Pietro Forti, Susanna Rugghia, Federica Tessari (Scomodo) | Città viva | Vol III | Futuri urbani
Oggi Scomodo vive una fase di ristrutturazione e di riprogettazione del proprio percorso, interrogandosi sulle pratiche del futuro, sulla sostenibilità economica e umana e soprattutto sulla propria crescita. Uno dei tanti interrogativi risiede proprio nella visione e negli scenari possibili per le altre città rispetto alla creazione di comunità attorno a degli spazi fisici. Se da un lato è chiaro il legame con la storia “romana” del progetto, dall’altro non bisogna forzare la replicabilità di un modello e di una prassi politica nati all’interno di un contesto con le proprie specificità. Da sempre Spin Time Labs, il suo interno ed il suo esterno, definisce delle coordinate materiali con cui Scomodo non può che continuare a dialogare per costruire la propria identità.
Il punto zero
Venerdì 7 ottobre 2016, Roma, quartiere San Lorenzo. Primo pomeriggio. Chi passa da Piazza dell’Immacolata, la “piazzetta”, vede ragazze e ragazzi entrare e uscire dalle finestre. Si passano zaini, caschi, mazzi di chiavi. Le finestre sono del Liceo Statale Niccolò Machiavelli, che lateralmente dà sulla piazzetta ma la cui entrata è in via dei Sabelli.
Pochi minuti prima, va in scena una situazione vista e rivista centinaia, migliaia di volte. Una strategia vecchia come il mondo: una squadra di studentesse e studenti si è accordata con uno (o una?) delle componenti del personale ATA della scuola, una bidella (o un bidello?), che sottobanco gli ha lasciato il proprio mazzo di chiavi. È il fine settimana, lì i ragazzi non vanno a scuola il sabato. E non hanno alcun motivo di farlo, in realtà, perché sanno che l’occupazione durerà solo fino a domenica. Al massimo salterà un giorno di lavoro per la disinfestazione di rito che ha luogo ogni volta che la scuola rimane nelle poco sagge mani degli studenti. La squadra ha le chiavi, si nasconde nei bagni mentre compagne e compagni escono. Aspetta meno di mezz’ora e poi apre il portone al plotone. Tattica collaudata, il più classico dei cavalli di Troia.
È un po’ presto, il 7 ottobre, per occupare la scuola. L’autunno è ufficialmente cominciato da quindici giorni. E infatti il Liceo Machiavelli è il primo a occupare nella Capitale. Ma come la squadra rimasta in bagno e alcune delle persone che sono entrate dal portone sanno, quella occupazione della scuola non è solo di studentesse e studenti del Machiavelli.
Nella scuola di San Lorenzo tutte e tutti iniziano a spostare banchi e sedie, a organizzare quello per cui si stanno preparando da settimane. Ragazze e ragazzi di un altro liceo, il Liceo Artistico Statale Ripetta, salgono al secondo e al terzo piano, dove devono liberare le aule per le esposizioni delle opere degli studenti della propria scuola. In giro per la scuola iniziano ad apparire cartelli che scimmiottano le indicazioni e le insegne della metropolitana di Roma, con tanto di logo dell’Atac storpiato col nome del collettivo artistico che ha ideato e stampato i cartonati, “Ostia Male”.
Al portone della scuola, intanto, è arrivata la dirigente scolastica accompagnata da qualche agente di polizia. Chiede agli studenti del Machiavelli che intenzioni hanno. Ha capito, o qualcuno le ha detto, che dentro ci sono già i famigerati “esterni”. Un ragazzo ha il mandato della scuola e degli altri occupanti, e ripete alla preside che non hanno intenzione di occupare per molto. Domenica sera saranno già fuori dalla struttura, non vogliono far saltare giorni di scuola a tante compagne e compagni. Sa benissimo che un giorno, per la già citata disinfestazione, salterà comunque, ma non è il caso di essere puntigliosi. Inizia a piovere. Pioggia che continuerà ad andare e venire per i due giorni successivi.
Mentre in tutta la scuola tutti si agitano, pochi studenti sono seduti intorno a una cattedra lasciata in un corridoio del primo piano della scuola. Uno di loro rilegge un testo, un comunicato, scritto nei giorni precedenti e quasi pronto per la pubblicazione. Prima di pubblicarlo sulla pagina Facebook del loro progetto, vogliono essere sicuri di non aver fatto errori. Sono giorni che sulla pagina del progetto e su quella dell’evento che prenderà vita il giorno dopo, la “Notte Scomoda”, appaiono indizi. Non hanno ancora rivelato dove si svolgerà.
Il progetto si chiama “Scomodo”, è ufficialmente nato da meno di un mese, anche se sono mesi che ci lavorano. Le persone che ne fanno parte vengono quasi tutte da altri collettivi, e hanno ideato questo nuovo evento per finanziare il loro giornale mensile, tutto di carta.
Un’ultima rilettura prima di pubblicare.
«Crediamo che nella società di oggi essere scomodi voglia dire soprattutto ragionare, mettere in moto un pensiero, avere senso critico, fare arte, creare un fermento culturale e siamo convinti innanzitutto del potenziale costruttivo di tutto ciò.
A Roma, in Italia, si è radicata oramai un’idea sterile di cultura, di informazione, di intrattenimento e divertimento, della politica, di socialità e di aggregazione. La nostra generazione sta pagando questa mentalità al prezzo della mancanza di alternative, di proposte, di spazi, di sbocchi e risorse.
Crediamo che per smuovere questa situazione totalmente immobile sia necessario ripartire dalla scuola e dagli studenti. Per questo la base e la sostanza del nostro giornale è costituita da studenti e per questo abbiamo scelto di occupare il Liceo Machiavelli per la prima notte scomoda.
