Città mutante e riconversioni urbane

 Mauro Cozzi | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani


INDICE:

Note

Città mutante era il titolo che qualche anno fa si decise di dare a una rubrica dedicata a svariati casi fiorentini, in «Ananke», rivista quadrimestrale di ricerca, tutela, conservazione e progetto, fondata da trent’anni e diretta per oltre ottanta fascicoli da Marco Dezzi Bardeschi, intellettuale raffinato, progettista e restauratore che dall’Università di Firenze al Politecnico di Milano, si è lasciato dietro eredità d’affetti e molte idee.

All’inizio del 2017 si discuteva in città il destino della caserma Mameli in dismissione da parte del comando dei Carabinieri, ovvero di tutta l’ala meridionale del Convento di Santa Maria Novella fino a via della Scala, col suo prospetto principale affacciato su Piazza della Stazione, dirimpetto al Fabbricato Viaggiatori del Gruppo Toscano: come a dire intermedia tra la medievale basilica domenicana celeberrima per gli interventi di Masaccio, di Leon Battista Alberti, di Giuliano da Sangallo, di una schiera d’altri protagonisti che nel tempo l’hanno arricchita, e il capolavoro dell’architettura toscana del Novecento. Quel luogo ci era sembrato adatto ad accogliere e far crescere un serio dibattito sulla città contemporanea per la quale da più parti si lamentava e si lamenta la mancanza di un’intelligenza complessiva dei fenomeni, l’incapacità di governarli, di indirizzarli verso un pensiero organico e unitario, un po’ meno asservito agli interessi di questo o di quel gruppo e capace magari di riscattare la zona Unesco dall’essere un “mangificio”, destinato a orde di consumatori di chianine, di concorrenti schiacciate farcite o di altre cibarie, dall’essere terreno di caccia di bettolanti sempre più numerosi e prepotenti[1]. Allora, con una serie di articoli raccolti nel numero 81 della rivista, si era proposto per la Mameli un Museo della città (come per esempio quello moderno di Bologna) perché dopo la chiusura di «Firenze com’era» alle Oblate e la discutibile ricollocazione di materiali e documenti tra Palazzo Vecchio e l’Archivio Storico Comunale, nella città dei musei e delle accademie più antiche di fatto manca un luogo nel quale si possa comprendere l’evolversi di un organismo urbano tra i più interessanti d’Europa, non privo d’interesse anche dopo le alte epoche, destinato al turista evoluto per correttamente predisporlo a visite meno generiche ma anche servizio rivolto ai cittadini, a una consapevole coscienza del luogo dove si abita tanto più necessaria quanto più viene articolandosi l’insieme delle razze e delle etnie. D’altronde nelle proposte che quegli articoli facevano intravedere[2] sbaluginava più un laboratorio che un museo, più un luogo di riflessione e di elaborazione critica che non una galleria di immagini e di commenti; una sorta di collettore di pensieri e di idee e un raccordo tra le varie istituzioni deputate a produrle, per metterle a disposizione di coloro ai quali compete di esercitarne il governo. Il luogo dove allocare tale organismo ci sembrava opportuno, prossimo al punto più centrale d’ingresso alla città e in sé evocativo di una diacronica varietà di eventi e di fatti buoni per appoggiare tale candidatura. L’antico monastero della S.S. Concezione, per testamento voluto da Eleonora di Toledo – sposa che Cosimo aveva presto perduto –, era infatti contiguo alla grande sala nella quale più di un secolo prima si era svolto il famoso Concilio di Firenze (quello appunto del 1439 che auspicava una riunione della chiesa d’Oriente con quella d’Occidente e che aveva inaugurato un pensiero tra i migliori fra quelli che si sono depositati nella cultura fiorentina fino a La Pira e oltre, rivolti in generale a incrociare più culture); un monastero nel quale aveva poi trovato sede l’Educandato della S.S. Annunziata dove, tra vari lavori di adattamento, Giuseppe Martelli aveva realizzato una bellissima scala elicoidale a sbalzo in conci di pietra serena sagomati con stereometrica precisione e consolidati in alto da una tonnellata di piombo sub specie di una statua di Flora modellata dallo scultore Luigi Pampaloni. Un exploit tecnico e formale, questa scala poco conosciuta, allusivo dei rapporti che erano intercorsi con la cultura transalpina e con la parigina École Polytecnique che Martelli aveva potuto frequentare. Con la capitale d’Italia aveva trovato qui sede il Ministero dei Lavori Pubblici che, trasferito a Roma nel ’71, aveva lasciato il posto a una caserma che intorno al 1936 pativa un’ennesima ristrutturazione interna, l’apertura della via Santa Caterina da Siena e una nuova facciata sulla piazza, coi progetti di Aurelio Cetica.

