia alle città medievali, fino agli insediamenti indigeni americani», cioè da quando «la protezione dagli invasori costituiva un incentivo centrale nella costruzione delle città, i cui confini erano spesso marcati da grandi mura o da recinzioni»[10]. Se le mura della città medievale rispondevano tanto alla difesa fisica dei suoi abitanti quanto a quella delle sue attività economiche, il sentimento della paura nella città neoliberale costituisce un discorso a parte. Un discorso che si autosostiene e si autoalimenta grazie alle retoriche della sicurezza perpetrate dalle agende politiche e dai media, e che impone i suoi effetti sull’atmosfera urbana. In sintesi, se prima il nemico era ricacciato al di fuori delle mura della città, oggi vive all’interno del perimetro cittadino. Se in epoca moderna, insomma, la comunità cittadina si identificava come l’insieme degli abitanti dello spazio circoscritto della città, ora al suo interno convivono il desiderabile e l’indesiderabile. Questo passaggio dall’esterno all’interno ha forti implicazioni sulla stessa idea di cittadinanza che, riposizionandosi intorno alla polarità di inclusione/esclusione, si limita ai soggetti inclusi, e di volta in volta identifica degli esclusi sulla base di principi etnici, economici, di genere, ecc. Il nemico si è spostato “al di qua delle mura” ed è proprio qui che va combattuto.
Gli strumenti di questo conflitto, infatti, trovano una risposta effettiva nella progettazione delle nostre città contemporanee in quella che Nam Ellin ha definito «architettura della paura»[11], ossia una tipologia di urbanistica basata sul controllo che finisce per dividere la città socialmente e fisicamente.
Tra gli esiti più espliciti di quest’ultima vi sono certamente i common interest development (CID), le gated communities, le privatopias, le walled cities, comunità residenziali basate sull’immaginario della fortezza che offrono «un modo di vivere, non solo una casa», ma anche «il biglietto di ingresso a uno stile di vita controllato»[12]. Così, intere comunità diventano domini commerciali, eliminando non solo i diritti di partecipazione associati alla sfera pubblica, ma mettendo seriamente in discussione il concetto stesso di spazio pubblico. In quanto esiti di un’architettura pensata per rispondere a uno stato di emergenza costante – disegnata per proteggere gli abitanti piuttosto che per integrarli in una comunità – infatti, tali enclaves si presentano come lo spazio necessario per proteggersi da un esterno percepito come insicuro, pericoloso, caotico, inquinato, promuovendo il ricorso a stili di vita esclusivi di tipo NIMBY (not in my backyard)[13].
Esistono tuttavia altre forme urbane, caratterizzate da una vocazione disciplinare ancora più esplicita, ma che si integrano negli aspetti più quotidiani del paesaggio urbano, tanto da essere a malapena visibili. Si tratta di un’integrazione ben riuscita che si colloca nell’intersezione tra la dimensione progettuale securitaria e il modello dell’imprenditorialità urbana ai tempi della città-vetrina, ed è su questa tendenza che si rifletterà nelle prossime pagine.
L’imprenditorialità urbana ai tempi della città-vetrina
Negli anni del boom economico della seconda metà del Novecento inizia a delinearsi «una nuova frontiera urbana»[14] in cui i paradigmi di azione delle istituzioni politiche urbane si focalizzano sempre di più sui problemi della competitività economica locale.
A questo proposito Harvey parla di un passaggio dalla «managerialità» all’«imprenditorialità» urbana. Se la prima era guidata da un’economia politica del territorio, la seconda è profondamente influenzata dagli interessi economici che hanno come oggetto specifico il “luogo”: i benefici delle strategie imprenditoriali sono indirizzati e vissuti in primo luogo da coloro che non vivono nella specifica località, ma la abitano temporaneamente, come ad esempio i turisti[15].
A partire dagli anni 80 del secolo scorso, in un regime economico nazionale caratterizzato dalla crescente difficoltà da parte degli enti locali di usufruire e amministrare risorse provenienti dallo Stato centrale, i governi si sono impegnati nel ricapitalizzare «i paesaggi economici»[16] delle loro città. Con l’affermarsi dell’egemonia neoliberale in una dimensione di inarrestabile Globalizzazione, le città si sono progressivamente trasformate in imprenditori impegnati attivamente nella ricerca di risorse pubbliche e private, in una competizione a somma zero tra un sistema urbano e l’altro. Attraverso azioni strategiche – basate sulla costruzione di un’immagine positiva, innovativa e appetibile, che contribuisce ad attirare nuove attività economiche, nuovi servizi e nuove categorie di consumatori – la città desiderabile si inscrive, dunque, in un paradigma estetico i cui tratti irrinunciabili sono competitività, seduzione, bellezza, varietà, centralità, fruibilità e sicurezza. Dal momento che «l’immagine è tutto»[17], la costruzione di immaginari diviene una componente fondamentale della strategia imprenditoriale, e l’estetica si inserisce nella progettazione in un senso profondo, che va ben al di là dell’estetizzazione dei luoghi.
