Elena Dorato | Città fragile | Vol II | Futuri urbani
La città della sindemia
Esattamente un anno fa, sulle colonne della prestigiosa rivista medica The Lancet, il direttore Richard Horton proponeva di considerare il Covid-19 come una “sindemia”[1] (termine già introdotto dall’antropologo e medico Merril Singer alla fine del secolo scorso) per sottolineare le origini sociali del fenomeno. Horton sostiene come non importi quanto efficace possa essere la protezione fornita da un determinato farmaco o vaccino, poiché una soluzione meramente biomedica al virus è destinata inevitabilmente a fallire. L’idea che sottende alle sue considerazioni è, dunque, che politiche sanitarie serie e responsabili non possano prescindere dal considerare le interazioni biologiche e sociali della malattia, agendo su diseguaglianze, disparità economiche, fragilità e patologie croniche, perché la condizione di quelle che potremmo definire come nuove vulnerabilità – ampiamente messe in evidenza dagli avvenimenti di questi mesi – rende palese la necessità di adottare uno sguardo e un approccio “allargato”. L’errore indicato da Horton, ovvero l’aver considerato la malattia infettiva come unica causa della crisi, concentrandosi pertanto sull’isolamento del virus attraverso l’interruzione delle catene di trasmissione, ha rapidamente portato a quello che alcuni autori hanno battezzato come Quarantine Urbanism[2]: l’imposizione di una netta separazione spaziale tra ciò che è considerato sano, pulito, sicuro e ciò che invece è malato, sporco, pericoloso, potenzialmente letale, esercitando inevitabilmente una nuova forma di controllo sui corpi, sulle loro condizioni di salute e sugli spazi che questi abitano.
Come sostengono gli autori, nella “città della quarantena” – slogan che si avvale di un termine medico “logoro” per riportare al centro del dibattito la connotazione etica del legame tra corpo e spazio – le interazioni sociali non avvengono più all’interno degli spazi pubblici (la dimensione pubblico-relazionale urbana è negata in tempi di Pandemia in nome di una sorta di nuovo urbanesimo che sposta significati e significanti dagli spazi aperti della città agli interni delle abitazioni)[3], bensì si manifestano attraverso la riconfigurazione di nuovi “corpi sociali” quali, ad esempio, i gruppi a domicilio in supporto alle persone più fragili. Analogamente, il commercio si sposta dalle strade al delivery porta a porta, il lavoro si de-materializza e diventa smart, la scuola si fa a distanza. Indubbiamente, gli avvenimenti di questo ultimo anno e mezzo stanno contribuendo a iper-velocizzare una transizione già avviata nel corso degli ultimi vent’anni, durante la quale la dimensione (e il significato) dello spazio urbano è fortemente cambiata, spostando attività e relazioni dallo Spazio pubblico – complesso, stratificato, spesso conflittuale – a quello privato, parallelamente allo spostamento di rapporti e attività dal piano fisico a quello virtuale grazie a un processo senza precedenti di sperimentazione e diffusione “forzata” della tecnologia, per velocità ed estensione[4]. Come conseguenza, il paesaggio urbano contemporaneo, sempre più globale e costantemente connesso, subisce un processo di omogeneizzazione, regolamentazione e controllo, dove molte teorie di architetti e urbanisti diventano slogan per razionalizzare ed esprimere l’assenza di qualsiasi politica e dimensione pubblica urbana adeguata ed efficace. Questi sono, ad esempio, i casi delle teorie già espresse da Webber della community without propinquity[5] e del non-place urban realm[6], oppure il placelessness[7] descritto dal geografo Edward Relph.
Questo “spostamento” fisico-relazionale dei corpi e delle interazioni tra questi su un piano privato e virtuale, specie se acuito dalle imposizioni dettate da un’emergenza sanitaria, comporta anche una ridefinizione dei concetti di sicurezza, controllo, sorveglianza. Se già in epoca pre-pandemica «[…] technological devices influence[d] our dialogical practices and joint actions between subjects as well as the spatial use of public space»[8], oggi è indubbio che il discorso abbia assunto una portata e un’estensione molto maggiore, sconfinando dal “semplice” dominio percettivo-comportamentale a un tema di diritti. All’inizio del primo lockdown, nel marzo 2020, dalle colonne del Financial Times lo storico israeliano Yuval Harari ci metteva in guardia sui rischi della “città della quarantena”:
A big battle has been raging in recent years over our privacy. The coronavirus crisis could be the battle’s tipping point. For when people are given a choice between privacy and health, they will usually choose health.[9]
Harari sostiene come la rilevanza non sia tanto nell’indignazione rispetto a fenomeni di controllo e manipolazione che, di fatto, esistono da anni, quanto nella consapevolezza che un’emergenza sanitaria globale come quella che stiamo – ancora – vivendo potrebbe rappresentare una vera e propria svolta in termini di sorveglianza. Non solo perché potrebbe normalizzare il dispiegamento di strumenti di sorveglianza di massa anche in Paesi che finora li hanno rifiutati (dinamica che si è indubbiamente verificata, nonostante alcuni clamorosi fallimenti gestionali), ma ancor più perché rappresenta un passaggio drammatico dalla sorveglianza over-the-skin a quella under-the-skin. Infatti, la raccolta e il conseguente utilizzo di dati biometrici, formalmente legati in questo caso al contenimento del virus, apre inevitabilmente la via a un nuovo livello di controllo basato sulla conoscenza “in diretta” delle nostre condizioni di salute, ma anche delle nostre caratteristiche psicofisiche e delle risposte emozionali alla realtà e agli eventi che ci circondano. Un rischio, questo, che molto si avvicina al modello del “bio-potere dello Stato moderno” già teorizzato da Michel Foucault nel 1976[10]. Invocando come causa di forza maggiore la tutela della salute dei cittadini, numerosi Governi si sono dotati in questi mesi di quei sensori e algoritmi tipici della cosiddetta smart city o, per essere più precisi, della U-city: una Ubiquitous City[11] basata sull’onnipresente infrastruttura fisico-computerizzata, un modello di “città” che muove da una visione tecnocratica[12] della pianificazione e della risoluzione di conflitti e problematiche urbane complesse, facendo affidamento su controllo, sicurezza e tecnologia. Nelle parole di Koolhaas,