Nel novero delle varie proposte presentate per questa dismessa Scuola dei marescialli e dei brigadieri, approssimandosi il settimo centenario della morte dell’Alighieri, ha infine prevalso il programma di un Museo della lingua italiana accompagnato, a quanto si sa, da una quota di housing sociale (resta da vedere di quale tipo e se davvero all’annuncio politicamente opportuno potranno davvero seguire i fatti) e da varie altre funzioni. Nella logica forse del decentramento delle funzioni – ma anche, come si dice, “lontano dagli occhi lontano dal cuore” – il Museo della città si farà a Novoli, con una brutta carrozzeria alla Casamonti, cucita addosso alla ex centrale termica della Fiat, residuale testimonianza (invero assai modesta) di quelle grandi officine, stretta oggi tra i condomini di un quartiere dove, con poche eccezioni, il nuovo non riscatta la scarsa qualità dell’edilizia circostante anni cinquanta e sessanta, potendosi riconoscere, nella continuità dei fronti stradali riesumata dal piano di Leon Krier[3], qualche qualità architettonica solo negli edifici dell’Università progettati da Adolfo Natalini. Così se una tale destinazione museale verrà mantenuta, dalla centrale termica (baraccata appunto da una sgargiante policromia come la si è vista in qualche articolo di giornale) si potrà ammirare non solo “Firenze com’era” ma anche Firenze come è, rivolgendo lo sguardo al paesaggio urbano uscito da tanti “strappi” ideologici e urbanistici, dalla riconversione di un’area industriale che, fra quelle europee, certo non è un modello; e sul Palazzo di Giustizia, arrangiato su un progetto vecchio di vent’anni e da annoverarsi tra le opere meno felici di Leonardo Ricci – se pure con l’attenuante di doverlo considerare opera postuma da più punti di vista, anche da quello delle funzioni che si trova a espletare.

Ancora sulle riconversioni, giustappunto a seguire il dibattito sulla caserma Mameli, si può osservare che tra le cittadelle militari dell’area metropolitana investite dalla cartolarizzazione – le quali certamente potevano e possono rappresentare occasioni edilizie proficue di riuso, talvolta per qualche pregio originario talaltra per qualità architettoniche addizionabili in corso d’opera – forse non c’era bisogno della nuova e orrenda cittadella dei carabinieri di Castello. Insulto al paesaggio e alle responsabilità che la “prima arte” ha nei confronti di tutti coloro che per esempio transitano sull’autostrada o che, vento e nebbia permettendo[4], atterrano a Peretola; cittadella certamente probante – stiano dove stiano le responsabilità di tale capolavoro edilizio – dell’oblio di quella intelligenza complessiva dei fenomeni cui sopra si diceva e della difficoltà di governarli.

Sempre a proposito di caserme dismesse, tiene ora banco la caserma di Sanità Militare sulla Costa San Giorgio, un altro complesso, medievale d’impianto, esteso per tre ettari tra il Giardino di Boboli, il Forte di Belvedere e appunto la Costa. Derivato dalla riunione di due conventi, quello di San Giorgio e dello Spirito Santo con l’annessa omonima chiesa le cui origini risalgono addirittura all’XI secolo e l’altro dei Santi Girolamo e Francesco del tardo Trecento, ricchi di svariate testimonianze artistiche sedimentate dal tempo e non del tutto cancellate dalla destinazione a un reggimento di fanteria negli anni di Firenze capitale, né dall’assegnazione appunto alla Scuola di Applicazione di Sanità Militare e alla caserma Vittorio Veneto all’avvio degli anni trenta del Novecento. Quasi una sommossa popolare è scaturita dalla vendita di tutto quel ben di dio a una società d’affari (la Lionstone, per la cronaca, proprietà della famiglia Lowenstain, specializzata negli immobili destinati all’ospitalità turistica), intenzionata a ricavarne un ennesimo resort di lusso e perfino a servirlo, come via via le cronache giornalistiche non hanno mancato di sottolineare, con una teleferica oppure a provvederlo nientepopodimeno che di un comodo ingresso di servizio dallo stesso Boboli, in concorrenza con Palazzo Pitti! Protesta estesa a tutto l’Oltrarno, quartiere notoriamente pugnace, già popolato proprio lì sotto di abili legnaioli che seppero reagire alle mine del Feuerzauber e dopo la guerra avviare localmente la Ricostruzione, cavalcare il boom economico fino a trasformare quella diffusa esperienza artigiana e la povertà degli anni Cinquanta nell’antiquariato di oggi di via Maggio, nel benessere di via Guicciardini o della stessa popolarissima Piazza della Passera, dove si affacciavano le officine degli intagliatori di Bartolozzi&Maioli che rifecero gli interni di Montecassino perduti nei bombardamenti alleati.

La Sanità Militare, una parte (cospicua) per il tutto, può essere la goccia che fa traboccare il vaso? La pretesa di aggiungere alla cartolarizzazione qualche residuale bene mediceo, quale giardinetto d’ingresso a un complesso da cento camere, può essere l’ultima delle provocazioni? Potrà servire la Maratona oratoria organizzata a fine maggio sotto Palazzo Vecchio[5] o le vignette che ironicamente propongono il Corridoio Vasariano come ingresso? Francamente si dubita che la mobilitazione possa impedire la riconversione[6], l’ennesima mutazione che la città sta subendo.