Il modello della città “decorosa” infatti – nella misura in cui rappresenta l’interesse della stessa città neoliberale – riorganizza profondamente la morfologia degli spazi; ne deriva una città controllata tramite una fusione di forme architettoniche e pratiche istituzionali il cui obiettivo è quello di impedire la visibilità dei gruppi marginali che, con la loro presenza, potrebbero compromettere la valorizzazione dell’immagine stessa della città. La «rinascita di spazi curati»[18], basata su una precisa estetica della pulizia, dell’ordine e del decoro, nasconde una demarcazione brutale tra vincitori e perdenti, tra inclusi ed esclusi: i destinatari d’uso dello spazio pubblico diventano tutti coloro che abbiano sufficiente potere di consumo, aggravando così la distanza e la scissione tra fasce diverse di consumatori tra benestanti e indigenti, domiciliati e non domiciliati. Come scrive Tamara Pitch:
La categoria di esclusione sociale, tracciando una linea tra inclusi ed esclusi, finisce per occultare i nessi tra gli uni e gli altri e le dinamiche reali che conducono all’esclusione, venendo invece spesso usata per attribuire agli esclusi stessi le ragioni della loro condizione (per esempio la mancanza di merito e impegno) e individuarli come destinatari della carità degli inclusi (i diritti umani) piuttosto che come titolari di diritti sociali universali. L’appello al decoro è parte integrante di questo dispositivo retorico, nonché dispositivo di legittimazione del potere.[19]
Tale dispositivo retorico comporta una trasformazione profonda nel design degli spazi pubblici e nella governance degli stessi, cambiamenti che a loro volta riflettono il cambio di paradigma in atto circa cosa e chi costituisca lo spazio pubblico.
Nell’ottica di una sorta di sanitarizzazione socio-spaziale – che a sua volta si nutre e si sostiene di immaginari dominati dalla paura e dall’insicurezza nei confronti dell’“indesiderato” – la soluzione progettuale è semplice e consiste nel rendere lo spazio urbano il più invivibile possibile per i cosiddetti “indesiderabili”. Ne deriva una gestione ordinata dei flussi: da una parte gli spazi sono accessibili ai soli soggetti normati, dall’altra chi non possiede il diritto di accesso ne viene naturalmente respinto. Così, la difesa dei privilegi, degli stili di vita, della sicurezza e dei profitti sono evidenti non solo nelle gated communities che si diffondono nel periurbano, ma anche nei centri storici gentrificati: nella “città- vetrina” il diritto alla città di cui parlava Henri Lefebvre sembra ormai un ricordo molto lontano[20].
Architettura di controllo e spazio pubblico: un’estetica negativa
Facciamo quotidianamente esperienza di spazi sempre più estranei e scomodi: panchine, sporgenze, corrimano e marciapiedi costituiscono esempi diffusi di una tendenza progettuale che ha lo scopo specifico di mettere le persone a disagio o interferire con il loro uso dello spazio pubblico. Tale “architettura di controllo” o “design spiacevole” è definito da Dan Lockton come l’insieme di «features, structures or methods of operation designed into physical products, software, buildings, city layouts – or indeed any planned system with which a user interacts – which are intended to enforce, reinforce, or restrict certain modes of user behaviour»[21].
Il riconoscimento di questo tipo di urban interiors inizia dall’attenzione acuta verso le forme, i materiali e le relative proprietà: superfici fredde e levigate, forme ovali e bordi smussati consentono di delineare una tassonomia di oggetti che recano in sé un fattore spiacevole per l’esperienza umana. Si pensi, ad esempio, alle cosiddette pig-ears, flange metalliche che intervallano tutte quelle superfici piane e inclinate che sarebbero facilmente utilizzabili come rampe da skateboard, ma che sono rese così inutilizzabili. Piccoli e insignificanti devices dalla forma appuntita, o dalla più gradevole forma tondeggiante occupano, invece, gran parte degli interstizi architettonici che ospitano i “senza fissa dimora” durante la notte. Gli ingressi degli esercizi commerciali, delle banche o dei condomini residenziali – cioè tutti quelli spazi di transito che sono tradizionalmente attraenti per le persone alla ricerca di un riparo improvvisato – sono ormai efficacemente scomodi, o meglio impossibili da utilizzare per questi scopi. Sebbene dispositivi quali le pig-ears discriminino target precisi – come ad esempio gli skateboarder e, per estensione, gli adolescenti – la strategia progettuale è la medesima per destinatari diversi: spostare il comportamento piuttosto che vietarlo, costringendo le comunità target al trasferimento in altre aree della città. Ne deriva che una delle caratteristiche principali dell’unpleasant design è proprio il suo rivolgersi a gruppi sociali specifici e il suo agire a specifici livelli demografici, proponendosi come soluzione immediata al problema del trattamento dell’indesiderato. Orientato sulle restrizioni e le funzioni dissuasive, il design urbano assume così un approccio perverso incentrato sull’utente, trattando l’oggetto di progettazione da una prospettiva specificatamente anti-utente.