Da anni, forse troppi ormai, siamo soliti occupare i nostri licei per giorni e settimane senza riuscire sempre a dare un’impronta culturale o politica. E se oggi, tra gli innumerevoli spazi vuoti nella nostra città, abbiamo deciso di occupare, ancora una volta, un edificio scolastico è proprio perché vogliamo mostrare come le occupazioni possano avere, quando cariche di una motivazione e un significato forte, una forma e un’organizzazione che faccia vedere il modello di società che si propone, in opposizione con quello che si contrasta.
Siamo convinti che l’occupazione delle nostre scuole debba essere sì un forte ed importante momento di aggregazione e responsabilizzazione politica, ma crediamo che debba essere anche in grado di affiancare tutto questo a dei contenuti sociali e culturali palpabili, in quanto giovani e studenti.
L’occupazione di oggi è stata costruita affinché gli studenti non perdano alcun giorno di scuola e l’istituto stesso verrà restituito nelle stesse condizioni in cui l’abbiamo preso, senza danno alcuno.
Abbiamo scelto la scuola perché da qui inizi quel percorso di valorizzazione e riqualificazione di luoghi abbandonati che ci proponiamo di attuare con le Notti Scomode.
Perché nella scuola nasce effettivamente lo Stato e la società futura. Siamo convinti che il contatto diretto con esperienze che dimostrino come si possa costruire un modello di cultura e aggregazione migliore, più vicino a noi, possa essere decisivo affinché qualcosa possa cambiare.
Infine perché la scuola in Italia è quasi sempre vista solo come “luogo d’ufficio”, come un edificio-strumento, passivo, che si sfrutta esclusivamente per l’attività didattica, attività che in assenza di tutto ciò che può esserci nella scuola, diventa troppo spesso ridotta al nozionismo. È necessario invece immaginarsi una scuola sfruttata e attiva, fatta diventare un luogo d’incontro, un’anticamera della società soprattutto perché esperienza di vita che comprende più prospettive possibili, immaginarsi quindi una scuola più vicina ai bisogni degli studenti e questi ultimi protagonisti reali dei loro spazi. Vogliamo evolvere la didattica curricolare a qualcosa in grado di superare orari e protocolli, sviluppando un rapporto diretto e reciproco con le realtà circostanti, riuscendo a beneficiare il singolo e la collettività.
Il Liceo Machiavelli ne è un esempio perfetto: uno spazio incapace di vivere oltre le 6 ore di utilizzo formale e basilare, privo di attività extra curricolari che possano aiutare gli studenti a socializzare in un’atmosfera culturale. Atmosfera culturale che proprio in una zona come San Lorenzo, talvolta abbandonata al degrado e ancora a una forma di divertimento unilaterale, manca ed è necessaria.
Andremo quindi a creare un contenitore infinito di idee ed esperienze, di opportunità ed espressioni artistiche senza precedenti conciliando la musica anni 90, le opere dei ragazzi dei licei artistici, la techno, le opere di street art e installazioni video e di light art.
Opereremo trasversalmente nel coinvolgimento di ogni realtà artistica e cittadina, sviluppando un modello d’intrattenimento futuro, che renda la cultura accessibile a tutti, evolvendo ed implementando un’idea viva e partecipe di socialità, che inserisca Roma in un panorama europeo.
Un modello d’intrattenimento che si apra al tessuto e alla collettività urbana trasformando luoghi istituzionali come le scuole in piattaforme socio-culturali a trecentosessanta gradi che favoriscano le iniziative interpersonali dal basso.
Proponendo al contempo lo sviluppo di un modello di auto-finanziamento innovativo, che offrendo un palcoscenico diretto e immediato per artisti emergenti permetta il sostentamento del mensile studentesco Scomodo. Riuscendo nell’intento non facile di finanziare la cultura con la cultura, permettendo la nascita di uno strumento formativo unico, distribuito gratuitamente e senza pubblicità, che si propone di creare un’informazione critica e indipendente.
È fondamentale per questo per noi essere slegati da ogni dinamica economica, riuscendo nel nostro dovere di informare, senza nessun veto o interdizione, creando dei contenuti diretti, decisi da una redazione di pari e privi per questo di qualsiasi imposizione editoriale che ci vincoli. Essendo l’unico modo di poter far emergere quella visione dal basso che renda la nostra informazione Scomoda, non solo per slogan.
Con decisione siamo oggi qui nel ribadire l’importanza della nostra posizione, nel credere nella forza di alcuni ragazzi mossi dal sogno di un modello societario comune, che non punti il dito a prescindere e che sviluppi un dialogo aperto e trasparente con ogni realtà, partendo proprio dalle istituzioni, che dovrebbero tutelare iniziative di questo genere.
Noi ci crediamo; in una storia che è riuscita a coinvolgere in pochi mesi centinaia di persone, in un progetto che è riuscito ad unire sotto una presa di coscienza comune, ragazzi di ogni quartiere e contesto sociale, con ogni tipo di ambizione e di talento, convinti e determinati nel perseguimento di un obiettivo comune, che compie proprio oggi il suo primo passo.
Le ragazze e i ragazzi di Scomodo»
I refusi ci sono comunque ma sono troppo eccitati per notarli. Le ragazze e i ragazzi dietro la scrivania scelgono una foto da allegare al comunicato, che ritrae il campetto da pallacanestro della scuola bagnato dalla pioggia, e uno di loro clicca su “pubblica”.
L’idea delle Notti Scomode
L’8 ottobre del 2016 è stata una delle tante “prime volte” di Scomodo. Ma la pratica delle Notti Scomode e l’influenza che questa pratica ha avuto sull’attenzione a determinati temi e al tipo di “incubatore” in cui far nascere e crescere esperienze legate alla redazione non possono essere comprese a fondo senza un elemento seminale, probabilmente l’origine di tutte le questioni toccate da Scomodo.