Sempre di recente è riemerso il caso di un’altra vendita, Villa Basilewski, frutto sulla fine del XIX secolo di una presenza russa importante in città e nella fattispecie in quel tratto del lungo Mugnone; villa che nel 1918, come conseguenza della Rivoluzione d’ottobre e del mutare di tante fortune, fu donata dal figlio di Olga Basilewsky al municipio quale «Luogo di cura e sollievo a umani dolori», ovvero fu legata a una funzione pubblica. Mantenuta come clinica per oltre mezzo secolo, con alcune proprietà limitrofe e un padiglione aggiunto sul retro negli anni Sessanta[7], è stata ceduta dalla Regione Toscana a un fondo svizzero che tanto per cambiare vuol destinarla a resort, più o meno come il gigantesco Student Hotel che gli sta di fronte sul lato opposto di via Lorenzo il Magnifico, la palazzata ottocentesca e novecentesca che occupa per trentatremila metri quadri quasi tutto l’isolato sul viale Lavagnini fino a via Leone X, già sede dell’Ufficio Studi delle Ferrovie dello Stato.

Per ritornare alla rivista «Ananke», l’ultima serie di articoli concordati con Dezzi nel 2019, prima che ci lasciasse, è stata quella intitolata Firenze in vendita[8], comparsa nel numero 83. Tra svariate riflessioni sul tema anche una lista di ben trentanove grandi “occasioni” immobiliari disponibili (lista che sarebbe necessario aggiornare), il resoconto di un convegno tenuto all’Accademia delle Arti del Disegno sul rarefarsi della residenza nel centro fiorentino e vari altri articoli su problematiche incisive sulla morfologia, sul degrado e sull’ cittadina e perfino sulla statica – messa a rischio dalle cerchiature che spesso sostituiscono i muri portanti all’interno degli edifici[9]. Tra le righe, tra le constatazioni di chi la città l’osserva nel suo mutare e la vive quotidianamente, anche il sospetto di una riconversione di capitali illeciti. Sembra assai probabile che quest’ultimi possano aver trovato impiego nel capoluogo come già sulla costa toscana o nelle cittadine termali. Un riciclaggio, anche questa una “riconversione” se pure meno conclamata di quella legata ai liquami del distretto del cuoio, appannaggio di più diffuse occasioni, di scale differenziate che vanno magari da una rivendita di pelletterie a qualche cospicuo investimento alberghiero. A pensar male, è noto, si fa peccato […] grave anche perché su questo genere di riconversioni non abbiamo titolo per esprimerci e neppure competenze, solo qualche dubbio scaturito dal ragionamento, dall’osservazione.

D’altronde, ci sono altre forme di degrado visibili e mutazioni documentabili. Per esempio quelle narrate nel medesimo fascicolo dalle fotografie di Liliana Grueff, eseguite tra le sagre della porchetta o della castagna, nei mercatini di salumi o di verdure, tra cibarie nostrali o d’importazione, di volta in volta allocate di fronte all’Alberti o ai Sangallo, nei luoghi più monumentali riconvertiti alla gastronomia. Ci si può chiedere se e quanto le città cosiddette d’arte, debbano essere tutelate da un consumo tanto massivo e rozzo, se sia proprio necessario mettere a rendita anche le piazze più prestigiose destinandole a mercatini natalizi o pasquali; se la tanto decantata area Unesco possa tollerare abusi edilizi più che dehors, come quelli di Piazza della Repubblica; se sia lecita l’occupazione sempre più estesa di spazi da adibire alla movida, lecita la prepotenza che il bettolante in tanti modi esercita sul residente e così via in una mutazione darwiniana di quei rapporti che un tempo regolavano la civitas e che oggi, col ricatto del lavoro, del turista cui servilmente ci si prostituisce, con un ordine pubblico che non si riesce a gestire, con la tolleranza per questo e quell’altro evento, finiscono di fatto con mutare la città: scoraggiando la normale residenza e con essa il corollario dei servizi, delle abitudini e di tollerabili riti di lavoro e di svago che certo danno un senso non artefatto ai muri e agli spazi architettonici. A meno che per città d’arte non si intendano dei parchi a tema sul modello di Disneyland.

In questo modo l’area centrale fiorentina, il privilegio di una monumentalità pregiata in tutto il mondo, è mutante anche se fisicamente non mutano le pietre. D’altronde, per come siamo noi e per quanto durano loro – le pietre che pure finiranno col risentirne – la continuità è fatto identitario. New York è stata periodicamente riscritta con americano furore, come le antiche pergamene che si potevano grattare e riusare, o come i CD riscrivibili di qualche tempo fa. Noi non siamo così. Sulla cultura fiorentina pesa ancora molto la colpa di aver demolito il Mercato Vecchio e perfino un galantuomo come Giuseppe Poggi fu additato quasi come un vandalo per quanto aveva fatto trent’anni prima; o per stare al primo Novecento, la bonifica igienica e sociale di due isolati in Santa Croce ha avuto una audience paragonabile a ben altre infamie del fascismo. Con tutti i nostri monumenti addosso, con la mentalità entro la quale siamo cresciuti, noi non siamo “liquidi”, mutanti; forse siamo un po’ antiquati, davvero, come recita un proverbio contadino, “ciò che è” per noi “è specchio di ciò che era” e che «nessuno a Firenze – come ebbe ad affermare il filosofo George Simmel[10] – riesce a immaginare un domani diverso da ieri». Viviamo insomma una continuità fuori tempo anche se, col difetto di un siffatto dato identitario, stiamo soffrendo un’inesorabile mutazione della sostanza umana, sociale, economica, comportamentale, nel mentre che ci si impegna a tutelare le carrozzerie, i contenitori monumentali di un estraniato circo Barnum del Rinascimento o del Medioevo più improbabile, come quello dantesco del centro (talvolta imitato dalle palazzine di periferia) risvegliato dall’odierno centenario.

