Ex Asilo Filangieri: un processo che compie dieci anni

Ex Asilo Filangieri | Città viva | Vol III | Futuri urbani


Introduzione

Quello dell’ex Asilo Filangieri è un percorso che comincia lontano e che, nel tempo, ha visto la compagine dei e delle sue “abitanti” (questo il nome con cui si definiscono coloro che “attraversano”, ovvero gestiscono e curano, questo bene comune in maniera più continuativa) variare e rinnovarsi ciclicamente, facendo mutare, per conseguenza e di riflesso, alcune caratteristiche dello spazio.

In quell’inizio del 2012, ogni possibilità di un mondo futuro altro e possibile era stata – da più di dieci anni, a Genova – inesorabilmente ridotta, parzialmente spenta e rimossa, inducendo il movimento a ripiegarsi su rivendicazioni più territoriali e circoscritte (dal “pensare globale e agire locale” si era passati a un pensare e agire locale). Eppure, sotto la cenere del disimpegno diffuso, rimanevano braci che ancora crepitavano. Il movimento nazionale dei beni comuni è stato tra quelli che hanno soffiato su questo fuoco, provando a tenere insieme lotte e rivendicazioni diverse, che portavano al centro , e giustizia sociale. 

La nascita de l’Asilo: una stagione di terribile bellezza

Era una Napoli diversa da quella di oggi: immobilista, (ancor più) provinciale, ai margini di tutto, a partire dall’agenda politica, reduce da dieci anni di un’amministrazione di centrosinistra scialba e, di fatto, non pervenuta, che dispensava “grandi eventi” (un altro G8, più mangereccio e spendereccio, il concerto di Natale, le inaugurazioni delle stazioni d’arte della nuova linea della metropolitana) il cui culmine erano le installazioni artistiche a Piazza Plebiscito: estemporanee, annuali, calate dall’alto, piazzate per un mese e poi rimosse e dimenticate. Nella tradizione borbonica dell’albero della cuccagna, del fare ammuina (il fare solo per far vedere che qualcosa si smuove in un modo gattopardesco che, con il suo ammicco pretenzioso, si eleva a vera ideologia revisionista), l’unico fermento a cui il popolo napoletano di sottoproletariato marginale (eternamente puerizzato dalle autorità, relegato allo status di buon selvaggio) sembrava poter aspirare era quel contentino neoborghese, uno sprazzo di munifica bellezza elargito da un padre, eternamente assente, che ogni tanto rivolgeva il suo sguardo benevolente, degno successore di quella logica da panem et circenses.

Era una Napoli entrata in Europa senza essersi mai sentita italiana prima, mentre l’Italia, frettolosamente imborghesita dal boom, vaccinata contro il sessantottismo (e il settantasettismo) dallo yuppismo degli ‘80, dopo anni di democristianesimo, vedeva le nuove generazioni, immemori di tutto questo passato, frastornate dal lobotomizzante ventennio berlusconista (e ancor più dalle sue televisioni commerciali) che all’epoca era al suo culmine e sembrava inarrestabile. Il centro storico non era ancora gentrificato, i/le turisti/e coi loro trolley sui basoli erano pochi/e, e da poco cominciava lentamente a liberarsi da una microcriminalità disorganizzata che ancora sciamava, molto evidentemente, in quartieri da sempre difficili eppure centralissimi, veri ghetti, come Forcella, la Sanità, i Quartieri Spagnoli. Ma era, e ancora è, una città universitaria, forse l’ultima grande a sud di Roma, che, fra la storicissima Federico II e l’Orientale, attraeva giovani menti, con idee nuove e altre, in grado di rinfocolare quel luogo antichissimo (Napoli andava per i suoi 2480 anni da che era stata posta la sua prima pietra).