Chi faceva parte della redazione doveva confrontarsi con una scelta particolarmente complessa e coraggiosa, per quanto potesse essere tranquillamente giudicata incosciente: la scelta della carta. Senz’altro una delle più importanti intuizioni del manipolo di persone che si erano avvicinate, a partire dall’estate dello stesso anno, all’idea di una testata indipendente che potesse diventare la voce di generazioni tendenzialmente poco ascoltate, poco rappresentate ma soprattutto dipinte come poco interessate, pigre, succubi di una cultura digitale piatta. Al contempo, però, questa decisione apparentemente irreversibile volta a dimostrare l’attenzione all’approfondimento e al mezzo privilegiato per esso, la carta, aveva un che di antilogico.
Innanzitutto, era antilogica la scelta di tentare di approdare a una distribuzione di dimensioni massive con la carta, avendo a disposizione strumenti digitali che, se ben maneggiati, avrebbero potuto agilmente portare alla stessa diffusione del movimento e dei contenuti. Questo discorso sarebbe calzante soprattutto considerata la tiratura prevista per Scomodo (7.500 copie al mese), che era assolutamente irrilevante a fronte di una popolazione complessiva di quella scolastica media di secondo grado e di quella universitaria nella città di Roma di circa 400.000 persone. Ma su questo primo punto trovava una sola risposta, dogmatica (anche se successivamente il dogma verrà piegato con facilità da eventi esogeni): la carta è l’unica possibilità che abbiamo di avere un impatto diverso, non amalgamato e perso nel mare dell’informazione e disinformazione online, sicuri che chi riceva dalla mano di un coetaneo una rivista gratuita abbia una marcia in più rispetto a chi affidi la propria informazione al proprio feed. Instagram ancora non era esploso come mezzo di informazione al livello massivo, e ci si rese conto della dimensione del problema delle fake news su Facebook di lì a un mese, quando Donald Trump fu eletto ufficialmente come 45esimo presidente della storia degli Stati Uniti d’America.
Ma l’illogicità del mezzo cartaceo portava con sé un ulteriore fardello, che già caratterizzava d’altronde il mondo dell’informazione. La carta costa, e tanto.
Le esperienze collettive dei singoli individui riuniti nel progetto suggerivano di ricorrere alle classiche pratiche di autofinanziamento, calibrando dunque la stampa in base ai risultati di tali attività. Scomodo, così, avrebbe stampato ciò che poteva permettersi in quanto collettivo, verosimilmente mirando a una distribuzione di molto inferiore alle 7500 copie. D’altra parte, tuttavia, esisteva una domanda sulle stesse pratiche di autofinanziamento ancora tenuta in piedi dal dubbio sulle dimensioni massive a cui il progetto mirava. Si sarebbe dovuto puntare all’organizzazione della più classica serata di autofinanziamento in un posto già conosciuto che facesse riferimento a una realtà politica e culturale precisa – che si trattasse di un centro sociale, di uno spazio autogestito di altro tipo, di un locale o di uno dei pochi spazi pubblici disponibili in città?
Difficile stabilire con certezza da chi nacque l’idea e lo spirito della Notte Scomoda, se fosse un’intuizione estemporanea o se fosse una scelta culturale ragionata. Lo “schema” dell’azione era semplice e nulla di inedito: si trattava di scegliere un luogo non frequentato di sera e di notte, tentare di immaginare lo svolgimento della serata in modo da permettere la richiesta di un contributo d’ingresso oltre che un rudimentale bancone del bar. Per questo scopo si era pensato anche a parchi o spazi diversi. Tuttavia, come non limitare questa a una semplice serata, occasione di socialità come un’altra, rimaneva un’incognita, a cui si rispose con una necessità piuttosto semplice e che arrivava direttamente dalla voce di alcuni singoli all’interno del progetto. D’altronde, facevano già riferimento e contribuivano in maniera decisiva alla crescita di Scomodo due realtà estremamente differenti e che puntavano alla distribuzione del giornale su livelli molto diversi. Da una parte il collettivo del Liceo Artistico Statale Ripetta, con due sedi nel centro e nel nord di Roma, costituiva un unicum di fermento artistico al livello liceale che spingeva per avere libertà e spazi d’espressione. Dall’altro, il collettivo Ostia Male, composto da ragazzi usciti dai licei del Lido, permetteva di arrivare a conoscere e attingere a piene mani dall’esperienza di un territorio dove la cultura underground aveva radici saldissime. Ambedue le realtà, di diverse dimensioni, avevano interesse nel progetto di Scomodo in quanto tale ma, per quanto il contributo era importante su entrambi i fronti (un accesso ai licei artistici della Capitale da una parte, una spinta verso l’autoproduzione serigrafica e musicale dall’altra), era difficile immaginare un contributo così determinante che andasse a definire l’identità, il metodo di finanziamento e il successivo rapporto con la città.
La necessità di coinvolgere anche artisti emergenti su più fronti, non solo più nella stesura del giornale e nella realizzazione di eventi culturali paralleli al lavoro di redazione, era il punto di svolta nella definizione dei connotati della Notte Scomoda. Questo aspetto totalizzante portava alla necessità di una dimensione differente di intendere lo spazio, ottenibile esclusivamente in luoghi arroccati e difesi da una burocrazia fittissima ed estenuante, o da spazi ancora non esistenti. A questa non-esistenza, a questa mancanza era possibile rispondere solamente con la ridefinizione e il ri-allestimento di uno spazio esistente e Vuoto.