Giovanni Michelucci, in un importante articolo della sua «Esperienza Artigiana», nel 1949, all’avvio di una Ricostruzione delle coscienze oltre che delle case intorno al Ponte Vecchio, rifletteva sulla città scaturita dal lavoro, resa da questo vitale, letteralmente, concretamente fatta dalla partecipazione dei cittadini. A Michelucci, allora come poi, dell’architettura gli importava il giusto, era quasi fatto secondario, contingente. Nella Firenze in vendita di «Ananke» si riprendevano quei concetti, quegli ammonimenti pervasi da una neorealistica pietas, ma buoni per riflettere sull’attuale e sempre più profondo scollamento tra città fisica e cittadini. Il Covid ha permesso di certificare la diagnosi di una città morente, per molti versi inutile. Almeno nell’area centrale, nella conformazione assunta negli ultimi decenni, con esercizi tutti rivolti a sfruttare lo struscio turistico e riconvertita, mutata nella sostanza d’uso e in quella proprietaria degli immobili, deputata all’accoglienza, come si dice, quando dietro tale termine si nascondono la squallida realtà di migliaia di affittacamere o il confluire di capitali destinati agli Airbnb e ai grandi alberghi. Richard Roger, in uno screening su Londra dei primi anni Duemila, intervistato dal Bauman[11], affermava senza mezzi termini che la città ubbidisce assolutamente al mercato immobiliare, senza possibilità di sottrarsi a tale dittatura. Firenze, nel suo piccolo, con un’amministrazione impegnata a dirigere il traffico immobiliarista, come talvolta si nota, s’è adeguata. «La politica ha solo subito il mercato, così Firenze ha superato Venezia», afferma l’urbanista De Lucia, in una recente severa riflessione al margine dei fatti recenti di Costa San Giorgio, con l’aggravante d’essersi spesso venduta la gallina e d’aver affidato la monocultura dell’affare turistico a un capitalismo cinico, spesso d’importazione, cui delle pietre, dei palazzi e di tutta la città preme solo la rendita. Il fatto che possano esistere ancora delle sacche di residenza indigena con servizi e rivendite dedicate, è anzi elemento di disturbo, da tollerare si è no con qualche sfumatura di sussiego: un altro dei modi per demolire la città nei suoi presupposti vitali e trasformarla in una maschera, in una messa in scena un po’ carnevalesca della quale anche il turismo più ingenuo finirà con l’accorgersi.

Stando ancora alle mutazioni, alle svendite e alle riconversioni che interessano Firenze ma con implicazioni di carattere generale, si può richiamare un altro caso che da un paio d’anni suscita popolare partecipazione, perfino di segno contrario rispetto al distacco col quale ormai si guarda all’area Unesco dove “stanno i turisti”[12], ovvero la questione dello stadio Franchi. Caso da annoverarsi, possiamo affermare, tra i tormentoni che periodicamente hanno scandito la storia cittadina ogni qual volta si è profilato un cambiamento su qualcuno dei simboli monumentali o delle cose locali più importanti. Tralasciando le alte epoche, è stato così per i sessant’anni di polemiche sulla facciata di Santa Maria del Fiore, per quelle sul Fabbricato Viaggiatori della stazione di S.M. Novella, intense ma più rapide col passo di corsa dell’evo fascista, o per la gravidanza invece già ventennale della Loggia Isozaki sul retro degli Uffizi che sembrerebbe “mutazione” prossima al parto. Il tormentone sullo Stadio Comunale Giovanni Berta poi Artemio Franchi, è scaturito dalla sua età quasi secolare, dalle mutate esigenze del calcio moderno, dall’affidarsi questo ai capitali più che all’agonismo e da una proprietà americana della squadra che pensando d’essere in Texas o in Alabama, mostrando in televisione qualche calcinaccio o lamentando l’indecenza dei servizi igienici, proponeva di abbatterlo e di ricostruirlo nuovo corredandolo di speculazioni commerciali buone a rinforzare la rosa e la società. Sennonché lo stadio è del Comune e ha, come è noto, una paternità illustre – quella di Pier Luigi Nervi, significativa precocità nell’ambito del Razionalismo italiano – e una letteratura che da tempo lo accredita come monumento. Da qui l’intervento della Soprintendenza, il maldestro tentativo di un emendamento (il famoso 55bis al DL 16 luglio 2020, promosso dai seguaci del “demolition man”) teso a facilitarne la manomissione, la ritornante minaccia di un impianto nuovo nel contado e l’abbandono del vecchio, le acrobatiche evoluzioni dell’Amministrazione comunale, lo schieramento concorde della intellighenzia architettonica nazionale e internazionale, l’impegno di Italia Nostra e infine il parere del Ministero e il programma di un concorso che possa garantire qualità a ciò che si intenderebbe aggiungere al Franchi e al circostante Campo di Marte[13]. Da tale vicenda – che è stata accompagnata da una larga e costante copertura giornalistica, e come tutti i tormentoni è stata fatta oggetto di vari pareri e perfino di scontri e minacce[14], il tutto destinato a proseguire nel futuro concorso e nei progetti che da questo potranno scaturire – sembra emergere un altro caposaldo, un altro punto fermo per discutere di mutazioni e di riconversioni: il baluardo della qualità; una necessaria e condivisa qualità degli interventi come reazione al degrado, alla svendita e alle prepotenze sulla città dei cittadini.