A new trinity is at work: traditional European values of liberty, equality, and fraternity have been replaced in the 21st century by comfort, security, and sustainability. They are now the dominant values of our culture, a revolution that has barely been registered.[13]
Come sostenuto ormai da diversi economisti e sociologi, la sicurezza fisica e individuale del cosiddetto “stato di sicurezza” sta di fatto rimpiazzando quella dello stato sociale, con un impatto significativo sugli spazi – fisici e sociali – degli ambienti urbani che abitiamo quotidianamente. Analogamente ad altri processi relativamente recenti (tra gli altri, quello evidente di medicalizzazione cui l’architettura e la società in generale è ormai ampiamente soggetta[14]), quella che gli anglo-sassoni definiscono securitization della città si sta ampliando ed espandendo: dalla lotta al terrorismo, cyber crimine, cambiamenti climatici e conflitti fisici, ad ogni sorta di nuova dinamica urbana, dovendo includere oggi nella lista anche l’opera di contrasto a virus globali, sollevando non poche questioni (tra le altre) in termini di abitabilità urbana e libertà di movimento e comportamento all’interno degli spazi della città. «As securocratic transformation proceeds, welfare states are simultaneously being re-engineered as risk-management systems, geared not towards the social welfare of communities but towards controlling the location and behaviour»[15] dei corpi (umani) all’interno dello spazio (urbano).
Parallelamente, assistiamo a un altro drammatico scontro etico, spaziale, di diritti, ovvero a quanto Bernardo Secchi aveva già definito come la “nuova questione urbana”[16]:
Oggi la nuova questione urbana emerge in anni di profonda crisi delle economie e delle società occidentali, anni in cui la crescente individualizzazione e destrutturazione della società e una maggiore consapevolezza della scarsità delle risorse ambientali, unita a domande crescenti nei confronti della sicurezza, della salute e dell’istruzione, del progresso tecnologico e del cambiamento delle regole dell’interazione sociale, costruiscono immagini, scenari, politiche e progetti che sono in parte contrastanti gli uni con gli altri.[17]
Quanto discusso da Secchi guarda al tema delle disuguaglianze in termini fortemente spaziali, ponendo l’accento sulle linee di demarcazione che si vengono a tracciare nello spazio – complice il progetto urbanistico, le sue intenzioni e le sue conseguenze – al fine di distinguere, escludere, separare; la stessa dinamica che soggiace alla “città della quarantena” e che in questi mesi ha gettato gli strati più vulnerabili della popolazione in condizioni di accresciuto disagio economico, sociale, fisico e spaziale, riprendendo il concetto di “capitale spaziale” già introdotto da Soja[18] argomentando i concetti di ricchezza e povertà.
L’urgenza nell’adozione di nuovi dispositivi di controllo (o prevenzione, a seconda della prospettiva) della popolazione alla scala urbana è stata presentata come una misura necessaria, intrapresa in tempi di emergenza sanitaria applicando anche quelle retoriche della sicurezza già discusse da Bauman, al fine di trasformare eventi o crisi contingenti in fenomeni potenzialmente perenni[19], cronicizzati – per usare la metafora sanitaria. Misura che, secondo la narrazione, una volta tornati alla “normalità” potrà essere sospesa, revocata, cancellata. Eppure qui sorgono altre due questioni fondamentali: la prima è legata alla legittimazione delle scelte[20]; la seconda al concetto stesso di emergenzialità che, specialmente in contesti lenti come l’Italia, sappiamo essere un fenomeno capace di protrarsi nel tempo fino a diventare una sorta di “nuova normalità”. Se è vero che le disposizioni temporanee pensate per far fronte a una crisi o una catastrofe hanno spesso la tendenza a perdurare nel tempo, superando l’emergenza e strutturandosi come vere e proprie nuove realtà territoriali, urbane, architettoniche o abitudini socio-comportamentali, oggi più che mai appare necessario interrogarsi – a livello disciplinare – sulle politiche di governo del territorio e sulle forme insediative che queste generano, o potrebbero generare. Utilizzando la riflessione del sociologo e teorico del progetto Benjamin Bratton,
The sense of emergency is palpable and real. But instead of naming this moment a “state of exception,” we see it more as revealing pre-existing conditions. The consequences of poor planning (or no planning), broken social systems, and isolationist reflexes are explicit. Vigilance should not be maintained against the “emergency” on behalf of familiar norms, but against those dysfunctional norms returning after the coast is declared clear. We must keep attention trained on the pathologies revealed, and in doing so willfully inhabit a changed world and its many challenges.[21]
In altre parole, la domanda che forse dovremmo porci non è tanto come sarà la città post-Covid (come se, miracolosamente, ci aspettassimo un cambiamento rapido, in qualche modo risolutore e trasversalmente applicabile), ma, piuttosto, quale idea di salute vogliamo perseguire? E come questa può influenzare le decisioni – anche – sui modelli di sviluppo urbano?
