Francesco Dini | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani
Premessa
Questo contributo ha per titolo Ecologia e città fra retorica, eccedenze e residui e riproduce alcuni degli spunti emersi nel seminario in streaming «Città e merce. Senso e condizione urbana» del 26 novembre 2020. Nei tre paragrafi che seguono si fanno alcune considerazioni sui nuclei semantici di queste due etichette, con particolare riferimento al sostantivo “eccedenze” e alla veste molto specifica e per certi versi paradossale che le eccedenze urbane sono andate acquisendo ai tempi della Globalizzazione.
Il “senso” urbano? Città e merce?
“Senso” è una parola, più precisamente una categoria analitica, reintrodotta nelle scienze sociali da Niklas Luhmann[2], dopo che per lungo tempo ne era stata espulsa in quanto romantica. La severa procedura dell’espulsione, oltre a obbedire allo zeitgeist positivo, non era del tutto insensata e, nel caso non si voglia rinunciare alla logica aristotelica, non lo è neppure oggi: se ci si basa infatti sulla convinzione che fra A e non-A corra una differenza profonda e definitiva, se ne possono derivare descrizioni e interpretazioni razionali ed efficienti per quasi tutta la fenomenologia delle nostre esperienze.
Nel “senso” luhmanniano, invece, simile a un ente platonico, può stare davvero di tutto ed esservi ospitata ogni narrazione – anche internamente contraddittoria –; e ciò, oltre a riempire di vaghezza la formulazione “senso urbano”, non sembrerebbe particolarmente utile se in discussione sono entità concrete e materiali come “città” e “merce”, la città in quanto merce, la natura geneticamente mercantile della città.
Di essa infatti la merce è l’ubi consistam, e questa sua qualità intrinseca ha bisogno di molta razionalità, oserei dire di molta causa-effetto per essere spiegata. La città nasce e non può che nascere dove si realizza un accumulo critico di merci, ossia materia manipolata in modo socialmente organizzato e destinata a non essere consumata da chi la manipola, e numerose condizioni debbono verificarsi perché questo avvenga. Non è un caso che da cento anni a questa parte l’avvento della città sia stato interpretato o in modo apertamente marxiano, come conseguenza di un modo di produzione[3] o in modo neo-positivo attraverso lo schema Challenge and Response[4]. Così, benché non si sappia[5] se l’agricoltura è nata dalla scarsità o dall’abbondanza, è scontato che sia stata la risposta a queste sfide ad aver liquidato caccia e raccolta – la strategia di sfruttamento delle risorse a suo tempo condivisa con ogni altro animale non domesticato – e ad aver generato la strategia economico-politica della produzione alimentare, che fra i suoi molteplici effetti contempla e non può non contemplare la città. In un mirabile gioco di rimbalzi, la lettura a posteriori che diamo di questo processo mostra con esattezza e senza fare una sola grinza come condizioni di ecosistema variamente impattanti siano alla base della domesticazione di piante e animali, e come ogni aumento della produttività abbia generato quella crescita del numero degli uomini a seguito della quale sono nati i villaggi, gli scambi, la stratificazione sociale e la sua la verticalizzazione, la città, lo Stato, il mercato, la scrittura, il pensiero astratto e così via, fino a che la complessità non diventa tale da richiedere narrazioni più dubitative e prudenti.
Ma se si pensasse che questa logica esteticamente perfetta – in cui la conseguenza spiega ogni premessa – funzioni solo quando si parla di qualche millennio fa, sarebbe sufficiente interpellare il titolare di un’agenzia immobiliare di provincia e farsi spiegare perché il Real Estate urbano è diventato – con la globalizzazione degli ultimi trent’anni – il mercato più globalizzato a scala planetaria dopo quello finanziario, e a esso il più simile[6]. Certo le città, almeno fino a ora, non si comprano e non si vendono in un unico lotto, bisogna spacchettarle in unità immobiliari, e certo costui lo spiegherebbe con parole forse meno scolpite nella tecnica di quelle del segretario generale del WTO o dei gestori dei REIT (Real Estate Investment Trust); ma nell’inestimabile varietà dei linguaggi emergerebbe comunque la logica inflessibile per la quale i mercati sono tanto più espansivi quanto più sono redditivi, e il mercato immobiliare non solo è redditivo per eccellenza, ma per eccellenza è anche speculativo (nel senso che intermedia una delle merci che è più facile vendere molto più cara di quanto la si è comprata), esattamente al pari dei titoli mobiliari – quelle azioni, obbligazioni, futures, Collateralized Debt Obligations, Credit Default Swap, derivati, che hanno composto il mercato più esteso, ramificato e appunto deterritorializzato del Pianeta.