Nonostante l’apparente semplicità di intenti progettuali, dal punto di vista estetico il linguaggio dell’unpleasant design assume, tuttavia, un crescente livello di ambiguità. Se è vero, infatti, che borchie e spuntoni sono le armi di una guerra in cui il nemico è facilmente riconoscibile, è anche vero che noi tutti vogliamo che i nostri parchi e le nostre strade siano esteticamente gradevoli. Il paradosso che l’architettura ostile costruisce, allora, è proprio questo: per rendere lo spazio piacevole per la maggior parte delle persone risulta necessario renderlo spiacevole per alcuni gruppi marginali. Il messaggio di base è esclusionista, ma l’estetica gli conferisce un aspetto più amichevole.
L’esito più riuscito di questa progettazione paradossale è la panchina Camden, commissionata dal Camden Borough Council, progettata da Factory Furniture e installata a partire dal 2012 a Londra. La sommità increspata e i bordi inclinati, che ricordano formalmente l’architettura cubista, assolvono a scopi prettamente funzionali: è di fatto impossibile dormirci su. Inoltre, essendo una lastra indivisa in cemento denso e levigato, la panchina non è spostabile se non con una gru e non è possibile nascondervi droghe o armi. Resistente e presumibilmente a prova di crimine, la Camden Bench è stata progettata per affrontare i cosiddetti bisogni di strada contemporanei: scoraggiare il sonno illecito, lo spaccio di droga, il furto di borse, ridurre i rifiuti e così via. La funzionalità di questo oggetto esiste, paradossalmente, solo in termini negativi e consiste nella sua non utilizzabilità, cioè nella dissuasione da tutta una serie di azioni che sono di fatto rese impossibili dal suo stesso disegno. Tuttavia, se molti esempi di architettura ostile sono caratterizzati dalla loro evidente negatività, la Camden Bench è stata sviluppata e costruita per inserirsi pienamente nei contesti estetici delle nostre città, sollevando una questione che richiede una riflessione profonda: l’architettura ostile diventerà una caratteristica deliberatamente accettata dell’ambiente costruito?
Se è vero che la progettazione delle città moderne è sempre stata funzionale a rendere esecutivo un certo codice di condotta sociale, è anche vero che l’architettura ostile si inserisce pienamente nel paradigma della città governamentale di stampo neoliberista. Più precisamente, questo tipo di design spiacevole trova le sue specificità in quello che Cristina Bianchetti ha definito la «riduzione funzionalista del progetto urbanistico in epoca neoliberale», un progetto che «appiattisce i soggetti e i territori, considerandoli replicabili, assoggettabili a norme, codificabili entro pochi concetti, siano essi innovazione, animazione, convivialità, urbanità»[22]. Secondo l’autrice, infatti, il progetto urbano contemporaneo corre il rischio di finire entro le maglie di un nuovo funzionalismo, che nasce dalle ceneri della stagione eroica del funzionalismo del movimento moderno, una grande stagione in cui era in atto una ricerca complessa e ambiziosa di soluzioni per i bisogni di una società in rapida trasformazione ed emancipazione. Tale ambizione si reggeva, però, all’interno di una cornice di senso che ospitava «disegni politici e sociali ampi, e la convinzione, euforica e traumatica, che il benessere potesse crescere indefinitamente»[23]. Nelle tante riduzioni che ne sono state fatte sino ai giorni nostri, la riduzione funzionalista di cui parla Bianchetti invece «rimanda a un potere impersonale che ridisegna i comportamenti. Rimanda alla fiducia in sistemi gerarchicamente strutturati e ben organizzati, cui sono conferiti supremazia logica e maggiore efficienza in virtù della loro gerarchia e del loro ordine»[24]. All’interno di questa prospettiva riduzionistica, quale futuro spetta allo spazio pubblico?
Spazio pubblico tra frammentazione e pacificazione
La riflessione portata avanti da Jurgen Habermas all’inizio degli anni 60 del Novecento esercita tuttora una notevole influenza sull’uso che le scienze sociali fanno della nozione di spazio pubblico.