Tuttavia, mentre proprio a Napoli nel 2011 il trionfo “storico” della società civile del referendum contro la privatizzazione dell’acqua aveva trovato la sua attuazione con una gestione totalmente pubblica e partecipata del servizio idrico (conquista che, dopo dieci anni, ancora deve resistere ai rinnovati tentativi privatizzatori che si ripresentano a ondate, ultimo dei quali il ddl concorrenza 2021), in quel di Roma le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo stavano occupando il Teatro Valle, rivendicando con spirito nuovo i propri diritti insieme a quelli di tutti i/le cittadini/e ed abitanti, per immaginare una nuova istituzione culturale fondata su una partecipazione popolare e libera dalle ingerenze del clientelismo politico e dello spoil system partitico. Due, in particolare, le componenti forti che dal Valle contaminarono Napoli: il movimento femminista e quello, radicale, delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo. Queste intercettarono uno spirito diffuso che a Napoli stava cominciando a montare e che portava, con forza, alcune istanze come la riflessione sui corpi e i desideri, e spostando il focus sul metodo più che sulle singole individualità.

Da poco, gli Indignados avevano iniziato a proporre un nuovo municipalismo, che vedeva la città diventare centro per ridistribuire le risorse e realizzare i diritti politici e sociali (v. infra Il ). Tante le modalità inedite di politica che andavano proponendosi, tutte tese a rispondere a bisogni essenziali quali punto di partenza ideale per fondare nuove istituzioni volte ad assicurare un reale protagonismo delle persone, improntato a garantire una pluralità di posizioni e indirizzi politici, fermo restando il rispetto di alcuni inderogabili principi fondamentali, quali: l’antirazzismo, l’antisessismo e l’antifascismo.

È in questo contesto che comincia il suo nebuloso iter il Forum Universale delle Culture del 2014: entità ctonia, megamacchina speculativa, che si era installata, corpo estraneo, in un palazzo del 1500 (ex convitto per gli orfani, abbandonato nel terremoto del 1980 e poi rimesso a nuovo, fra Spaccanapoli e il Decumano di Via dei Tribunali), che avrebbe dispensato, in totale assenza di reciproco dialogo e ascolto col territorio, eventi la cui ricaduta sarebbe stata effimera quanto discontinua, e non avrebbe lasciato alcuna traccia di sé (come i precedenti). Sfacciatamente si perpetuava l’eterno tacitamento delle risorse locali, cui s’impediva, una volta di più, di esprimersi, e alle quali non restava che assistere, impotenti, a quell’ennesimo spreco di fondi pubblici. Presidente nominato Roberto Vecchioni e, fra i dirigenti, il plurinquisito ex presidente della provincia di Napoli, il senatore (sic!) Luigi Cesaro, meglio tristemente noto come Giggino ‘a Purpetta.

I diseredati di quella terra, quindi, gli e le artiste, gli e le animatrici culturali, i e le cosiddette lavoratrici dell’immateriale e del cognitivo, i e le ricercatrici, o semplicemente i e le attiviste, si scrollarono di dosso il sudario di quell’immobilismo implacabile e compirono un atto rappresentativo e simbolico, massimamente eversivo, occupando una mattina (per un giorno e in modo simbolico) il Museo d’arte contemporanea di Napoli, il MADRE, per un incontro pubblico con le nuove realtà culturali italiane, nate sulla scia del movimento dei beni comuni. Invasero poi il palazzo sito a Vico Maffei 4, inconsapevoli e incuranti di conseguenze e rischi (caratteristica un po’ naïf che sarebbe rimasta della di quello spazio: prima mettere in pratica e poi riflettere su di sé in corso d’opera). I tre giorni di concerti autogestiti, di spettacoli teatrali e proiezioni erano il segno inequivocabile di un no. Un atto di quella che un tempo veniva chiamata disobbedienza civile, nella città che aveva dato i natali a un’altra scienza civile, quell’economia di Genovesi che sarebbe stata spazzata via da marginalisti, smithiani e neoliberisti della scuola scozzese prima, e di quella di Chicago poi.