Ma per fortuna l’assenza di grinze, benché possa mimetizzarli, non può nascondere i paradossi e la preziosa possibilità che a lungo andare essi si trasformino in antinomie: mettere accanto i mercati finanziari e quelli immobiliari ne enfatizza l’eterogeneità di base, posto che mezzi di pagamento e prodotti finanziari sono l’unica merce totalmente dematerializzata e footloose, mentre la proprietà immobiliare in quanto merce non solo si apprezza per indicatori di massa e di volume (anche le commodities agricole si compravendono in questo modo) ma è per l’appunto immobile.
Così, per cercare di spiegare questa curiosa relazione fra immobili e finanza, fra chilometri quadrati, tonnellate, byte e CPU, occorre riportare in vita il terzo escluso aristotelico e concettualizzare la città nella dicotomia fra ciò che è situato e ciò che è mobile, fra persistenza e movimento (il “territorio” contrapposto alle reti, le nodalità alle connessioni, i milieux localizzati alle network externalities e così via). Non vi è niente più della città che abbia bisogno del movimento per esistere ed essere spiegata, ad onta dei suoi milioni o miliardi di tonnellate d’inamovibile materia. La natura paradossale della città consiste nel concentrare cumulativamente materia nella misura di quanta è capace di farne circolare, e questa relazione, già vera nell’originario World System di Uruk e nelle città fenicie[7], spiega il motivo perché la rete più estesa, performativa e immateriale della storia, internet, tenda a produrre crescente accumulo di materia nei nodi più grandi, in luogo dell’attesa deconcentrazione spaziale[8].
Questa relazione necessaria fra persistenza e movimento spiega anche, di converso, perché la città va in crisi, deperisce e in linea di principio muore – benché le procedure difensive naturalmente associate al gigantesco accumulo patrimoniale rendano quest’evento improbabile – quando non riesce più a movimentare cumulativamente merce. Se a Uruk seimila anni fa quest’ultima era l’orzo coltivato in campi lunghi sottoposti per la prima volta a una tecnica seriale d’irrigazione[9], l’odierna merce della regione urbana di San Francisco consiste prevalentemente di brevetti, diritti e fatturazione di competenze tecnologiche e organizzative che assumono ora la veste di prodotto, ora di servizio. E mentre abbiamo un’idea attendibile del perché il sistema urbano di Uruk collassò – verosimilmente per la salinizzazione del suolo – non è facile adesso immaginare quando, come e perché la competitività, l’attrattività e la profittabilità della regione di San Francisco cominceranno a calare – evento che oggi appare improbabile proprio per la forza di quei benefici cumulativi localizzati, ma tale probabilmente non apparirà in futuro. Cambia, in altre parole, la veste della merce ma non la sua sostanza, l’essere cioè destinata a venir messa in movimento sub specie orzo da spedire alle lontane pendici dei monti Zagros per averne in cambio metalli e legno duro, oppure sub specie webex, l’applicazione per conferenze a distanza che Cisco, da San Josè Contea di Santa Clara, vende salatissima a Unifi ai tempi del lockdown, appropriandosi di risorse che si sarebbero potute diversamente investire nella riduzione del rapporto numerico fra studenti e docenti – in Italia uno dei peggiori del mondo occidentale. E qui potremmo commentare che risorse suscettibili di essere destinate all’utilità sociale sono finite nell’arricchimento personale degli azionisti di Cisco, e dedurne valutazioni sull’efficacia del sistema; ma – in modo più pertinente a un articolo che parla di città e non di filosofia morale – mezzi di pagamento che stavano in una regione dell’Italia centrale – provenienti da tasse di iscrizione di famiglie prevalentemente residenti nel Valdarno, ma non solo, e per una parte dalla fiscalità generale dello Stato – sono finite in California. D’altro canto non possiamo stupirci di questo, dato che per la San Francisco Bay area – il sistema metropolitano di San Francisco – webex è precisamente un’eccedenza.