In Storia dell’opinione pubblica, l’autore parla dei luoghi privati della borghesia – tipicamente i caffè del diciottesimo secolo – come di spazi in cui si è storicamente affermata la presa di coscienza del diritto di critica e di contestazione dell’autorità politica. In altri termini, nell’uso di questi spazi sarebbe nata, secondo Habermas, quella sfera pubblica, deliberativa e di discussione sociale che si associa generalmente al concetto di spazio pubblico. Un concetto che tra gli anni 70 e 80 – in un contesto segnato per di più dalla Crisi della socialità urbana di molti paesi occidentali – trova spazio nel linguaggio di politici, urbanisti, sociologi e architetti e ne esce trasformato. Lo spazio pubblico diviene allora una sorta di dispositivo di socializzazione, un luogo di incontro, di passaggio, di pratiche collettive di varia natura, e soprattutto si pone in opposizione allo spazio privato di tipo abitativo. Come si è visto, però, il concetto e la sua traduzione spaziale non sempre coincidono, o meglio, spesso tra i due rimane un’ambiguità di fondo irrisolta. In particolare, come argomenta Margaret Thronton, tra i termini “pubblico” e “privato” sussiste oggi un rapporto articolato, reso complesso da
the existence of two further significant areas of activity that are neither wholly public nor wholly private. These hybrid domains are the civil society and the market, both of which are domain of freedom. Within civil society, or the social public, individuals are free to associate, litigate, travel, worship and participate in education. Within the market, individuals are free to contact and engage in enterpreneurialism and private sector employment.[25]
Assistiamo oggi a una trasformazione del nostro modo di vivere lo spazio: da una parte gli spazi privati svolgono ormai una funzione pubblica, dall’altra i fenomeni di mercificazione della socialità urbana[26] rendono gli spazi pubblici sempre più simili a quelli commerciali. La commistione pubblico/privato, tuttavia, opera ad un livello ben più profondo di questo semplice trasferimento dello spazio urbano dal pubblico al privato. Gli esempi sono tanti e vanno dalla creazione delle “zone rosse” istituite in concomitanza di summit internazionali, alle ordinanze municipali che vietano abbigliamento e comportamenti “antisociali”, fino alle dispersal zones inglesi[27]. Tutti esempi che fanno riflettere su quanto «il controllo sia la chiave del governo del territorio operato da autorità pubbliche come da imprese private e l’attraversamento dello spazio urbano per e tra il pubblico e il privato non è più il transito attraverso confini fisici o giuridici (proprietari) ma piuttosto il passaggio from one bubble of governance to the next»[28].
Pubblico e privato operano in partnership ed è nell’ottica di questa partnership – più che in quella della prevalenza del privato sul pubblico – che vanno lette le evoluzioni della declinazione tradizionale di spazio pubblico: quella sfera pubblica, cioè, al cui interno le persone possono incontrarsi e parlarsi liberamente, e che costituisce il potenziale democratico delle società liberali e neoliberali.
Osservando le forme che assume lo spazio urbano contemporaneo, ad esempio, si vedono emergere due dinamiche che si intersecano tra loro: frammentazione e pacificazione. Come riassume Chiara Mazzoleni:
Gli esiti sulla qualità dello spazio costituito e sulla vita urbana sono particolarmente evidenti nella frammentazione dello spazio urbano, nel deperimento dei beni pubblici, nel degrado delle condizioni insediative e nell’aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche. Un ulteriore e non meno allarmante esito, che si è manifestato in una dinamica di sviluppo territorialmente segmentata anche a livello di regione urbana, è quello della progressiva divaricazione tra la città funzionale, dove prevale la forte connettività e l’interdipendenza dell’insieme delle funzioni strategiche che costituiscono il nodo globale, e la città fisica, con una debole connessione spaziale interna e una sempre più difficile integrazione fra le sue differenti parti.[29]
Un tale fenomeno di divaricazione – per cui, come direbbe Bernardo Secchi, la città dei ricchi e la città dei poveri non si incontrano mai – contribuisce alla costruzione di un’immagine di spazio apparentemente liscio, neutro e aperto. In altri termini il non-intenzionale, il contradditorio e lo sconosciuto vengono levigati il più possibile attraverso la segregazione urbana e la differenziazione funzionale. La città contemporanea oggi appare più che mai oggetto di pratiche discorsive che la descrivono come democratica, duttile e capace di rispondere alle aspettative di tutti. In realtà, come mette in luce Bianchetti, questo regime discorsivo «si riduce a una sorta di pubblicità progressista che le forze economiche, prima ancora di quelle culturali e disciplinari, fanno del proprio sviluppo tecnologico e produttivo […] e la polvere dorata del patrimonio culturale e della città creativa ne sono parte».
In questo contesto, la lente d’indagine fornita dall’estetica risulta fondamentale: l’osservazione delle componenti estetiche del progetto urbano contemporaneo ci consente di comprendere come lo spazio, nella sua totalità, stia subendo una profonda riorganizzazione le cui ripercussioni investono non solo il campo della percezione soggettiva dello spazio, ma anche quello dell’agire individuale e collettivo.