L’amministrazione tutta e il sindaco in prima persona sono stati costretti a patire le giravolte sul Franchi, ad affrancarsi dall’asservimento “americano”, riconvertirsi a quello soprintendenziale, ministeriale e finalmente alle salvifiche promesse del Recovery. Il medesimo sindaco, avendo sotto gli occhi un’area Unesco desertificata dal Covid e meravigliosamente priva di cittadini, è corso ai ripari e ha maturato anche lui messe a punto, ripensamenti – forse, osiamo sperare, pentimenti – rivolti a un futuro e più equilibrato ridisegno della città. Così almeno negli annunci che trionfalisticamente emergono per la Firenze del 2040, in una lunga intervista concessa alle cronache[15].

Certamente, di fronte a quanto ha investito l’area Unesco, ai resort d’alta fascia, ai giganteschi sedicenti studentati e alle responsabilità che tout court si assegnano all’Amministrazione, fanno riscontro leggi e vincoli che non consentono di intervenire[16]; decreti come quello Bersani sulle liberalizzazioni del 1998 si sono rivelati devastanti, potenziando fenomeni in atto da tempo, rendendo ridicoli i tentativi – già velleitari di per sé – di tutela dei negozi storici anche quando si trattava di salvare librerie come Seeber o Marzocco, radicate nella migliore cultura cittadina. Assai affievolita la voglia autoctona di intraprendere cose diverse dal vitto e dall’alloggio del turista: la rendita, con buona pace del sindaco, ha preso il sopravvento. Così come talvolta, nel Pratese, è apparso più conveniente affittare i capannoni a imprenditori cinesi piuttosto che combattere direttamente nel mercato, così nel centro città, quando non si è venduto e ci si è dati al riposo in villa, la rendita è divenuta la risorsa preferita, lievitata a un punto tale da essere appannaggio solo di griffe internazionali che hanno di mira la visibilità, la presenza lungo lo struscio magari per accompagnare una vendita in rete, oppure senz’altro votata al remunerativo mangificio. I tentativi abortiti di attività che non sono dirette al turismo e il parossistico ricambio degli esercizi provano che sono difficili, quasi insostenibili, le alternative. Rarefatta come s’è detto la residenza stabile, si assiste al letterale abbandono di intere zone, come alcune di quelle già artigiane dell’Oltrarno, che non sono state piegate dal Covid bensì assai di più dalle politiche degli ultimi trent’anni, in una città che non è più la città dei cittadini ma – più di quanto sia sempre stata – luogo di accumulo e di cinico impiego di capitali. Determinando in tale veste le scelte amministrative, urbanistiche e infrastrutturali: dall’alta velocità all’aeroporto, da una tranvia che forse potrà un po’ decongestionare l’accumulo centrale degli Airbnb all’adattamento del piano strutturale alle esigenze di questo o quell’albergo di questo o quel gruppo di investitori.

A proposito di quartieri artigiani, di artieri e di artisti può essere proposto un altro tema, se pure ambiguo e scivoloso per più di un verso. Esiste in città una politica delle esposizioni d’arte contemporanea, di mostre importanti, di installazioni economicamente impegnative che presidiano le piazze, che s’addossano a questo o a quel palazzo pubblico. La città offre un panorama internazionale talvolta autorevolmente consolidato, anzi tanto consolidato da essere acquistabile già pronto, da trascendere le locali progettualità, frutto di un conclamato sistema dell’arte contemporanea deciso e diretto da altre piazze critiche e mercantili; potremmo dire imposto, anche in ordine a ciò che si deve pensare dell’arte – come osservava qualche tempo fa Fulvio Carmagnola[17] – nei valori che sono in gioco, regolato da una serie di convenzioni e di conformismi d’avanguardia nei confronti dei quali mal si interviene dalla periferia dell’impero. Ci si può solo allineare, offrendo location di prestigio, mettendo nel conto la fama della città e accettando quanto arriva. Seppure meno rozza delle altre sunnominate e con una funzione talvolta sprovincializzante per la fauna artistica locale, è pure questa una svendita, specie in rapporto al fatto che non si ha quasi mai la forza di invertire la corrente e di esportare, quale essa sia, una produzione indigena di qualità. Che forse non esiste o comunque è poco visibile[18].