La Temporary Autonomous Zone
Più persone della redazione, facendo già riferimento a realtà e spazi politicizzati come i già citati centri sociali, avevano chiaro in mente quanto sarebbe stato profondo lo spazio politico che si sarebbe andato ad aprire con questo tipo di azione. Le sottoculture e controculture toccate dall’occupazione di uno spazio abbandonato erano molteplici. La sola realtà di Ostia Male aveva come riferimenti elementi artistici come i graffiti, più orientati e provenienti dalla cultura hip hop italiana e non, e la cultura legata alla musica techno. Non è un caso, dunque, che molti si sarebbero successivamente riferiti alle Notti Scomode sia con intento dispregiativo chiamandole “party” sia, per quanto in modo altrettanto improprio, ammirando le qualità di una precisa cultura definendole “rave”. Nonostante l’evento fosse mischiato (alle volte, con un po’ di esagerazione e di arroganza) con elementi propri di un’esposizione artistica più pura, l’ispirazione alla cultura rave è chiara. Di seguito si riporta, in un tentativo di sintesi e con un accenno di autoreferenzialità, un passaggio tratto dal sesto capitolo di Presente 2021 – Nuove Periferie (ovvero la pubblicazione annuale di Scomodo) che può essere esplicativo della relazione tra la cultura rave e l’esperimento di tramutare una pratica di autofinanziamento in una forma culturale di riappropriazione dello spazio della propria città legato alla rave culture.
«[…] Lo stato di abbandono da parte delle istituzioni che ha, nel corso dei decenni, caratterizzato sempre di più gli ambienti periferici li ha resi terreno fertile per coloro che volevano mettere in discussione i canoni artistici e morali dominanti. La rave culture in particolare vi ha trovato la sua dimensione, appropriandosi di spazi abbandonati e non supervisionati per celebrare, spesso per una notte soltanto, la libertà che contesti del genere permettono. L’origine di questa forma di aggregazione culturale può essere fatta risalire agli anni 80, raggiungendo la notorietà in Italia verso la metà dei 90 grazie ad alcuni pionieri del genere – spesso artisti anonimi convinti del potere sovversivo e inclusivo della techno – e a un pubblico particolarmente a suo agio con ambienti poco convenzionali e consumo di droghe. Tobia D’Onofrio, autore di Rave New World, racconta come la scena rave sia nata più per una necessità che per una volontà, un’assenza che ha avuto come reazione l’aggregazione autorganizzata di moltissime realtà sparse per l’Italia: “Il rave è nato quando non c’era più – tanto meno nelle periferie – la possibilità di trovare un posto fisso sicuro, così come un centro sociale”.
I protagonisti dei rave non sono solo i DJ ma anche il loro pubblico, che crea implicitamente una sorta di “filosofia della festa”, nella quale le differenze che nel contesto urbano solitamente separano le persone – genere, etnia, età, classe sociale, orientamento sessuale [e identità di genere, ndr] – diventano irrilevanti davanti alla trasversalità dell’esperienza del rave, una sorta di delirio con l’effetto collaterale della distruzione delle barriere sociali».
È lampante che la dimensione brevemente articolata in precedenza nella descrizione delle Notti Scomode in qualche modo rischia di “spezzare” l’armonia creatasi intorno alla “filosofia della festa” attraverso l’introduzione di meccanismi economici e di autofinanziamento (banalmente, l’offerta all’entrata e i costi del bar), oltre che di elementi più esogeni relativi all’esposizione culturale classica, per quanto priva di quel contesto museale e galleristico che la caratterizzerebbe altrove. Al contempo, la trasversalità riportata nel passaggio estratto da Presente 2021 è quanto di più cruciale nel creare uno spazio culturale orientato a finanziare un’attività editoriale indipendente, la più preziosa eredità della rave culture.
Tutto ciò, tuttavia, non poteva che svilupparsi in una dimensione illegale, fuori dal recinto della legalità statale che caratterizza (o tenta di caratterizzare) l’abitazione e il riempimento di spazi fisici. Qualsiasi caratterizzazione o definizione si voglia fornire di “luogo” o “spazio”, esiste ovunque leggi che ne regolino l’appropriazione. Ma la rave culture è anarchica nel senso più proprio nel termine, e dall’immaginario anarchista non può che attingere a piene mani.
Il concetto di Temporary Autonomous Zone, zona temporaneamente autonoma, è stato ovviamente anticipato al livello di pratica dall’occupazione, intesa come riappropriazione e caratterizzazione politica di uno spazio con la prospettiva di una lotta duratura all’interno dello stesso. Come si vedrà più avanti, questa prospettiva sarà cruciale per Scomodo nel concentrare e approfondire la lotta relativa alla gestione del patrimonio a Roma e nella costruzione di uno spazio dove mettere in pratica modelli di rigenerazione urbana.
La Temporary Autonomous Zone (T.A.Z.) è un’intuizione di Hakim Bey (al secolo Peter Lamborn Wilson) dello scrittore e poeta anarchista, scomparso il 22 maggio del 2022. Come molti dei più noti concetti e pratiche proprie dell’anarchismo conosciuti al livello mass-mediatico, la T.A.Z. è una tattica. Ed è proprio l’aspetto tattico a caratterizzarla come pratica privilegiata per quanti trovino una dimensione comunitaria all’interno delle minime forme garantite, concesse (ove non represse) dallo Stato. Secondo quanto descritto da Bey, la riappropriazione temporanea di uno spazio si colloca in un momento antecedente non tanto alla realizzazione del sogno anarchico o della “rivoluzione”, ma antecedente persino al concepimento di un vasto sconvolgimento. Bey mette a fuoco questo momento immaginando di rispondere a delle critiche rivolte alla tattica della T.A.Z. già dalla seconda sottosezione (che, non a caso, è intitolata “Waiting for the revolution”, aspettando la rivoluzione) del capitolo “Temporary Autonomous Zone” dell’omonimo libro:
«You will argue that this is a counsel of despair. What of the anarchist dream, the Stateless state, the Commune, the autonomous zone with duration, a free society, a free culture? Are we to abandon that hope in return for some existentialist acte gratuit? The point is not to change consciousness but to change the world.