È nello spazio pubblico, infatti, che le correnti e gli stati d’animo della cultura pubblica sono spesso formati e dotati di espressione simbolica. Come sostiene Amin – rifacendosi a una lunga tradizione che va da Benjamin e Freud a Baudrillard e Jacobs, e che ha cercato di riassumere la modernità dai simboli dello spazio urbano – l’iconografia dello spazio pubblico può essere letta come un potente codice simbolico e sensoriale della cultura contemporanea. È un codice attivo costituito dalla qualità del design spaziale e delle espressioni architettoniche, dal display delle attività di consumo e della pubblicità, insieme alle pratiche di utilizzo e di interazione tra gli abitanti. Così, da una parte riassume le tendenze culturali, dall’altra modella l’opinione pubblica e le aspettative, operando «essenzialmente sullo sfondo come una sorta di influenza atmosferica»[30].
Nell’ottica del processo di estetizzazione della realtà – che riguarda la società contemporanea tutta, e le conferisce il carattere di un’incessante performance, di messa in scena caricata di potenziale attrattivo ed emotivo – si comprende l’importanza dell’evento atmosferico nella progettazione degli spazi. L’atmosfera si afferma come elemento catalizzatore di esperienza estetica su più livelli: si va verso la progettazione minuziosa di esperienze che devono risultare dinamiche e globali, immersive, appagate non solo da input visivi. L’estetica dell’atmosfera, dunque, sposta il fulcro dell’attenzione dal “cosa” una qualche cosa rappresenta, al “come” quella cosa si manifesta.
Possiamo fare tutti facilmente esperienza della costruzione delle atmosfere urbane: lo stesso acuto osservatore che, attraversando la città, aveva avuto modo di notare gli aspetti più conclamati dell’architettura ostile, noterà allora facilmente gli effetti di un totale dislocamento esperienziale. Basterà entrare in un caffè a Manchester o a Seoul, a Berlino o a Milano, per rendersi conto che siamo immersi continuamente nel medesimo paradigma estetico, basato su elementi ricorrenti: gli stessi arredi, le stesse tazze, il parquet chiaro, gli interni bianchi, le vetrate che danno sulla strada, spazi grandi e poco affollati da oggetti. Uno stile che risponde alla filosofia secondo la quale dobbiamo sentirci a casa ovunque andiamo. In relazione al fenomeno della “globalizzazione dell’arredamento e del decoro”, Kyle Chayka parla addirittura di una nuova estetica, chiamata AirSpace[31], che non riguarda soltanto bar e ristoranti. Si tratta di «una strana geografia creata dalla tecnologia», innescata dalla diffusione di Airbnb che ha creato uno stile estetico identico in tutto il mondo. Dagli interni delle case affittate su Airbnb, il fenomeno si è allargato a macchia d’olio, coinvolgendo gli spazi di coworking, i ristoranti e così via. Attualmente sembra infatti, come scrive Chayka, che un creativo, di passaggio in una città dove trascorrerà un paio di notti per motivi di lavoro, sia più incline a prenotare una stanza, o mangiare in un bistrò, se nelle immagini riconosce lo stile che reputa accettabile. L’effetto è quello di un totale displacement cognitivo, che equivale a non sapere più dove ci si trova. Le aree urbane delle città di tutto il mondo, insomma, stanno diventando interscambiabili, ma che effetti ha questo fenomeno sul nostro modo di vivere gli spazi?
Non si tratta di un semplice grattacapo da designer o esteti del XXI secolo, dal momento che l’esistenza di gusto globalizzato sembra avere come sua diretta conseguenza quella di un mondo in cui la diversità estetica crea gerarchie di valore, esclusione e marginalizzazione. Ma soprattutto – come scrivono gli studiosi di moda Eugenia Paulicelli e Hazel Clark – questa «Gentrificazione estetica […] divide la nuova mappa del mondo alla luce di un più morbido pregiudizio post guerra fredda: il mondo fashionable e il mondo un-fashionable»[32]. In altre parole, gli stessi spazi della città neoliberale – e di conseguenza chi li abita – sono sottoposti a dinamiche di esclusione e marginalizzazione urbana, che a loro volta si basano prettamente sull’estetica dei luoghi. Come fa notare Pascal Gielen, osserviamo
young, enthusiastic architects and urban planners still dare to present fashionably looking plans with a strictly delineated creative urban zone, shopping zone, commercial hub, university campus and administrative zone, and especially a number of spatially well-cordoned-off residential areas (be it for middle-class families, single yuppies or the elderly) in specific urban zones.[33]
In questa gentrificazione del gusto, dunque, cosa resta dello spazio pubblico? Le politiche di rigenerazione urbana esemplificano chiaramente le tendenze del cambiamento in corso. Come si è accennato, il progetto neoliberale comporta un arretramento del settore pubblico a favore di nuovi accordi di collaborazione pubblico-privato e la definizione delle priorità dell’attrazione di investimenti e consumi privati per promuovere la crescita economica locale. Nel contesto di questa progettualità è possibile osservare le linee di potere e separazione affermatesi all’interno di una città fortemente modellata e prevedibile.