La Firenze del secondo dopoguerra, insieme a prestigiose iniziative pubbliche (quelle di Ragghianti in Palazzo Strozzi, ad esempio) e col tessuto delle sue molte gallerie private, con qualche premio «nazionale», qualche mostra collettiva, fu capace di annodare un dibattito interno alla città dei cittadini; tra artisti, artigiani, antiquari, commercianti e acquirenti, in un mondo certamente più ristretto e forse provinciale, circolavano però forze vitali, si stabilivano rimbalzi e conseguenze che hanno avuto esiti significativi, potremmo osservare, fino a tutti gli anni Settanta e alle cosiddette neoavanguardie. In quel momento, seppure già si avvertiva il tramonto di un pensiero e di una mentalità, ancora sussistevano speranze di una possibile riconversione moderna dell’artigianato, la possibilità di riannodare quel brulicante e ancora ricco comparto di lavoro alle ricerche nell’arte, nell’architettura, nel design. Dal suo interno voglio dire, con un’intrinseca ricerca e non come generalmente si fa oggi, cucendo addosso ai pochi superstiti una pletora di associazioni, di funzionari e di impiegati o magari celebrando in carta patinata le nostalgie di un mondo estinto o giù di lì, sostituito nel pingue mercato del turista da gadget di fattura cinese distribuiti nelle edicole al posto dei giornali. Alla faccia del ruolo delle città d’arte e del magnifico progresso della cultura. All’assenza dei cittadini corrisponde il rarefarsi anche di questo comparto su cui aveva prosperato la Firenze del XIX secolo, che replicava per l’Europa e le Americhe i propri tesori, in marmo, in alabastro, in bronzo, in ceramica, in gesso[19], a tutte le scale, anche cinicamente fiutando l’affare, ma tenendo dietro nell’offerta a una proverbiale e distintiva qualità, appannaggio di una città ben provvista di artisti e di artieri.

Tutt’affatto diversi oggi i rapporti con l’arte contemporanea cui la città si offre solo come palcoscenico. Molte delle installazioni, anche quelle di JR, “l’artista che fa parlare i muri” e che fino a settembre propone [rivedere tempi di questo paragrafo considerando pubblicazione online a febbraio 2022] una scenografica e coinvolgente Ferita per Palazzo Strozzi o l’omaggio forse un po’ troppo raffinato al centenario dantesco, costituito dall’Abete di Giuseppe Penone al centro di Piazza Signoria, sembrano rivolte più a épater les touristes o a promuovere gli autori, che non a far circolare le idee. Seppure sul piano espressivo più valide di altre precedenti proposte – i grossi cani in bronzo disseminati qualche tempo fa davanti a Pitti, per esempio – anche queste finiscono con essere di fatto un po’ estranee alla città dei cittadini che rarefatta ormai com’è, nemmeno più le apprezza e le discute[20].

Riannodando e riassumendo il filo di ciò che si è provato a dire e tra tante lamentele e nostalgie, nel sottolineare politiche da intraprendere che abbiano qualche probabilità d’invertire il destino cui inesorabilmente la città sembra avviata, una ci pare decisiva: il riconoscere che la madre di tutte le mutazioni e delle riconversioni, consiste nel ripopolare la città, nel ricreare le condizioni per un tessuto di residenza stabile, bianca, gialla o nera beninteso, purché stabilmente radicata. Convincersi di tale priorità: che nella scala dei provvedimenti possibili questa riconversione sia più di altre capace di ridare vita a una città stravolta. Capace d’essere baluardo contro la svendita e contro l’asservimento a una monocultura e a una rendita che sembrano non trovare ostacoli. Naturalmente non sono sufficienti gli annunci più o meno trionfalistici, né si può barattare per residenze stabili quelle temporanee promosse delle multinazionali o gli studentati allestiti con vario profilo, né basta richiamare fino alla noia l’esperimento già storico delle Murate. In una logica quasi da WWF, serve accompagnare il ripopolamento con tassazioni differenziate, con facilitazioni vere, anche con provvedimenti calati nei fatti minuti dei quali il Palazzo, dando per scontata la buona fede di tante quotidiane erosioni di spazi e di tutele, forse poco si accorge, e insomma serve in tutti i modi promuovere la qualità degli interventi e la salvaguardia dei diritti, con una “carta del cittadino” che ne riconosca la funzione essenziale: quella appunto di dare senso alla città.

Note

  1. Nell’area Unesco, dal 2012 al 2017, secondo i dati forniti dallo stesso Palazzo Vecchio («Il Corriere Fiorentino» del 25 maggio 2021), il commercio alimentare è aumentato del 78%; fino a registrare 217 esercizi per chilometro quadrato rispetto agli 11 della città esterna. Leggiamo pure che il Comune dal 2017 avrebbe attuato un blocco delle «licenze alimentari», notizia che tuttavia sembra smentita dalla realtà. La liberalizzazione degli spazi all’esterno, l’attenuarsi delle varie fasi del lockdown e una movida tanto lungamente repressa, hanno di recente rilanciato la conquista, questa volta tutta indigena, di strade e marciapiedi.

  2. «Ananke» n. 81, maggio 2017, gli articoli di C. Acidini, M. Cozzi e G. C. Romby, pp. 64-72.