Retoriche urbane
Dopo un anno e mezzo dalla dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rispetto all’emergenza sanitaria dovuta al virus Sars-CoV2[22], il corpus di riflessioni, scritti, dibattiti in merito alla “città pandemica” è indubbiamente ricco, accomunato dall’impossibilità, tutt’oggi, di prefigurare con relativa esattezza quale futuro urbano ci aspetti, ma producendo una serie di visioni e scenari più o meno plausibili, più o meno auspicabili. Quel che tuttavia pare piuttosto lampante è la ricorrenza di alcuni temi, il riemergere di questioni urbane che sono rimaste per lungo tempo sopite all’interno della discussione disciplinare. Non è corretto sostenere che la situazione che stiamo vivendo e che abbiamo vissuto in questi ultimi tempi, seppure ci appaia inedita, abbia posto delle “nuove sfide”; piuttosto, la pandemia (o meglio dire, la sindemia) ha agito da acceleratore, da cassa di risonanza rispetto a dinamiche già in essere, esacerbando situazioni conflittuali e mai risolte. In un momento di rinnovata attenzione sulle relazioni tra salute e città, tra corpi umani e corpi urbani (con un dibattito pubblico che ha spesso teso alla retorica e alla banalizzazione di temi, questioni e possibili soluzioni) concetti complessi quali “Abitare”, “prossimità”, “Densità” sono stati riportati al centro della discussione, proponendo come nuove intuizioni e soluzioni spaziali alcuni assunti o “ricette” già note[23].
È questo, ad esempio, il caso della retorica della “città dei 15 minuti”, uno slogan che ha recentemente incontrato grande successo in Europa e non solo. Nelle decine di articoli apparsi sul tema nell’ultimo anno, il modello policentrico della città del quarto d’ora è stato fortemente associato a una dimensione urbana più “umana” e quindi in qualche modo più governabile, giusta e salubre, basata sulla mixité funzionale e su servizi efficienti e diffusi, infrastrutture per la mobilità attiva e sostenibile sicure e distribuite in maniera capillare sul territorio, sulla presenza di spazi verdi pubblici accessibili, diffusi e di qualità; il tutto tenuto insieme e interpretato in una chiave temporale, attraverso la variabile “tempo”. Inserendosi quasi nel filone del cosiddetto “crono-urbanismo”, questo modello si presenta come una (non)nuova armatura urbana e territoriale tempo-centrica direttamente collegata alla dimensione spaziale e socio-relazionale della “prossimità” (altra parola-chiave di questo periodo), sollecitazione perlopiù in antitesi con la prevalente prassi urbanistica dell’ultimo secolo fondata sulla zonizzazione funzionale e sulla realizzazione di grandi arterie viarie per la fluidificazione del traffico veicolare privato. Metropoli occidentali come Portland, Melbourne[24], Parigi[25] stanno, di fatto, attingendo ancora a piene mani alla teoria americana della Neighborhood Unit[26], sviluppata da Clarence Perry a cavallo tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso per un’espansione alternativa della città di New York. A distanza esattamente di un secolo, nel caso parigino in particolare, la coincidenza dei punti programmatici con la teoria di Perry appare evidente: la costituzione (o ri-costituzione) dell’unità-quartiere deve fondarsi attorno ad alcuni elementi essenziali quali la presenza di una scuola elementare[27], di abitazioni in numero e qualità adeguate alle esigenze della popolazione residente, di negozi di vendita al dettaglio, spazi verdi (oggi spesso interpretati attraverso interventi di “vegetalizzazione”), campi da gioco e edifici pubblici, culturali e di aggregazione. In linea con le tendenze contemporanee già citate nel paragrafo precedente, Parigi aumenterà anche di cinquemila unità il presidio degli agenti di polizia all’interno dei quartieri, al fine di “garantire sicurezza” sorvegliando i comportamenti dei cittadini.