Il progetto contemporaneo gioca su aspetti percettivi, di sensibilità, di comfort, rinforzando l’identità e l’abitabilità di un soggetto scarnificato e piatto. Lo spazio urbano allora, non è più caratterizzato da molteplici usi, traiettorie multiple e abitato da più pubblici, e parallelamente circoscrive l’esperienza sociale dei beni comuni urbani a target diversi, secondo criteri diversi. Secondo Hardt e Negri, propriamente «questo trend della pianificazione urbana e dell’architettura traduce in termini concreti e fisici ciò che abbiamo definito come la fine del fuori, la riduzione dello spazio pubblico che aveva permesso interazioni sociali aperte e non rigidamente programmate»[34].
La mancanza di confronto nell’organizzazione razionale della vita urbana ha poi la conseguenza che i cittadini raramente sentano il bisogno di difendere la propria esistenza o reclamare il proprio spazio, poiché questo è già stato curato per loro conto in un piano ben calcolato, specialmente se questi cittadini appartengono a un certo tipo di classe dominante. Di conseguenza, non sussiste più l’esigenza di un vero spazio pubblico in cui rendere conto, argomentare, legittimare la propria individualità e il modo in cui si dà forma alla propria vita e al proprio ambiente. Per dirla in altri termini, i cittadini auto-segregati non necessitano più di prendere parte alla politica del quotidiano, poiché – nella città ordinata in senso funzionalistico – la politica è bandita dalle strade. Quando lo spazio pubblico non fornisce più una piattaforma in cui confrontarsi con l’altro, con soggettività diverse e contradditorie, esso è automaticamente neutralizzato dal punto di vista politico.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere qual è il problema di un’esistenza pacifica, isolata e apolitica all’interno della propria stessa comunità e famiglia. A prima vista sembrerebbe offrire una serie di vantaggi eppure, secondo Richard Sennett, questa è esattamente la condizione che accomuna la vita di un adolescente medio a quella del cittadino contemporaneo.
Come scrive Sennett in The Uses of Disorder, gli adolescenti vivono nella paura costante di ciò che viene dal mondo esterno e rifiutano il caos e il disordine, mantenendo credenze salde e aderendo strettamente a dei principi, per salvaguardare la propria individualità. Il desiderio di non proiettare un’immagine ambigua di sé li porta ad assumere una sorta di comportamento iper-puritano e una retorica in cui il sé deve essere costantemente affermato. Esattamente come coloro che si nascondevano ansiosamente nella propria adolescenza, così il cittadino che abita la sua comunità segregata, non è obbligato a esprimere sé stesso in situazioni conflittuali, dunque non sa come relazionarsi agli altri in maniera agonistica[35]. Infatti, sostiene Sennett, è nello spazio privo di conflitti che ha luogo l’esplosione della violenza:
It is the mixing of diverse elements that provides the materials for the “otherness” of visibly different life styles in a city; these materials of otherness are exactly what we need to learn about in order to become adults. Unfortunately, now these diverse city groups are each drawn into themselves, nursing their anger against the others without forums of expression. By bringing them together, we will increase the conflict expressed and decrease the possibility of an eventual explosion of violence.[36]
Prospettive progettuali: tra corpo senziente e spazio vissuto
La città contemporanea, intesa come fattore di produzione, è oggi la sede di una diretta trasposizione delle strategie di impresa alle strategie dello sviluppo urbano e, in ultima analisi, il luogo privilegiato in cui prende forma il progetto politico neoliberale. Allo stesso tempo, come ci insegna Foucault, la condizione neoliberale è fautrice di un modo specifico di attraversare lo spazio e di interagire con una molteplicità di luoghi di intervento biopolitico. Questi ultimi scaturiscono dall’evoluzione dei meccanismi puramente disciplinari in dispositivi di regolazione dello spazio, basati sulle idee di popolazione e Disciplinamento della vita.
All’interno di questo paradigma, le ricerche sull’architettura ostile possono allora dirci molto su come i nostri corpi vivono lo spazio urbano. Nelle pagine precedenti si è posato lo sguardo su tutti quegli “agenti silenziosi” che non solo inibiscono le pratiche d’uso dello spazio, ma impediscono anche le interazioni tra cittadini, scongiurando la possibilità di incontri indesiderati, e assicurando piuttosto relazioni tra simili. Incorporati in un’estetica apparentemente funzionale, questi oggetti sono l’esito di un progetto che sottrae progressivamente lo spazio pubblico all’uso dei suoi abitanti – attraverso la normalizzazione delle attività e dei comportamenti – e che elude così la possibilità di generare il conflitto.