  3. Per le annose e contorte vicende di questo quartiere cittadino, vedasi la sintesi recente di R. Innocenti, Il piano di recupero per l’area ex Fiat di Novoli a Firenze: il contributo di Leonardo Ricci, in La figura e l’opera di Leonardo Ricci nel centenario della sua nascita, (atti della giornata di studio Pistoia Palazzo Vivarelli Colonna e Palazzo Comunale 12 novembre 2019) a cura di P. Caggiano e C. Vasić Vatovec, Pisa, ETS, 2020, pp. 80-91 e U. Tramonti, I palazzi di giustizia di Savona e Firenze, ivi, pp. 92-105. Interessante notare come nel vivo di quel dibattito, Antonio Cederna, il padre di Italia Nostra, avesse avanzato («La Repubblica» 7 agosto 1986) qualche cupa profezia: «Il centro storico, privo com’è di vincoli di destinazione urbanistica, sarebbe condannato a diventare, come in parte già è, una semplice vistosa vetrina turistica, fast-food, pizzerie, boutiques, eccetera, con l’immancabile snaturamento anche ambientale e architettonico. […] L’operazione Fiat-Fondiaria è un esempio di quella che viene chiamata “urbanistica contrattata”: l’ente pubblico rinuncia ad essere il protagonista della e scende a patti col privato, col rischio di cedere a scelte arbitrarie e trascurare l’interesse generale».

  4. L’annoso dibattito sul potenziamento dell’aeroporto e sulla nuova pista parallela alla Firenze-mare potrebbe rientrare tra le riconversioni urbane che sono qui in oggetto; tale iniziativa, sostanzialmente privata, sempre che – superando le contrarietà che si levano da tutta la Piana – possa concretizzarsi, rientra tra le “mutazioni” gravemente negative che l’area metropolitana potrebbe subire in termini ambientali. Un più rapido collegamento ferroviario con Pisa e magari il ripristino del check-in che era stato organizzato anni fa in Santa Maria Novella con lo sbarco diretto al Galilei, appaiono senz’altro soluzioni più ragionevoli.

  5. Evento che ha finora mosso la firma di oltre seicento personalità di spicco e di comuni cittadini, con una larga mobilitazione in rete. Nel rimpallo delle competenze tra Stato e Comune, il confronto tra speculazione e tutela è comunque destinato a proseguire.

  6. Maggior fortuna sembra arridere alla riconversione della novecentesca caserma «Lupi di Toscana» a Scandicci che con i suoi 53 mila metri quadri consentirà di ricavare 500 appartamenti destinati per il 70% a famiglie in difficoltà e a essere – come afferma il sindaco Nardella (in un redazionale de «La Repubblica» del 21 gennaio 2021) – motivo di rinascita profonda della città e di tutto il quadrante sud-ovest. Con un investimento di 120 milioni interamente pubblico, basata su principi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, prenderà vita, a cominciare dalla metà del ’22, un nuovo pezzo di città giardino dove non mancheranno – si annuncia con la più modaiola terminologia anglosassone – start-up, spazi di co-working, attività culturali e sociali e perfino un’innovativa linea di trasporto pubblico, destinata, vivaddio, a servire anche l’ospedale di Torregalli.

  7. La villa vera e propria, impostata su un registro toscano neo-cinquecentesco e dotata all’interno di un monumentale scalone d’accesso al piano nobile, si deve al progetto dell’architetto Aleksandr Julievic Jag e risale all’ultimo Ottocento. All’incirca coeve le due palazzine che prospettano su via Lorenzo il Magnifico incluse nella proprietà. Il corpo moderno eretto sul retro, nel giardino che circonda la villa per integrare i servizi offerti dalla clinica, si deve invece all’architetto Ettore Rafanelli e non ha significativi pregi architettonici. Ragguardevole, per posizione e superficie, il valore immobiliare dell’insieme.

  8. Titolo comparso in una testata troppo scientifica e di nicchia per muovere denunce da parte del Municipio come invece più di recente è successo in altri casi di audience più estesa.

  9. Ivi, complessivamente, le pp. 66-87.

  10. Su questa linea le diagnosi recenti dell’urbanista Giandomenico Amendola («Corriere Fiorentino» del 15 maggio 2012). Anche prescindendo da interventi specialistici come questo, si può notare che le critiche alla amministrazione, in una città dal “biasimo pronto e sempre insoddisfatta”, sono quasi divenute un genere letterario largamente praticato dai quotidiani locali oltre che da più comitati e vari gruppi spontanei.

  11. Z. Baumann, Vita liquida, Roma-Bari, 2008, p. 78 e passim. Per quanto segue, «Corriere Fiorentino» 30 maggio 2021.

  12. Viene qui a proposito una testimonianza personale. Tra l’eterogenea popolazione dei miei studenti di ingegneria, una ragazza cinese, curiosa di tutto e di tutti, anche dei fatti personali dei docenti, saputo che abitavo nei pressi del Duomo, si sganascia dal ridere come se tale residenza potesse rientrare tra le amenità più impreviste. Evidentemente non era proprio contemplata una moderna contaminazione tra le zone dove si può abitare e quella dove appunto stanno i turisti.