La città dei 15 minuti (tempo) vuole essere la città della mixité e della prossimità (spazio) ed è da molti anche definita la “città a misura d’uomo”. Ma quale città per quale uomo? La tradizione urbanistica Modernista per “l’uomo nuovo” (maschio, bianco, sano, di mezza età e automobilista) ci ha indubbiamente lasciato un’eredità a dir poco ingombrante. L’essere umano, o meglio l’homo complexus dell’“umanesimo rigenerato” di cui scrive Edgar Morin[28], pur nella sua eterogeneità è sempre lo stesso; ciò che cambia e si modifica sono i contesti urbani intorno a noi che, in un’azione simbiotica, rispondono a diversi modelli di sviluppo possibili. Come sostiene la filosofa americana Elizabeth Grosz quando ci dice che «[…] the city is made and made over into the simulacrum of the body, and the body, in its turn, is transformed, “citified,” urbanized as a distinctively metropolitan body»[29], l’urbanizzazione del corpo (citification) e la corporalizzazione della città (bodification) fanno riferimento a due differenti modelli. Il primo, affondando le radici nella storia, intende la città come una produzione diretta del corpo, come il riflesso della volontà umana: i nostri bisogni e le nostre capacità progettuali fanno la città, implicando un potere causale attivo. Il secondo modello, di ben più recente concezione, prefigura invece il rapporto inverso: «[…] cities have become (or may have always been) alienating environments, environments which do not allow the body a “natural,” “healthy,” or “conducive” context»[30]. Secondo quest’ultima interpretazione, la città e i corpi che la producono possono esercitare una retroazione negativa, causando alienazione e condizioni (ambientali e sociali) di salute sfavorevoli.
Un altro tema attorno al quale si è tornati a discutere con insistenza in epoca sindemica è quello della densità urbano-insediativa (oltre che della concentrazione o rarefazione dei corpi nella condivisione di un determinato spazio), additata nelle prime settimane di confinamento come “il male” dell’urbanità contemporanea, la condizione da cui fuggire a tutti i costi. Per inquadrare, seppur a grandi linee, la questione, è bene ricordare come a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso parte del dibattito epidemiologico si sia concentrato sulla definizione di un “vantaggio urbano” relativo alla salute della popolazione (il cosiddetto urban health advantage), in contrapposizione alla teoria fino a quel momento prevalente dell’urban health penalty[31]. Sulla base della comparazione dei dati epidemiologici della popolazione urbana e rurale di determinate parti del mondo, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che lo stato di salute delle comunità urbane è generalmente migliore rispetto a quello della popolazione rurale e suburbana, intendendo la salute nell’accezione ampia e complessa di stato di completo benessere fisico, sociale e mentale[32]. Tra i diversi aspetti che, secondo la teoria del “vantaggio” urbano, garantiscono migliori condizioni di salute alla popolazione, la “densificazione” incarna il mantra globale delle politiche pianificatorie degli ultimi decenni. Numerosi studi hanno identificato la densità insediativa con il concetto stesso di sostenibilità, poiché la città sostenibile – a cui oggi potremmo aggiungere e associare anche gli attributi di “resilienza” e “salubrità” – non può che essere densa, compatta, ad uso misto[33], ricca di spazi pubblici e verdi di qualità.
Ma ecco che, con l’avvento di un virus globale, la paura del corpo-a-corpo e il rafforzamento del concetto di città della quarantena ci hanno (ri)portato a intendere la co-esistenza e la condivisione dello spazio come qualcosa di pericoloso. “Denso” diviene sinonimo di “infetto”, ristabilendo una forte tensione tra disaggregazione (la separazione fisica della popolazione nello spazio come forma di prevenzione dal contagio) e concentrazione (o densificazione). Di nuovo, ci troviamo di fronte a un conflitto che si gioca su diversi livelli. Un esempio, ampiamente sostenuto dall’evidenza scientifica, è quello dei benefici della densità rispetto a una maggiore efficienza energetica e un più funzionale “metabolismo” urbano; tuttavia, come ci ricorda Richard Sennett[34], si prospetta nel medio-lungo periodo un nuovo, potenziale conflitto tra le istanze contrastanti di salute pubblica e quelle climatiche. Alcuni studi scientifici condotti in questi mesi hanno dimostrato (prima della somministrazione dei vaccini) come la densità non risulti essere il fattore prevalente e scatenante il contagio. Ad esempio, i dati raccolti e pubblicati dalla World Bank sul caso cinese[35] non hanno rilevato una causalità diretta, analogamente ad alcuni studi condotti negli Stati Uniti, sia su un ampio campione di contee metropolitane[36], che su alcune città quali Chicago[37] e New York[38]. Dalla ricerca di Hamidi e colleghi si evince come la popolazione metropolitana (americana) rappresenti sì uno dei predittori più significativi dei tassi di infezione, ma che tuttavia la densità insediativa non è significativamente correlata alla percentuale di infezione. Al contrario, le contee con maggiore densità risultano avere tassi di mortalità legati al virus significativamente più bassi rispetto a quelle meno dense, un risultato che suggerisce una maggiore rilevanza del fattore “connettività” territoriale rispetto alla densità (riflessione che, di fatto, è applicabile anche al nostro contesto nazionale, come discusso da diversi autori)[39].
Ciò che emerge chiaramente da questi studi è una forte correlazione tra il benessere socio-economico della popolazione residente nei diversi quartieri o aree analizzate e la diffusione del virus; constatazione che, ancora una volta, ci riporta al tema fondamentale delle disuguaglianze sociali e della segregazione socio-spaziale rispetto alle disuguaglianze di salute. Nella primavera 2020, ad esempio, le mappe a colori pubblicate sulla diffusione del contagio a New York City erano inquietantemente sovrapponibili con quelle della segregazione sociale e del disagio abitativo urbano, così come gli studi condotti sulla diffusione del virus in India o in alcuni contesti dell’America Latina ci mostrano la diretta correlazione tra gli slums o le favelas e i più alti tassi di malattia e mortalità.