I accept this as a fair criticism. I’d make two rejoinders nevertheless; first, revolution has never yet resulted in achieving this dream. The vision comes to life in the moment of uprising — but as soon as “the Revolution” triumphs and the State returns, the dream and the ideal are already betrayed. I have not given up hope or even expectation of change– but I distrust the word Revolution. Second, even if we replace the revolutionary approach with a concept of insurrection blossoming spontaneously into anarchist culture, our own particular historical situation is not propitious for such a vast undertaking».
«Si dirà che questo [il concetto stesso di T.A.Z., ndr] è un invito a disperare. Che ne è del sogno anarchico, dello Stato senza Stato, della Comune, della zona autonoma duratura, di una società libera, di una cultura libera? Dobbiamo abbandonare questa speranza in cambio di un atto gratuito esistenzialista? Il punto non è cambiare la coscienza, ma cambiare il mondo.
Accetto onestamente questa critica. Tuttavia, vorrei fare due controrepliche: la prima è che la rivoluzione non ha mai portato alla realizzazione di questo sogno. La visione prende vita nel momento della rivolta, ma non appena la “rivoluzione” trionfa e lo Stato ritorna, il sogno e l’ideale sono già traditi. Non ho perso la speranza e nemmeno l’aspettativa di un cambiamento, ma diffido della parola Rivoluzione. In secondo luogo, anche se sostituissimo l’approccio rivoluzionario con un concetto di insurrezione che sboccia spontaneamente nella cultura anarchica, la nostra particolare situazione storica non è propizia per un’impresa così vasta».
Solo questa prima considerazione di Bey, squisitamente politica (e su cui è abbondantemente probabile che si abbia da ridire), può portare a configurare una T.A.Z. come tattica accettabile, precedente a qualsiasi configurazione di vera e propria lotta ma soprattutto volta a creare socialità necessarie.
«In short, we’re not touting the TAZ as an exclusive end in itself, replacing all other forms of organization, tactics, and goals. We recommend it because it can provide the quality of enhancement associated with the uprising without necessarily leading to violence and martyrdom. The TAZ is like an uprising which does not engage directly with the State, a guerilla operation which liberates an area (of land, of time, of imagination) and then dissolves itself to re-form elsewhere/elsewhen, before the State can crush it. Because the State is concerned primarily with Simulation rather than substance, the TAZ can “occupy” these areas clandestinely and carry on its festal purposes for quite a while in relative peace».
«In breve, non stiamo promuovendo la T.A.Z. come un fine esclusivo in sé, che sostituisce tutte le altre forme di organizzazione, tattiche e obiettivi. La raccomandiamo perché può fornire la qualità del potenziamento associato alla rivolta senza necessariamente portare alla violenza e al martirio. La T.A.Z. è come una rivolta che non si confronta direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area (di terra, di tempo, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi altrove/altrove, prima che lo Stato possa schiacciarla. Poiché lo Stato si preoccupa principalmente della Simulazione piuttosto che della sostanza, la T.A.Z. può “occupare” queste aree clandestinamente e portare avanti i suoi scopi festivi per un bel po’ di tempo in relativa pace».
Le parole di Bey sono risultate profetiche per quanto riguarda la storia delle Notti Scomode, tanto considerando il concetto di “tempo in relativa pace” e l’idea di “potenziamento associato alla rivolta”. Le Notti Scomode, pur essendo una pratica tutt’ora percorribile (ma mai più percorsa dal 2019 a causa della pandemia), hanno costituito esattamente un periodo limitato dove sperimentare un’autonomia. Dopo la prima occupazione del Liceo Machiavelli, Scomodo ha orientato la sua azione esclusivamente su spazi abbandonati. La seconda Notte Scomoda, il 3 dicembre 2016, è ad oggi l’unica pienamente riuscita, per una serie di congiunzioni e grossolani errori da parte della forza pubblica, con l’occupazione per una notte dell’ex Arsenale Pontificio (Porta Portese), edificio del Settecento abbandonato per decenni e mai del tutto restaurato. Qui si allestivano per una “pace temporanea” due edifici, due palchi, due scalette e due esposizioni artistiche completamente distinte tra loro.
Successivamente, per interventi della forza pubblica, gli spazi abbandonati sono oggetto di tentativi di occupazione: Scomodo prova a occupare l’Hotel di Via Giustiniano Imperatore a San Paolo (detto il “Bidet”), l’ex deposito Atac di Piazza Ragusa, lo Stadio Flaminio, Palazzo Nardini. Nonostante i tentativi andati a vuoto, le T.A.Z. delle Notti Scomode si spostano altrove, e diventano aree temporaneamente autonome Parco Schuster, l’università di Roma La Sapienza e la Riva Ostiense sotto un Gazometro illuminato.
A dicembre 2018, tuttavia, Scomodo decide di non puntare a uno spazio abbandonato. Si organizzano, danno appuntamento a diverse fermate della metro A e invadono un intero treno della metropolitana romana. Scendono alla fermata Manzoni, fanno qualche centinaio di metri e arrivano a destinazione, pronti a scendere in quello che un tempo era il garage degli uffici dell’Inpdap all’Esquilino, due piani sottoterra. Oggi, è La Redazione all’interno di Spin Time Labs.
Dalla zona autonoma…
Roma è forse la città che in Europa è attraversata dal più ampio spettro di processi di riappropriazione degli spazi, processi che insieme hanno composto un mosaico di esperienze originale e complesso. Questa riappropriazione passa per forme diffuse di auto-organizzazione, attività e iniziative associative della società civile, nuove pratiche di coabitazione e movimenti che cercano di costruire un’idea di città e di Abitare differente.