Al di sotto di questa organizzazione formale della vita quotidiana è possibile leggere un fenomeno correlato ed esemplificativo di tutto ciò, che potremmo definire un rifiuto totale della complessità. L’appiattimento sistematico delle distinzioni, il ricorso alle semplificazioni, il rifugio nelle preferenze individuali, irrazionali e antisociali, la gangsterizzazione dilagante della sfera sociale: questi sono solo alcuni dei fenomeni che caratterizzano il nostro vivere urbano. Non sono, dunque, solo le esplosioni spettacolari della violenza urbana a doverci mettere in guardia, bensì proprio quella violenza che si situa nel normale ordine delle cose, nei luoghi in cui viviamo ogni giorno.
Nella dialettica tra locale e globale si assiste, infatti, all’edificazione di limiti sempre più stringenti nella definizione delle forme di accesso alle risorse, al potere, a una cittadinanza piena. Seguendo la traccia del pensiero foucaultiano, questi limiti sono realizzati attraverso dispositivi spaziali che trasformano la città in una sequenza di spazi privati, inaccessibili e inutilizzabili, ormai «descritti con lo stesso linguaggio dagli urbanisti e dalle agenzie immobiliari che parlano di catalizzatori di opportunità, città nella città, villaggi urbani, oasi in città, o viceversa di ghetti e zone off limits»[37].
Termini vaghi, dietro i quali spesso si nascondono casi di progettazione negativa, nonché forme di violenza implicita nei confronti degli abitanti dei luoghi. Attraverso la lente dell’estetica, prestare attenzione alle risposte che si generano automaticamente quando siamo immersi in un determinato spazio può aiutarci allora a capire l’aspetto più importante di qualunque spazialità, il suo aspetto qualitativo riguardante il modo in cui ognuna di esse è vissuta e riprodotta. Per usare le parole di Tiziana Villani, infatti:
Gli spazi costituiscono scritture, sono il derma costruito dalle esistenze. Definire lo spazio come derma significa riprendere l’espressione di superficie che qualifica gli spazi. Il derma del corpo e il derma dell’ambiente sono coestensivi e creano un’intensa rete di rimandi. La felicità del corpo si alimenta della potenza dell’ambiente cui appartiene. Il nostro tempo è dominato da scritture segreganti e imperative, che si affannano a prescrivere comportamenti, perimetrare territori, privatizzare ogni sorta di risorsa. È un derma deturpato quello del nostro ecosistema e come la pelle del corpo si lacera, s’infetta, e scrive i segni di questa grammatica violenta. La felicità è la posta in gioco.[38]
Riaprire le domande di senso circa le nuove ermeneutiche dell’Abitare e ripensare la contemporaneità urbana per suscitare nuove domande sul senso della forma, sull’estetica degli spazi, sulla complessità degli spazi vissuti: questo è un lavoro che la cultura del progetto può e deve tornare a fare. Un approccio possibile potrebbe essere, dunque, quello di una sorta di ecologia politico-estetica: “politica” perché considera lo spazio come prodotto della continua interazione fra la dimensione ecologica dello spazio naturale e la dimensione politica ed economica dell’agire umano; “estetica” perché guarda le caratteristiche percettive distintive della città – suoni, odori, trame, movimento, ritmo, colore, volumi e masse – e le identifica come un ecosistema su cui si può agire direttamente a livello progettuale. In altre parole, un approccio che provi a creare un paesaggio urbano interpretato ecosistemicamente e che, invece di opprimere i suoi abitanti, li coinvolga esteticamente in modi che migliorano la loro vita. Solo così la progettazione, nella complessità dei nostri tempi, può tornare a essere progettualità per lo sviluppo di individualità libere e di alleanze che trasformino le nostre società in luoghi adatti a raccogliere traiettorie diverse e contradditorie.