Eccedenze, piuttosto che Retorica e Residui
Prima si è parlato di inestimabile varietà dei linguaggi, e qua si può aggiungere che il linguaggio, come la musica, consente infinite variazioni su ogni tema. Così non si può negare che il rapporto fra città ed ecologia – ossia la dimensione ecologica della città – sia correttamente perimetrato dai riferimenti logici e politici alla retorica, alle eccedenze e ai residui – anche se quest’ultimo termine, che appare gentile e nel nostro caso non ha neppure traduzione inglese, potrebbe essere più utilmente sostituito dal più immediato “rifiuti”, waste. Credo però che dovendone discutere, potremmo semplificare quel perimetro e limitarci a parlare delle eccedenze.
Dovremmo intanto eliminare dalla discussione il termine retorica in quanto privo di effettiva contendibilità: ogni ragionamento sulla sostenibilità urbana – sia pure in buona fede e con la scontata necessità politica – è infatti retorico. Una bibliografia ne mostra le eccellenti casistiche, dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite all’European Green Deal al domestico Rapporto Asvis 2021 al disciplinare Urban@it 2021: si tratta di documenti positivi, come tali ottimistici, costretti a ignorare ciò che prima dicevamo, che la città non è soltanto un formidabile ordigno di produzione di eccedenze, ma che non può permettersi di non produrle in misura cumulativa.
La non separabilità di persistenza e movimento genera infatti una città che può mantenersi in vita solo drenando produzioni (input) dall’esterno e insieme scaricando sull’esterno (output) produzioni, senza che sia possibile fare quello che un minimo di buon senso comanderebbe, che cioè ciascuno facesse con quello che trova a casa sua. E se un’esortazione del genere pare sbrigativa e irrealistica – va ammesso che è ambedue le cose –, si potrebbe auspicare più modestamente che il commercio ricominciasse anche solo ad avvicinarsi a com’era quand’è nato – la procedura che espelle da un ecosistema le risorse in eccesso incamerando quelle in difetto –, cessando di alimentare (cominciando a non alimentare più) il folle regno dell’assurdo che è diventato negli ultimi secoli.
Ma disgraziatamente il commercio, ineliminabile mediatore fra persistenza e movimento, non è più quello che era nella città di Uruk, e il mutamento ha generato le condizioni che rendono impossibile il ritorno allo stato precedente. Così la città, destinata – in un futuro quanto lontano? – a morire di eccedenze, ricerca le eccedenze con la stessa inflessibile necessità della nostra ricerca dell’aria, e tutto questo fa notoriamente di lei l’oggetto insostenibile per eccellenza, in modo così nitido che vi sarebbe da fare ironia, se non sarcasmo, sul povero 11esimo SDG (Sustainable Developement Goals) [abbiamo aggiunto parentesi, è giusta?] e la sua conseguente retorica.
Quando si suggerisce ironia non lo si fa per disistimare il problema che gli SDG dovrebbero mitigare, cioè le tremende disparità generatesi nel mondo negli ultimi secoli – nello specifico dare almeno acqua corrente e pratiche di igiene pubblica alla popolazione urbana del Pianeta che ancora non ne ha. E quando si definisce il commercio contemporaneo “folle regno dell’assurdo” (come da valutazione obiettiva sull’utilità della merce allineata sugli scaffali di un qualsiasi supermercato) non si dimentica che ciascuna di quelle merci ha a monte il suo stratificato mercato del lavoro, con tutto quel che purtroppo ne consegue. Si vuole solo mettere in evidenza il carattere intimamente contraddittorio fra le “narrazioni della sostenibilità” (il linguaggio che consente infinite variazioni su ogni tema) e la forma naturale della genetica urbana. Dunque la narrazione sostenibile non può che produrre retorica, cioè (in questa narrazione, con questo significato) ricerca di persuasione attraverso le parole, invece che attraverso la trama logica dei fatti reali. Di isomorfismo in isomorfismo l’inevitabilità della retorica corrisponde all’inevitabilità dei rifiuti, waste, che la città non può che produrre in misura cumulativamente crescente perché, come insegnano la termodinamica e un’economia correttamente riarticolata al mondo naturale[10], ogni prodotto è un rifiuto, cambia soltanto il tempo al quale si pratica l’osservazione. Così, visto che rifiuto ed eccedenze sono la stessa cosa, torniamo all’affermazione di partenza, che delle eccedenze mette in luce la perspicuità.