Naturalmente si tratta di un fermento che interessa, in maniera diversa, tutte le città del mondo, e in particolare le metropoli, da anni: dai giardini condivisi, agli spazi verdi autogestiti, dalle occupazioni a uso abitativo all’architettura post industriale recuperata, dai luoghi della produzione culturale informale ai numerosi servizi generati dagli stessi territori, alle migliaia di iniziative di protagonismo sociale e di progetti diffusi. Tutte queste esperienze e le pratiche che ne risultano non sono soltanto una forma di riconquista degli spazi, ma anche processi che cercano di dare ai luoghi significati nuovi. Sono forme di espressione della vitalità dei territori e degli abitanti, in modalità più o meno organizzate, sono laboratori sociali, culturali e politici che hanno prodotto una nuova idea di pubblico e rimesso in causa il modello di città imposto dal sistema neoliberale. Sono espressione di un sintomo ben preciso, il sintomo di un modello urbano che non funziona più, frutto di un deficit di welfare, dell’abbandono dei territori da parte della politica e delle istituzioni, del tentativo di occultare il disagio e la povertà diffusa.
Nel caso di Roma non solo la portata politica e il grado di conflitto di cui queste esperienze sono gravide è spesso estremamente forte, ma esse costituiscono una vera e propria infrastruttura nevralgica della città, fatta di stratificazioni e di reti complesse. L’urbanista Carlo Cellamare ha definito questa specificità con la formula di “città fai-da-te”, perché i movimenti di riappropriazione che caratterizzano Roma non si esauriscono in una semplice presa di “possesso” degli spazi, ma trovano il proprio peso specifico nella possibilità di reintrodurre nel ciclo di vita della città luoghi abbandonati, inutilizzati, sottoutilizzati e degradati, suscettibili di rispondere a bisogni sociali diffusi. Ma anche di elaborare nuove culture del pubblico e della politica, modalità più sostenibili del vivere in comune. La specificità di Roma consiste proprio in una morfologia dell’assenza e della presenza dei suoi spazi: se da una parte infatti c’è l’immenso patrimonio pubblico immobilizzato e inutilizzato – almeno 285 gli edifici abbandonati, di cui 109 pubblici, secondo i dati del Comune – dall’altra c’è un territorio insaturo, ricco di assenze infrastrutturali e di collegamento, un “arcipelago urbano” in cui delle isole metropolitane e i quartieri galleggiano in un mare costituito da parchi, spazi abbandonati, territori riconquistati dagli abitanti, aree agricole. E tra queste due coordinate territoriali c’è una povertà abitativa crescente e che sta cambiando volto.
…alla convivenza in un contesto precario e di lotta
Se la stazione ferroviaria di Termini diviene l’esempio per eccellenza di quella che può considerarsi una micro-periferia urbana, il grattacielo a sette piani di Spin Time non può che esserne una sua estensione in altezza. La micro-periferia ha dei tratti fisionomici in continua trasformazione e sebbene si fatichi a riconoscerla sul territorio italiano, ha un enorme potere: mette costantemente in Crisi il modello tradizionale e abitudinario con cui le città vengono costruite e poi non più immaginate. Ciò che emerge dal concetto di micro-periferia e del seguente fenomeno urbano può essere forse una piccola rigenerazione che volge lo sguardo al di là dell’urbanistica stretta. La micro-periferia pone al centro ciò che non è mai stato abbracciato davvero come soggetto politico, forse per timore: la comunità. La comunità in questo modo inventa immaginari, legando indissolubilmente le persone e il territorio che abitano. Definito così il limite territoriale in cui è inserita la micro-periferia di Termini, il quartiere Esquilino ne è la cornice sociale. L’Esquilino ha un impianto urbanistico cosiddetto a scacchiera che ha posto, nel tempo, una sfida di adattamento, tra vie e portici, tanto cittadino quanto sociale tenendo conto di quel che ora è lo spazio liminale (e vitale) di via Santa Croce in Gerusalemme.
In questo quadro specifico, quello di una metropoli cresciuta in assenza di progettazione, e dove le politiche di edilizia residenziale pubblica non sono mai state risolutive, la questione abitativa è stata e rimane uno dei più grandi epicentri di lotta e di riappropriazione che la città abbia conosciuto. I movimenti di lotta per il diritto alla casa, cominciati alla fine degli anni Ottanta con le occupazioni di San Basilio, hanno mobilitato per oltre trent’anni migliaia di persone e di soggetti politici e imposto di rimettere l’abitare al centro del discorso pubblico. Hanno permesso interventi di assistenza alloggiativa, lo sblocco delle delibere sull’emergenza abitativa e la creazione di esperienze di occupazione diventate per la città cantieri di rigenerazione urbana di estrema importanza. È all’interno di queste esperienze che si inserisce, per esempio, il lavoro di Action-diritti in movimento, associazione e movimento di promozione del diritto alla casa, accesso all’abitare e dei diritti dei migranti che opera all’interno di Spin Time Labs. Tra i vari strumenti messi in campo negli anni ci sono attività di contrasto agli sfratti delle persone in difficoltà, uno sportello legale sull’immigrazione e richiedenti asilo, la promozione di politiche efficaci per contrastare l’emergenza abitativa, attività di mutualismo e sportello dei diritti per tutti, formazione e autoformazione sui diritti di cittadinanza. Tuttavia, all’interno di una realtà come quella di Spin Time, dove la dimensione eminentemente abitativa coesiste insieme ad una pratica politica costruita dalle molte realtà culturali e sociali che ospita, gli equilibri democratici o di autogestione non sono mai semplici o scontati.