Bibliografia
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Note
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E. Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi, Torino 2021, p. 5. ↑
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T. Griffero, Atmosferologia: Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 9. ↑
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T. Griffero, Atmosferologia: Estetica degli spazi emozionali (2009), Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2017, p. 15. ↑
-
F. La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano 2011, p. 17. ↑
-
S. Aru, M. Puttilli, Forme, spazi e tempi della marginalità. Un itinerario concettuale, «Bollettino della Società Geografica Italiana», XIII (vii), 2014, p. 137. ↑
-
G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis, Milano 2013, p. 69. ↑
-
S. Aru, M. Puttilli, Forme, spazi e tempi della marginalità. Un itinerario concettuale, «Bollettino della Società Geografica Italiana», XIII (vii), 2014, p. 10. ↑
-
A. Cavalletti, La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Mondadori, Milano 2005, p. 10. ↑
-
N. Ellin, Postmodern urbanism, Blackwell, Cambridge 1996, p. 145. ↑
-
N. Ellin., Fear and city building, in «The Hedgehog review», 3 (2003), p. 44. ↑
-
N. Ellin, Architecture of fear, Princeton Architectural Press, New York 1997. ↑
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J. Rifkin, L’era dell’accesso, Mondadori, Milano 2000, pp. 156-157. ↑
-
N. Ellin, Thresholds of fear: embracing the urban shadow, in «Urban Studies», 5-6 (2001), p. 874. ↑
-
Si veda N. Smith, The new urban frontier: gentrification and the revanchist city, Routledge, London 1996. ↑
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D. Harvey, From managerialsm to entrepreneurialsm: the transformation of urban governance in late capitalism, in «Geografiska Annaler», 1 (1989), pp. 3-17. ↑
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G. MacLeod, From urban entrepreneurialism to a “revanchist city”? On the spatial injustices of Glasgow’s renaissance, in «Antipode», 34 (3), pp. 602-624. ↑
-
D. Mitchell, The right to the city. Social justice and the fight for public space, Guilford Press, New York 2003, p. 166. ↑
-
G. MacLeod, From…, cit., p. 605. ↑
-
T. Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 78. ↑
-
H. Lefebvre, Il diritto alla città (1968), Marsilio, Padova 1970. ↑
-
D. Lockton, Architectures of Control in Consumer Product Design, giugno 2005, da http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.908493. ↑
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C. Bianchetti, Spazi che contano: il progetto urbanistico in epoca neoliberale, Donzelli, Roma 2016, p. 104. ↑
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Ivi, cit., p. 7. ↑
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Ibidem. ↑
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M. Thronton, Public Sphere, in P. Cane, J. Conaghan, The New Oxford Companion to Law, Oxford University Press, 2008, p. 968. ↑
-
M. Castrignanò, Cittadino consumatore o consumatore cittadino?, in G. Nuvolati, F. Piselli, La città: bisogni, desideri, diritti. La città diffusa; stili di vita e popolazioni metropolitane, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 149-160. ↑
-
Nel marzo 2003 il governo britannico ha pubblicato l’Antisocial Behavior Act, che raccoglie disposizioni per affrontare i problemi del comportamento antisociale in Inghilterra e Galles, tra cui la possibilità di fornire alle autorità locali e alla polizia una gamma più ampia e flessibile di poteri per affrontare la criminalità di basso livello. Nella quarta parte dell’Anti Social Behaviour Act 2003 sono previste le cosiddette dispersal zones, che consistono in zone metropolitane appositamente individuate, nelle quali la polizia ha il potere di disperdere gruppi di due o più persone la cui presenza o il cui comportamento abbia dato luogo a molestie, intimidazioni, allarme o paura ai danni di qualcuno, o appaia potenzialmente pericolosa. ↑
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M. R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 191-192. ↑
-
C. Mazzoleni, La transizione dell’economia urbana verso i servizi avanzati. Il profilo di Milano, in «Dialoghi internazionali. Città nel mondo», 17 (2012), p. 133. ↑
-
A. Amin, Collective Culture and Urban Public Space, in «City», Routledge, Oxford 2008, 12, p. 13. ↑
-
K. Chayka, Welcome to Airspace. How Silicon Valley helps spread the same sterile aesthetic across the world, in «The Verge», 2016, da https://www.theverge.com/2016/8/3/12325104/airbnb-aesthetic-global-minimalism-startup-gentrification ↑
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E. Paulicelli, H. Clark (a cura di), The Fabric of Cultures: Fashion, Identity, and Globalization, Routledge, New York 2009, p. XIII. ↑
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M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, p. 313. ↑
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Il termine “agonistico” è ripreso dalle riflessioni di Chantal Mouffe sul “pluralismo agonistico”, cioè un modello alternativo a quello deliberativo, che sia più compatibile con una società democratica plurale. Il passaggio necessario all’attuazione di questo modello, per Mouffe, è quello dall’antagonismo all’agonismo: uno scenario in cui si smette di percepire l’altro come un nemico da distruggere, per considerarlo un avversario da fronteggiare. L’avversario viene legittimato nel contesto plurale di agonismo, cioè di scontro/confronto tra diverse posizioni, poiché anch’egli si riconosce nei principi democratici comuni, ovvero libertà ed eguaglianza. Si veda a questo proposito C. Mouffe, The Return of the Political, Verso, London 1993; Deliberative Democracy or Agonistic Pluralism?, in «Social Research», vol.66 (1999), pp. 745-758; The Democratic Paradox, Verso, London 2000. ↑
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R. Sennett, The Uses of Disorder: Personal Identity & City Life, NY:Knopf, New York 1970, p. 162. ↑
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