  13. Per tutta intera la questione del Franchi, con le varie, anche pregresse, ipotesi di trasferimento nella Piana, quelle di demolizione e per le funamboliche inversioni di pensiero della amministrazione cittadina, vedasi ancora l’ultimo fascicolo di «Ananke», il 92, dove da Tirana a San Siro, al Flaminio si discutono altre riconversioni calcistiche eseguite o in progetto. L’insistito richiamo a questa testata dipende appunto dal fatto che il tema si allarga qui ad altri casi di trasformazione, di restauro, di riconversione discussi a prescindere da folclori e localismi.

  14. Il presidente di Italia Nostra, reo di essersi opposto alla trasformazione di un vasto appezzamento di campagna nel comune di Bagno a Ripoli soggetto a vincolo paesistico, dove viene sorgendo il nuovo centro sportivo della Fiorentina, è stato fatto oggetto di minacce e le iniziative della stessa associazione disturbate con sguaiata ignoranza dalla tifoseria.

  15. E. Ferrara, Nardella. Faremo 18 case della salute e la grande Firenze, in «La Repubblica» del 21 maggio 2021. In un epocale sinedrio con gli undici comuni dell’area metropolitana previsto in giugno, si annunciano politiche efficaci per la sanità, per la casa popolare, per i trasporti urbani, per il nuovo aeroporto, per gli impianti di smaltimento. In chiusura, sollecitato sul tema del ripopolamento del centro, il sindaco sembra comunque attenuare le diagnosi negative riconnettendole al calo delle nascite, più che all’espulsione della residenza stabile che anzi starebbe per essere rilanciata dal social housing della ex caserma dei carabinieri alla Stazione (ma si tratta complessivamente di 4000 mq). All’annunciato stop a nuovi alberghi si fa corrispondere l’incoraggiamento di foresterie e studentati anche più economici per intercettare la fascia media. Dichiarando una strenua lotta a tutti i luoghi dismessi, evocando il Palazzo delle Arti in San Firenze, il Conventino e Sant’Orsola per artigianato e alta formazione, le start-up alla Caserma Cavalli, ringraziando «l’architetto Casamonti che ha comprato il teatro Nazionale per farci cultura impedendo una spa» e auspicando da parte della Camera di Commercio un impiego di qualità per l’ex cinema Capitol, il sindaco si dichiara convinto che alla fine del suo mandato «ogni pezzo di Firenze avrà una destinazione».

  16. Ancora attuali tra le tante, le osservazioni di Salvatore Settis in Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002 e particolarmente quelle sugli ingorghi e sui pasticci di destra e di sinistra, creati dal labirinto legislativo, nel “triangolo delle Bermude” tra Stato, Regioni e privati, commentate nel cap. XII, Le mosse della svendita…, p. 103 e sgg.

  17. Il sistema moda, design, arte, afferma il filosofo e critico, ubbidisce a una sorta di grande fratello che ti dice cosa devi pensare, quale gusto devi avere. Ad esso si allineano giornali e riviste in un conformismo, in una sorta di generale avanguardia di massa, che rende quasi impossibili azioni e pensieri disallineati e originali. Mi riferisco ad una conferenza del 2016, organizzata dall’ISIA di Firenze presso le Murate.

  18. Il problema di un rarefatto contributo locale si è posto, ci sono in atto dei pentimenti. Tant’è vero che un consorzio di sei importanti gallerie cittadine, nonostante il Covid, aprono al pubblico per esporre per un mese opere di giovani artisti che vivono o gravitano stabilmente in città. L’iniziativa che si intitola Primo Vere, nasce da un’idea del direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti. Si vuole «fare sistema per dare un segnale di rinascita culturale della città dimostrando che Firenze non è una città-vetrina, ma città-laboratorio dove i giovani decidono di risiedere per vivere esperienze formative, maturare e intercettare l’interesse degli operatori del settore».

  19. Per questa brulicante intraprendenza, rimanderei al mio L’industria dell’Arte. Materiali e prodotti della Toscana unita, Firenze, Edifir, 1995 e, già che sono ad autocitarmi, a qualche più recente considerazione sui cazzetti davidici in ceramica e altre simili amenità in Fasti medicei e città d’arte contemporanea in Attualità dell’effimero urbano. Dai medici alla città metropolitana, Catalogo della mostra e contributi al convegno, a cura di M. Dezzi Bardeschi, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana e Accademia delle Arti del Disegno, 2016, pp. 218-225. Convegno partecipato da amministratori e varie personalità e concluso con la firma di un documento che sottolineando l’importanza delle riconversioni di tanti contenitori del centro cittadino, auspicava la continuità tra passato e contemporaneo non solo legata a manifestazioni dell’effimero.

  20. Per la verità «l’albero del paradiso», del maestro dell’arte povera, coprodotto dagli Uffizi e dal Comune, di commenti ne ha suscitati fin troppi: ma per lo più vernacolari e scandalizzati dalla collocazione e dalla rarefatta nudità di quei racemi. A meno magari di Vittorio Sgarbi, resistente, come è noto, alle contaminazioni tra antico e contemporaneo (come per la Loggia di Arata Isozaki), il profilo delle invettive conferma la separatezza, l’assenza di dialogo di cui stiamo dicendo.

  21. Ascari, P (2020), Corpi e recinti. Estetica ed economia politica del decoro, ombrecorte, Verona.