Il lavoro di Michel Agier fornisce degli strumenti utili a decifrare la specificità di una prassi democratica perennemente in costruzione e capace di rivoluzionare le classiche nozioni spaziali legate agli ecosistemi urbani. L’antropologo francese approfondisce e supera finalmente il concetto cardine del non-luogo di Marc Augé che diviene un pilastro e fondamento per gli spazi che diventano luoghi come ad esempio, la stazione ferroviaria ed i propri limiti territoriali. Il primo focus di ricerca di Agier è stato sull’invenzione della città passando poi allo sviluppo di una vera e propria antropologia della città rendendosi conto della complessità della stessa grazie al situazionalismo e al micro-sociale che si espande e si riappropria dei luoghi. Queste sono le premesse con cui nascono le pratiche sociali che si instaurano nella città e rimangono la premessa politica del “fare città”. La costruzione delle interazioni tra individuo, società e spazio (sociale) sviluppa le cosiddette reti ego-centrate tra i tre soggetti politici, sostenute da regole comuni e fedeli all’immaginario domestico e familiare. L’invenzione dello spazio diviene dunque espressione non solo collettiva ma comunitaria.
Se il “Diritto alla città” negli anni Sessanta veniva rivendicato da una soggettività proletaria e affine alla realtà industriale, la considerazione attuale potrebbe invertire i termini. Chi oggi possiede il privilegio dell’accesso alla città e chi non può rivendicarlo? Spin Time Labs e il suo “fare città” si inseriscono perfettamente nel campo di ricerca dell’antropologia urbana nata negli anni Ottanta sotto la spinta di Sandra Wallman con l’osservazione e la ricerca sulla Inner City londinese.
Cercare di trasferire regole di vita quotidiana e di prassi politica all’interno della fluidità urbana può diventare certamente un obiettivo da raggiungere per Spin Time e per Scomodo stesso considerando che già Agier aveva chiaro come “l’agire urbano a livello micro-sociale si profila come la base di partenza per mobilitazioni politiche che, salendo di scala, possono arrivare a mettere in discussione le strutture stesse della gerarchia urbana”.
Dal “diritto alla città” al diritto di “fare città”, il modello Spin Time sta dimostrando di avere tutte le capacità per non solo ripensare, creare e immaginare cultura in tutte le sue forme ma di costruire al di fuori dei propri metri quadri. Di fatto, rigenerare il quartiere in toto. In questo senso, la rigenerazione urbana diventa una pratica comunitaria e politica declinabile sia sul piano architettonico-urbanistico sia su quello sociale. Il potere sociale e la costruzione di una identità politica multipla è stata sviluppata attraverso l’occupazione di un mero immobile creando però rapporti di coesistenza e generando un vero e proprio ecosistema al proprio interno. È così che Spin Time Labs disegna e ridefinisce i limiti territoriali: ponendo ai propri margini la legittimità sociale.
Cosa può essere oggi il diritto all’abitare?
L’esperienza di Spin Time in quanto occupazione abitativa realizza una pratica politica che coinvolge tutti gli abitanti del palazzo, le realtà culturali ed i singoli attori politici. Più di 400 persone tra cui circa 90 minori e 27 nazionalità differenti. La lotta per la casa e il diritto all’abitare, sebbene rimangano il focus principale della battaglia politica dell’occupazione, costruiscono la premessa di ciò che Spin Time cerca di essere: un “cantiere culturale di rigenerazione urbana”. Scardinato dall’accezione di “uso temporaneo”, Spin Time realizza, stabilisce e mantiene vivo l’abitativo, il culturale, il sociale e il third space.
Tuttavia, il significato politico dell’occupazione abitativa si ritrova oggigiorno ad essere ripensato; basti pensare al fenomeno migratorio mediterraneo e alla necessità di un’abitazione che superi i modelli di accoglienza statali ed europei. Questa sarà una delle sfide venture di Spin Time Labs: creare un modello abitativo che abbia una forza politica al suo interno declinata sulle necessità di nuovi attori sociali e con rivendicazioni abitative che possano anche passare attraverso il diritto di cittadinanza.
Un esempio europeo interessante si trova ad Atene. Il City Plaza Hotel era un hotel a cinque stelle di proprietà privata che nel 2016 è stato occupato da attivisti e attiviste inizialmente per sopperire allo stato di abbandono dell’immobile che aveva cessato la propria attività a causa della crisi immobiliare ed economica, rigenerandosi poi in modello tout court di seconda o terza accoglienza per rispondere alle pratiche fallimentari europee di gestione del fenomeno migratorio. Oggi, City Plaza conta anch’esso circa 400 persone e molteplici nazionalità ponendosi l’obiettivo non solo di creare una comunità (in cui c’è chi si pone come “ospite” e chi invece da partecipante-attivista alle attività da svolgere all’interno) ma costruisce soprattutto un esempio di micro-società da cui prendere spunto, una best-practice tutta europea. “Portare” il fenomeno migratorio e la pratica dell’accoglienza (o meglio, dell’ospitalità) nel centro del contesto urbano è una delle sfaccettature che potrebbe essere in comune tra Spin Time Labs e City Plaza Hotel, tra il quartiere Esquilino e il quartiere Exharchia.
La situazione attuale
Il 29 gennaio 2022, l’Esquilino, i movimenti per la casa, le realtà che compongono Spin Time Labs e gli occupanti si sono riappropriati dello spazio oltre, sono tutti e tutte scese in piazza gridando coralmente: “Contro tutti gli sgomberi”. Il TAR della Regione Lazio, ad inizio 2022, ha definito in una nuova sentenza gli strumenti per la ri-appropriazione dei vari palazzi situati a Roma da parte di InvestiRe SGR S.p.a. annunciando gli sparsi e prossimi sgomberi: ciò apre degli scenari da immaginare per Spin Time Labs reclamando politicamente il modello virtuoso a cui per anni ha cercato di tendere. In altri termini, dal 2013 ad oggi, il tessuto urbano e sociale che è stato costruito sarà in grado di dimostrare quanto possa essere resistente la propria pratica politica in un’ottica negoziale e/o processuale?