Se la “città come Cura” è un modello da reinterpretare
Anche alla luce delle considerazioni appena fatte, si potrebbe affermare che il tema della “città pandemica” sia direttamente associato alla spazializzazione della malattia: ovvero, a quel processo che, a partire dalle inchieste sanitarie delle città ottocentesche europee della rivoluzione industriale, ha portato i primi riformisti sociali a definire sulla mappa i confini (fisici, urbani) della diffusione di determinate patologie all’interno dei quartieri operai, arrivando a isolare i corpi malati e, contemporaneamente, a dare vita alla disciplina urbanistica moderna – in origine un unicum con la salute pubblica – come terapia in grado di curare la malattia urbana.
In questi mesi, è indubbio che si sia riscoperta un’attenzione verso i corpi (umani): dalla dolorosa solitudine del corpo malato, contagiato a sua volta da un corpo-a-corpo, al “sacrificio” dei corpi più fragili in nome di un “bene superiore”[40], fino all’isolamento coatto del corpo (a cui non è più permessa l’aggregazione con altri in corpo sociale), con finalità preventive. Al “corpo vivo” che, per sua natura, si modifica nel tempo in una costante tensione tra condizioni di salute e malattia, l’immaginario collettivo ha sostituito l’idea (o l’ideale) di corpo sano, che diviene così il vero obiettivo da raggiungere[41], e dunque anche la città deve essere “sana”, alimentando la lunga serie di aggettivazioni e metafore biologico-corporee che, sin dall’antica Grecia, vede i corpi umani e urbani definirsi a vicenda, condividendo un linguaggio anatomico (organi, arterie, metabolismo, tessuti, rigenerazione, porosità) e un’analoga interpretazione psicologica e socio-politica (ad esempio alimentazione, controllo, confine, malattia, ansia, esaurimento, immunizzazione, quarantena)[42].
«Modernity was driven by illness»[43], scrive la storica dell’architettura Beatriz Colomina in apertura del suo libro X-ray Architecture, pubblicato pochi mesi prima dell’esplosione della pandemia, asserendo come la malattia abbia guidato il discorso architettonico nel corso del Ventesimo secolo. Ad oggi, possiamo affermare che la (ricerca della) salute ha condizionato e continua a condizionare il modo in cui ci relazioniamo al nostro proprio corpo e ai corpi degli altri, allo spazio che ci circonda, al tempo e alle risorse (economiche, sociali, affettive) di cui disponiamo. Non da ultimo, la “cura” della malattia ha ossessionato il progetto alle diverse scale, proponendo e spesso imponendo soluzioni, materiali, tipologie architettoniche e modelli urbanistici divenuti, in alcuni casi, prassi consolidata[44]. «Il corpo è fragile, si ammala. Il progetto affronta questa fragilità», scrive Bianchetti,
[…] come era accaduto cento anni prima, con il colera nel XIX secolo, in un mondo già globalizzato per lo spostamento di truppe militari e di merci, in cui le epidemie non solo generavano centinaia di migliaia di morti, ma cambiavano la struttura della società […]. Allora, gli igienisti, medici e ingegneri, nello sforzo titanico di contrastare la malattia […] disfacevano e ricomponevano la città.[45]
Un operare per profonde modificazioni fisico-spaziali che, al tempo dell’Antropocene, forse non possiamo più permetterci. E allora si sperimentano soluzioni “altre” che tuttavia, agendo in una logica emergenziale, scontano troppo spesso una mancanza sostanziale di visione politica e capacità di governance. L’“arretramento/liberazione” dello spazio urbano di cui ci parla Tosi[46], ad esempio, si è rivelata una dinamica potenzialmente virtuosa, anche se quasi completamente dipendente dalla lungimiranza e capacità decisionale dei singoli Enti. Abbiamo tirato una boccata d’aria fresca – letteralmente – con il blocco quasi totale della circolazione carrabile e il rallentamento della produzione industriale, fantasticando dalle nostre finestre su altri futuri possibili (comprando biciclette e monopattini, andando a correre intorno all’isolato di casa, fuggendo al parco ad ogni occasione), salvo poi riassumere in questi ultimi mesi i comportamenti pre-pandemici già ritenuti “insostenibili”, oltre che nocivi per la salute. Lo spazio urbano si è disvelato “in negativo”: l’assenza dei corpi, di vita (sociale, pubblica) lo ha, da un lato, svuotato di significato e, dall’altro, ne ha fatto emergere le carenze strutturali. Carenze che, chiaramente, erano già forti e presenti ben prima dell’avvento del coronavirus, in primis a causa di consolidati processi di privatizzazione e controllo degli spazi della città, oltre che di una disattenzione cronica verso i bisogni “dei corpi” rispetto, ad esempio, alle necessità delle automobili (come già provocava Jan Gehl alcuni decenni or sono, tutte le municipalità hanno uffici dedicati al traffico e alle analisi dei dati sulla mobilità, ma nessuna città ha un ufficio per le persone: un “Dipartimento per la vita pubblica” che tenga in considerazione i dati sui pedoni e le loro esigenze). Dal punto di vista delle sperimentazioni urbane, il Covid-19 è stato un acceleratore per quelle realtà che già negli anni precedenti si erano interrogate strutturalmente su vivibilità, qualità urbana e ambientale, mobilità sostenibile, accessibilità ai servizi e welfare territoriale (specialmente i modelli legati alla sanità), agendo di conseguenza e sperimentando nuove strategie e strumenti.