Le eccedenze al tempo della globalizzazione
La narrazione sostenibile ci dice che il percorso al termine del quale la città si fa sostenibile e intelligente (smart) comincia molto da lontano, precisamente dagli anni Sessanta del Novecento, all’inizio dei quali Jane Jacobs[11], editando la formula della “post-modernità”, aveva iniziato a discutere della death and life of great american cities: durante quella decade ben 15 delle 21 maggiori città americane persero popolazione[12], mentre già nel 1976 un numero speciale di Urban Affairs curato da Brian Berry affermava l’esaurimento del modello insediativo dell’urbanizzazione e la sua sostituzione con quello della counter-urbanization.
Oggi, a distanza di mezzo secolo, possiamo osservare con disincantata tenerezza quel che allora generò un vero subbuglio nei demografi, urbanisti e scienziati sociali in genere, producendo valanghe di letteratura e proposte di interpretazione: il clean break di Vining e Strauss, la wave theory di Gordon, la teoria del ciclo di vita della città di Van den Berg, il conflitto semantico-teorico fra contro-urbanizzazione e dis-urbanizzazione con la sub-urbanizzazione a fare da terzo incomodo – ma anche, insieme e correlativamente, la new international division of labour di Fröbel, Heinrichs e Kreye o i ragionamenti sulla fine del fordismo dei regolazionisti francesi.
Era semplicemente finita la fantastica avventura della rivoluzione industriale, era finito l’esclusivismo occidentale dell’industria e il suo dominio nel PIL degli Stati e nei redditi delle famiglie, era finito il mondo industriale maturo come regime di accumulazione e modo di regolazione, nel quale il gigantismo delle fabbriche alimentate dall’elettricità aveva generato il gigantismo dei sistemi urbani. Era finita la cuccagna dei mercati interni protetti, cosa che si conclamò nel decennio successivo con una dura crisi economica dalla quale si sarebbe usciti ristrutturando totalmente i mercati, le procedure di profittabilità delle imprese, la localizzazione delle attività economiche e con essa il modello geografico della produzione e degli insediamenti. Già nel 1982 – un anno prima del celebre articolo di Theodore Levitt che si considera il battesimo accademico della globalizzazione – Bluestone e Harrison avevano licenziato un libro dal titolo Deindustrialization of America: Plant Closing, Community Abandonment and the Dismantling of Basic Industry, cui presto avrebbe fatto seguito il dismantling di quella manifatturiera. Cos’altro si sarebbe potuto chiedere se non la contro-dis-alia-urbanizzazione alle aree urbane i cui mercati del lavoro industriale venivano velocemente rasi al suolo?
Così la Città – in Occidente almeno – cessò di essere quella gigantesca idrovora che al tempo dell’industria, gonfiandosi paurosamente di persone, strutture e funzioni, aveva davvero risucchiato e (mal) digerito tutto quello che aveva intorno. Divenne altro, e altro inevitabilmente divennero le sue eccedenze.
Le difficoltà che molte città incontrarono e ancora oggi incontrano nel loro processo di de-specializzazione/ri-specializzazione è dato giusto dal modo con cui le nuove eccedenze incrociano il vincolo urbano del terzo escluso aristotelico, il loro dover essere nel contempo persistenza e movimento. È una natura duplice che si sposava con naturalezza al modello di produzione di eccedenze urbano-industriali, dove l’intervenuta creazione novecentesca di una mastodontica infrastruttura di trasporto garantiva un’incredibile movimento agli input produttivi, trasportati ovunque nel pianeta (il “folle regno della mobilità dei fattori”) per essere infine depositati nei sistemi urbani manifatturieri, dove venivano manipolati e rimessi in movimento (il “folle regno della mobilità dei prodotti”) nella trama infinitamente frazionata della loro distribuzione territoriale. La persistenza era assicurata dall’accumulo territoriale di capitale fisso e competenze (external economies, localized know how, human values, human capital) nel breve intervallo temporale in cui tutti questi input, invece di galoppare, stavano fermi in un luogo per essere integrati in un prodotto e subito dopo riprendere a galoppare – breve momento al quale però corrispondeva la persistenza del processo di accumulazione in termini marxiani, nel senso che i (giganteschi) profitti generati da questo (gigantesco) traffico non galoppavano affatto, ma insistevano su un numero estremamente ridotto di luoghi, per l’appunto le grandi regioni urbano-industriali.