L’esperienza di Scomodo dentro Spin Time Labs inizia prima della nascita della Redazione. Ma è senza dubbio con la costruzione dello spazio che le questioni relative alla coabitazione, al valore politico dell’occupazione, alla condivisione di un progetto comune sono diventate essenziali alla definizione stessa del lavoro editoriale e di attivazione politica e culturale.
Nel 2019 viene lanciato il crowdfunding che ne ha permesso la realizzazione all’interno del seminterrato del palazzo, duemila metri quadri in grado di ospitare un’aula studio, una biblioteca, uno studio di registrazione, una sala prove, postazioni di teatro, spazi per proiezioni, palchi per esibizioni e una sala polifunzionale. L’idea era di costruire uno spazio polifunzionale realizzato dalla città per la città, capace di ospitare realtà differenti e di creare network tra persone e realtà sociali e culturali. Da subito la progettazione e la costruzione sono state quindi immaginate secondo modalità che garantissero la massima Partecipazione pubblica e la collaborazione di soggetti diversi, tanto sul piano delle specifiche competenze e della formazione quanto della cooperazione intergenerazionale e di provenienza sociale. Il percorso è stato supervisionato dallo studio internazionale di architettura, urbanistica e design Alvisi-Kirimoto, ma la realizzazione del progetto ha seguito step estremamente partecipati: prima di tutto si è predisposta la creazione di un squadra di ricerca, questo primo nucleo si è occupato di raccogliere testimonianze su esperienze simili, di comprendere le necessità del palazzo e dei suoi abitanti. Il gruppo ha poi creato il bando, le planimetrie e i modelli 3D su cui hanno lavorato gli architetti che hanno preso parte al progetto, oltre duecento persone raggiunte attraverso chiamate social e passa-parola. Una volta realizzato il progetto, che è stato concluso da 14 gruppi di architetti, lo spazio è stato interamente costruito da volontarie e volontari: attiviste e attivisti di Scomodo, abitanti del palazzo e del quartiere, dal supporto di altre realtà sociali, ma anche da ragazzi e ragazze che si sono avvicinati in maniera casuale grazie alle chiamate social.
La comunità di Scomodo, e della Redazione, è in questo modo cresciuta, alimentandosi di energie nuove e dando vita ad un nuovo spazio che si va sviluppando all’interno di uno spazio esistente, quello di Spin Time Labs. Le sfide sono molte, tra cui quelle di garantire una dimensione di totale apertura e di inclusione nei confronti dell’esterno e allo stesso tempo di tutelare la comunità interna costruendo un safe space. Così come sono fondamentali i rapporti con gli abitanti del palazzo e le altre realtà che lo occupano.
E ora il futuro nel presente continuo
Ma gli orizzonti di senso del progetto e della costruzione della comunità non sono rimasti solo interni o liminali al palazzo, hanno oltrepassato i confini di Roma raggiungendo altre città. Sul finire del 2019, Scomodo pubblica e annuncia attraverso i propri canali social: “Siamo anche a Milano e a Torino”. Il seguito di attivismo urbano ed editoriale di Scomodo, iniziava ad avere la forza per potersi stabilire non solo a Roma.
Scomodo, da sempre, ha osservato la propria città d’origine, ne ha indagato i punti più fragili e si è attivato per poter dare, una propria alternativa; basti pensare alle Notti Scomode. La consapevolezza e la volontà di generare un modello replicabile attraverso l’esperienza di Scomodo sono sempre state forti, ma naturalmente le implicazioni sono molte: Osservare altre città, dinamiche urbane e al tempo stesso sociali differenti, implica imparare ad inserirsi senza esigere di “esportare” un modello senza tener conto delle specifiche territorialità. La lunga pandemia di Covid-19 non ha aiutato in nessun modo il processo di stabilizzazione e di osservazione accurata sulle città; tuttavia, le redazioni – non ancora fisiche – di Milano e di Torino hanno avuto, dopo circa tre anni, una rilevanza essenziale dal punto di vista comunitario: resistono alla mancanza di uno spazio condiviso ma si unisco sulla prossimità delle idee e dei valori. Il modello partecipativo (di scrittura e di attivismo), appartenente in primis all’area editoriale ancora oggi, è stato il sentiero già tracciato su cui è bastato camminare sia a Milano che a Torino.
L’entrata in gioco di nuove città ha continuato quindi in ogni caso a stimolare attivamente l’interrogazione sul ruolo degli spazi. Una riflessione che è evoluta parallelamente sul piano editoriale e che nel 2020 ha permesso la produzione del primo progetto di mappatura di Scomodo, Le speranze di Roma, in collaborazione con Treccani. Un lavoro di ricerca e di indagine sulla città che proseguirà e che si inserisce in continuità con le interrogazioni sullo spazio urbano cominciate con altri lavori: rubriche storiche come Mostri, progetto fotografico dedicato ai luoghi abbandonati, o di inchiesta su Roma come La città inamministrabile, ma anche la già citata e più recente pubblicazione Presente 2021 – Nuove Periferie.
La presa di coscienza della rilevanza del lavoro di ricerca declinato sulla città e sugli spazi è quindi negli ultimi due anni maturata sempre di più e preso direzioni nuove. Nel 2021 si è concretizzata un’ulteriore prospettiva: quella di aprire un nuovo spazio a Roma nel centro storico. Uno spazio diverso da La Redazione, sia in termini giuridici stretti sia in termini politici. Lo spazio è stato donato da una filantropa romana che ha voluto sottrarre la struttura alla gentrificazione urbana per poterla rigenerare attraverso realtà giovanili in grado di produrre impatto culturale. Se la presenza di questo spazio sta dando la possibilità a Scomodo di avere un’immagine più istituzionale tuttavia questa vuole essere un’esperienza di osservazione e di esercizio altrettanto radicale sulla città e per le nuove generazioni che l’abiteranno.