Il dibattito sulla mobilità urbana è indubbiamente stato uno dei più accesi, con numerose città in tutto il mondo che dall’emergenza hanno tratto coraggio, attuando nuovi piani, politiche e interventi a favore delle persone, del movimento dei corpi, supportando e dando valore alla libertà di incontrarsi in sicurezza e vivere lo spazio pubblico: pedonalizzando strade e piazze, tracciando chilometri e chilometri di nuove infrastrutture ciclabili lungo le carreggiate – sottraendo per una volta spazio alle auto, invece che ai già risicati marciapiedi –, riducendo sensibilmente i limiti di velocità, aumentando le dotazioni dei mezzi pubblici[47]. Mentre in Italia beneficiavamo del “bonus bici” senza però avere le infrastrutture ciclabili adeguate, con timide modifiche al Codice della Strada anziché approfittare per un ripensamento integrale e coraggioso della norma, con le principali città italiane che aprivano i varchi alle – poche – ZTL per permettere il passaggio e la sosta alle automobili, i nostri cugini iberici, ad esempio, giovavano delle importanti pedonalizzazioni effettuate a tappeto a partire già dai primi anni Novanta, implementando nel maggio 2021 con un real decreto a livello nazionale il contenimento dei limiti di velocità urbani a 30 km/h (già 20 km/h per le strade senza marciapiede e 6 km/h nei centri storici) al fine di ridurre l’incidentalità e costruire città “più umane e sostenibili”, portando avanti iniziative come “Obrim Carrers” (apriamo le strade, a Barcellona) in cui grandi arterie di traffico vengono concesse, seppur temporaneamente, alla mobilità pedonale.
Partendo spesso anche dalle pratiche “spontanee” di uso degli spazi pubblici delle città cui abbiamo assistito in questi mesi, abbiamo capito che – tra le varie cose – serve più spazio per le persone: in termini di qualità, ma anche di quantità. Perché è indubbio che la paura del contagio, nella città pandemica, ci ha portato a fare maggiormente attenzione a quella che William Whyte ha definito “carrying capacity”[48], ovvero la capacità di un determinato spazio pubblico di essere condiviso dalle persone, ospitandone in quantità sufficiente per garantire vivacità urbana, senza tuttavia eccedere quel numero limite che potrebbe farci sentire a disagio (ma, come si interroga l’autore, «how many is too many?»[49]). La pandemia, pur non avendo ancora gli strumenti per affermare se in modo transitorio o duraturo, ha cambiato la nostra percezione rispetto alla “carrying capacity” dei luoghi che abitiamo, e questo è vero per gli spazi urbani così come per le nostre abitazioni. Lo straniamento che in molti abbiamo vissuto nel vedere le piazze transennate e i parchi chiusi ci ha fatto riscoprire un senso di appartenenza, a partire da una negazione: quello spazio ci appartiene e noi ne siamo parte poiché lo abitiamo, lo (ri)conosciamo, (ri)produciamo, trasformiamo e (ri)significhiamo. La piattaforma degli spazi pubblici urbani ci è vitale, oggi più che mai; uno dei pilastri fondamentali su cui basare e costruire politiche e interventi a supporto di città “abilitanti” e, per questo, potenzialmente più vivibili, eque, salubri. Questa nuova, vecchia sfida è complessa e profondamente interrelata a questioni urgenti e strutturali del vivere urbano contemporaneo, a cui in questo breve testo si è appena accennato, ma prendere consapevolezza dei limiti di ciò che stiamo (o non stiamo) facendo, con uno sguardo critico al passato, non può che aiutarci a guardare al futuro in maniera più coraggiosa e lungimirante, alimentando un dibattito che deve forzatamente aprirsi alla multi-disciplinarietà (o, meglio ancora, a una nuova trans-disciplinarietà). Prenderci cura gli uni degli altri, anche e soprattutto attraverso la produzione di spazi abilitanti, in un’ottica che non può e non deve più essere “curativa” ed emergenziale. Come ci ricorda Emery,
La cura non può ridursi, oggi più che mai, a conservazione. La cura va intesa come critica, come lotta per un ideale assente, la cui espressione si nasconde tutt’al più nella dimensione dei tagli, nelle rotture e nelle discontinuità rispetto al tessuto del presente. […] Le città sono e permangono processi, le città vanno pensate come processi di compenetrazione, capaci di ricavare, nei loro tempi lunghi, dalle stesse rotture, tagli, ferite e negazioni, vantaggi e soluzioni. […] La cura della città contemporanea […] implica piuttosto ristabilimento, rigenerazione processuale e permanente del senso dell’esistenza a partire da un’ontologia del possibile, della salute possibile.[50]
Note
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R. Horton, Offline: Covid-19 is not a pandemic, in «The Lancet», vol. 396, 26 settembre 2020, p. 874. ↑
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C. Bianchetti, C. Boano, A. Di Campli, Thinking with Quarantine Urbanism?, in «Space and Culture», vol. 23(3), 2020, DOI: 10.1177/1206331220938625, pp. 301-306. ↑
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E. Dorato, Città, Corpi, Salute, in «Urbanistica Informazioni», vol. 286, 2020, pp. 4-5. ↑
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Queste considerazioni si centrano sull’esperienza, seppur generalizzata, del mondo urbano occidentale; ben altre riflessioni si aprirebbero sulle numerose e popolosissime realtà che ancora vivono condizioni di forte disagio abitativo, senza possibilità di accesso ai servizi digitali, così come molto si potrebbe discutere sull’accezione “protettiva” e non conflittuale che ha assunto la dimensione privata nel nostro immaginario comune (basti pensare agli allarmanti dati sull’aumento delle violenze domestiche durante il confinamento, o sull’isolamento e le sue conseguenze). ↑