Ora che tutto questo non esiste più (o esiste mutatis mutandis altrove e in forme un po’ differenti), ora cioè che le eccedenze hanno mutato di pelle e i prodotti si sono trasformati in servizi, un tale modello geografico di accumulazione funziona solo se le eccedenze-servizi (1) sono suscettibili di essere localmente prodotte in termini di valorizzazione della persistenza, quanto a dire della specializzazione territoriale, e (2) restano nella condizione di essere cumulativamente redditive attraverso il movimento. E poiché il movimento è sempre quello classico con il quale la merce prodotta va incontro al proprio destino, ossia viene consumata, la sua misura è determinata dall’ampiezza dei mercati. Così una città i cui servizi hanno accesso ai mercati globali diventa, alla Sassen, una città globale, e le città i cui servizi non hanno accesso ai mercati globali cercano di fare di tutto per guadagnarsene ogni minimo aggancio: mentre l’Agenda Territoriale 2030 dell’Unione Europea, al pari delle precedenti, predica (nella sua retorica) uno sviluppo territoriale policentrico ed equilibrato, basato sullo sviluppo integrato di città, aree rurali e regioni, le allocazioni reali delle risorse narrano una storia diversa, quella del tentativo esasperato di innalzare la competitività della rete europea della large metropolitan areas, con la foglia di fico delle cohesion policies, che dovrebbero mitigare i danni della verticalizzazione delle relazioni territoriali.
Questo disperato tentativo di acchiappare per la coda un minimo di mercati di destinazione delle proprie eccedenze somiglia, com’è evidente, alla ricerca d’aria che già citavamo in chiave di metafora nel paragrafo precedente: esattamente come per la sostenibilità occorrerebbe sospendere la crescita (economic growth), ma non si può, così per la città, per farla diventare smart, occorrerebbe limitare la produzione di eccedenze, ma non si può neppure questo. Ed è anzi facile osservare che questa non eliminabile (eppure rara) relazione fra eccedenze e ampiezza dei mercati rappresenta la macchinetta che fa le previsioni, nel senso che i sistemi urbani le cui eccedenze hanno accesso ai mercati globali cresceranno (alla loro maniera), acquisiranno ulteriore potere territoriale e transterritoriale, e si faranno realmente smart (perché potranno investirvi ciò che serve e anche di più) – mentre quelli che vi avranno poco accesso o non ne avranno affatto declineranno sperimentando anche loro fenomeni cumulativi, però inversi.
Nei biglietti della fortuna di una macchinetta del genere il sistema metropolitano di San Francisco non declina mai: collocando le eccedenze urbane all’incrocio della relazione fra persistenza e movimento, infatti, essa dà loro quel carattere cumulativo che incorpora persino paradossi come la strana affinità fra mercati mobiliari e mercati immobiliari, naturalmente divergenti in quanto opposti, e invece convergenti verso il medesimo modello di scelte d’investimento e di profittabilità. Ciò deriva semplicemente dalla natura cumulativa delle eccedenze urbane, che richiedono che si faccia merce, o che si esasperino le procedure di mercificazione, di ogni cosa, persino della città fisica, e non soltanto delle sue funzioni. Ma tutto questo porta con sé anche quelli elementi di mutamento per i quali, nonostante l’attuale efficienza tecnica di Webex Cisco, leggeremo in futuro del declino del sistema metropolitano di San Francisco – anche se come già osservato non sarebbe prudente scommettere un solo dollaro sulla data in cui questo avverrà.
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