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M. M. Webber, Order in Diversity: Community Without Propinquity, in L. Wingo, ed., Cities and Space, Baltimore Johns Hopkins University Press 1963, pp. 23-56. ↑
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M. M. Webber et al., Exploration into Urban Structure, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1964. ↑
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E. Relph, Place and Placelessness, Pion, London 1976. ↑
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T. Hatuka, E. Toch, The Emergence of Portable Private-Personal Territory: Smartphones, Social Conduct and Public Spaces, «Urban Studies», vol. 53(10), 2016, p. 2194. ↑
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Y. N. Harari, The world after coronavirus, «Financial Times», 20 marzo 2020. ↑
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Cfr. M. Foucault, Il faut défendre la société. Cours au Collège de France (1975-1976). https://monoskop.org/images/9/99/Foucault_Michel_Il_faut_defendre_la_societe.pdf (ultimo accesso 20/09/2021). ↑
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S. Ho Lee et al., Towards Ubiquitous City: Concept, Planning, and Experiences in the Republic of Korea, in T. Yigitcanlar, K. Velibeyoglu, S. Baum, eds., Knowledge-Based Urban Development: Planning and Applications in the Information Era, Information Science Reference, Hershey 2008, pp. 148-169. ↑
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N. Calvillo et al., Test Bed as Urban Epistemology, in S. Marvin, A. Luque-Ayala, C. McFarlane, eds., Smart Urbanism. Utopian Vision or False Dawn?, Routledge, London 2015, pp. 145-167. ↑
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R. Koolhaas, My thoughts on the Smart City [Trascrizione di una conferenza al High Level Group Meeting on Smart Cities, Bruxelles, 24 settembre 2014], Commissione Europea – Digital Minds for a new Europe Series, 2014. https://ec.europa.eu/archives/commission_2010-2014/kroes/en/content/my-thoughts-smart-city-rem-koolhaas.html (ultimo accesso 10/09/2021). ↑
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Per un approfondimento sul tema, si veda G. Borasi, M. Zardini, eds., Imperfect Health: the Medicalization of Architecture, CCA and Lars Müller Publishers, Zurigo 2012; E. Dorato, Preventive Urbanism. The role of health in designing active cities, Quodlibet, Macerata 2020. ↑
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S. Graham, Cities under Siege. The New Military Urbanism, Verso, Londra – New York 2010, p. 94. ↑
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B. Secchi, A New Urban Question. Understanding and planning the contemporary European city, «Territorio», n. 53, 2010, pp. 8-17. ↑
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B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Bari 2013, p. 9. ↑
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E. Soja, Seeking Spatial Justice, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010. ↑
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Cfr. Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Mondadori, Milano 2005. ↑
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Non si fa qui riferimento a derive di isteria collettiva quali il movimento No-vax ma, piuttosto, al conflitto tra diversi diritti cui fa riferimento Harari. ↑
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B. Bratton, The Revenge of the Real. Politics for a Post-pandemic World, Verso, Londra – New York 2021, p. 8. ↑
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L’autrice scrive questo contributo nell’ottobre 2021. ↑
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R. Farinella, Retoriche urbane al tempo della pandemia, in «CONTESTI Città, Territori, Progetti», vol. 2/2020 – Special Issue 2020 “Beyond the Pandemic: rethinking cities and territories for a civilization of care”, DOI: 10.13128/contest-12289, pp. 49-64. ↑
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Entrambe queste città hanno, in anni relativamente recenti, messo a punto strumenti e politiche urbane finalizzate alla creazione di comunità più sane attraverso il decentramento dei principali centri di servizi e lavoro, incoraggiando la mobilità attiva all’interno e tra i diversi quartieri, puntando sul mix funzionale e su alloggi economicamente più accessibili, su servizi pubblici primari di qualità e diffusi sul territorio. In collegamento con il piano climatico della città dell’Oregon, il “Portland Plan” (approvato nel 2012) prevede che entro il 2030 il 90% degli abitanti potrà raggiungere da casa, a piedi o in bicicletta, qualsiasi servizio necessario nell’arco di venti minuti. Analogamente, il “Plan Melbourne 2017-2050” si configura come una strategia di pianificazione metropolitana attraverso cui rendere più labile la tradizionale separazione tra vita privata e lavoro. ↑
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Parte fondamentale della campagna elettorale per la rielezione della sindaca socialista Anne Hidalgo nel 2020, la proposta della “ville du quart d’heure” si può trovare in versione integrale al sito: https://annehidalgo2020.com/thematique/ville-du-1-4h/. ↑
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Cfr. C. A. Perry, The Neighborhood Unit, Monograph 1 in Commitee and Regional Plan of New York and its Environs (ed.) Neighborhood and community planning. Regional survey volume VII, New York Commitee and Regional Plan of New York and its Environs, 1929, pp. 40-141; C. A. Perry, The rebuilding of blighted areas: a study of the neighborhood unit in replanning and plot assemblage, New York Regional Planning Association, 1933. ↑
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Cfr. C. A. Perry, The School as a Factor in Neighborhood Development, Reprint no. 20 from the Proceedings of the National Conference of Charities and Correction – Memphis May 1914, Department of Recreation Russel Sage Foundation, New York 1914. ↑
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E. Morin, Cambiamo Strada. Le 15 lezioni del coronavirus, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020. ↑
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E. Grosz, Bodies-Cities, in B. Colomina, ed., Sexuality and Space, Princeton Papers on Architecture, New York 1992, p. 242. ↑
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Ivi, p. 245. ↑
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Cfr. D. Vlahov, S. Galea, N. Freudenberg, Urban Health. Toward an Urban Health Advantage, «Journal of Public Health Management Practice», vol. 11(3), 2005, pp. 253-258. ↑
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Si veda la definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella sua Costituzione del 1948. ↑
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A partire, in anni recenti, dalle considerazioni di R. Rogers, P. Gumuchdjian, Cities for a Small Planet, Faber and Faber Limited, Londra 1997. ↑
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Richard Sennett intervistato da Jack Shenker, Cities after coronavirus: how Covid-19 could radically alter urban life, «The Guardian», 26 marzo 2020. https://www.theguardian.com/world/2020/mar/26/life-after-coronavirus-pandemic-change-world (ultimo accesso 14/09/2021). ↑
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W. Fang, S. Wahba, Urban Density Is not an Enemy in the Coronavirus Fight: Evidence from China, The World Bank, 20 aprile 2020. ↑
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S. Hamidi, S. Sabouri, R. Ewing, Does Density Aggravate the COVID-19 Pandemic?, in «Journal of the American Planning Association», vol. 86 (4), 2020, pp. 495-509, DOI: 10.1080/01944363.2020.1777891. ↑
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H. Coryne, In Chicago Urban Density May Not Be to Blame for the Spread of the Coronavirus, ProPublica Illinois, 30 aprile 2020. ↑
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Si vedano i dati pubblicati dal NYC Department of Health and Mental Hygiene, su base censuaria, rispetto ai casi confermati di Covid-19 rispetto alla densità dei cinque distretti della città. ↑
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Cfr. M. Agnoletti, S. Manganelli, F. Piras, Covid-19 and rural landscape: The case of Italy, in «Landscape and Urban Planning», vol. 204, DOI: 10.1016/j.landurbplan.2020.103955; ↑
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E. Dorato, M.G. Bernardini, Il diritto alla città della cura. La condizione anziana in tempi di pandemia, in «CONTESTI Città, Territori, Progetti», vol. 2/2020 – Special Issue 2020 “Beyond the Pandemic: rethinking cities and territories for a civilization of care”, DOI: 10.13128/contest-12263, pp. 131-148. ↑
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Questa riflessione è frutto di un dialogo avviato con Cristina Bianchetti durante un incontro seminariale presso il DIST del Politecnico di Torino nell’ottobre 2021. ↑
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E. Dorato, Corpo umano/corpo urbano: riflessioni sulla riconquista fisico-comportamentale delle città, in «Urbanistica Informazioni», vol. 289 Special Issue, pp. 29-33. ↑
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B. Colomina, X-Ray Architecture, Lars Muller Publisher, Zurigo 2019, p. 11. ↑
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Cfr. E. Dorato, Preventive Urbanism…, cit. ↑
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C. Bianchetti, Corpi tra spazio e progetto, Mimesis Edizioni, Milano 2020, p. 31. ↑
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M. C. Tosi, Covid-19. Quando il presente non è più come una volta, in F. C. Nigrelli, ed., Come cambieranno i territori e le città dopo il Covid-19. Le tesi di dieci urbanisti, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 72-73. ↑
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In questi mesi, alcuni interessanti database hanno raccolto e schedato le diverse azioni intraprese da numerose città in tutto il mondo; si veda il “Shifting Streets Covid-19 Mobility Dataset” (https://www.pedbikeinfo.org/resources/resources_details.cfm?id=5235) e il “Covid-19 Livable Streets Response Strategies” (https://docs.google.com/spreadsheets/d/1tjam1v0NLUWkYedIa4dVOL49pyWIPIyGwRB0DOnm3Ls/edit#gid=0). ↑
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W.H. Whyte, The Social Life of Small Urban Spaces, New York Project for Public Spaces Inc., 1980. ↑
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W.H. Whyte, City: Rediscovering the Center, University of Pennsylvania Press, 1988, p. 165. ↑
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N. Emery, Il dettaglio e la piccola porta. La cura come immagine dialettica, in P. Miano, ed., HEALTHSCAPE. Nodi di salubrità, attrattori urbani, architetture per la cura, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 43-53. ↑