A quel gesto imprudente fece seguito la richiesta della città di rimanere e continuare. A quel piccolo nucleo di audaci non rimase che occupare, com’era nella tradizione, ma aprendo un dialogo con la neoeletta amministrazione – salita al potere con l’ondata arancione del 2011 – che (e in ciò si discostava dalle precedenti) si rivelava sensibile e disposta, nel rispetto della legalità, ad accogliere piuttosto che votata a repressione e ostruzionismo. A onor del vero, non fu un passaggio immediato: alla giunta, infatti, venne risposto che doveva rispettare i tempi del processo e il suo esito, e porsi in attesa. Il 12 marzo 2012 si aprì, così, con la sua keatsiana terribile bellezza, la stagione napoletana dei Beni Comuni. Gli/le artisti/e, infatti, strinsero alleanze coi/lle giuristi/e e i/le filosofi/e del diritto per elaborare quella che sarebbe diventata la dichiarazione d’uso civico alla base di un nuovo istituto giuridico: l’uso civico e collettivo urbano. Fu così che quello spazio, così meraviglioso e centrale, riconquistato e restituito, autoliberato per essere rimesso in comune, cominciò a esercitare una forza attrattiva per tutti quei corpi mobili e solitari che si erano autopercepiti come già sconfitti in partenza (ereditando dalle generazioni passate la sconfitta indiretta e il lutto mai elaborato delle grandi ideologie) e condannati all’inerzia.

Gli spazi indecisi e il diritto alla città

La questione inerente alla gestione del patrimonio (anche immobiliare) urbano non può essere disgiunta dalla stretta connessione tra beni comuni e i diritti fondamentali (già individuata dalla Commissione Rodotà) a essi sottesi. I cosiddetti “ex-luoghi” (al di là delle strutture architettoniche) recano tracce di un modello sociale per cui asili, ospedali, orfanotrofi, sono riflesso di un ruolo che gli era proprio nel tessuto sociale delle città. La dismissione degli ex-luoghi del welfare state, nei cicli di vita degli usi del patrimonio immobiliare e la loro riappropriazione da parte di privati (gruppi sociali, banche, imprenditori), ha ribaltato il rapporto tra pubblico e privato. La rigenerazione urbana, invece, intesa come processo di ridefinizione di questi “spazi indecisi”, ha trovato applicazione considerando questi luoghi come generatori di potenziale sociale (dialettico) e vitalità, valutandoli capaci di riconvertirsi in veri e propri incubatori di una creatività costante e ri-adattiva. Dalla riappropriazione collettiva dello spazio come risorsa vitale è scattata, quindi, la necessità di un nuovo modo di intendere le istituzioni, di relazionarsi con il Comune – proprietario del bene – per pretendere una nuova centralità degli e delle abitanti (v. paragrafo successivo). L’atto creativo dell’occupazione ha finito, così, per rovesciare il tavolo di un gioco che sembrava prestabilito, con un settore privato e predatorio libero di allungare le mani sulla città da una parte e, dall’altra, un soggetto pubblico che lo lasciava fare, trincerandosi dietro un’ineluttabile inefficienza e celando con la propria impotenza le solite dinamiche di favoritismi e clientele. Proprio lo strumento privatistico della concessione era quella prassi in grado di rendere lo spazio appannaggio esclusivo di pochi, e che era riuscita a vanificare la riqualificazione di un immobile prestigioso, rendendone, di fatto, tutti gli spazi inaccessibili, per utilizzarne il solo terzo piano, destinandolo agli uffici della Fondazione.

La sperimentazione di nuovi paradigmi economici e giuridici (v. infra), utili alle comunità per sottrarre i beni comuni al mercato speculativo, è avvenuta attraverso la costruzione di processi nei quali a esser messi in pratica sono nuovi approcci alla proprietà, incentrati sulla responsabilità diretta e condivisa dei beni. Si tratta di pratiche e progetti gestiti dalle comunità, in autonomia autogestionale e autocostruttiva degli spazi, che comprendono modelli di democratica orientati all’inclusione e al coinvolgimento diretto nei processi. Attraverso la sperimentazione del processo di , è stato possibile costruire pratiche di costante e continuo mutuo apprendimento, ponendo in essere quelle azioni concrete che le comunità, e i diversi attori coinvolti, sono stati capaci di innescare con il riuso e la coabitazione. Si sono costituiti, così, negli anni, spazi di ricerca, di studio e confronto critico sui modelli democratici di governo delle città in risposta alla crisi, alla pressione del debito sulla gestione del patrimonio immobiliare pubblico, alle politiche di austerity, alle privatizzazioni, tessendo costantemente relazioni di scambio e confronto su strumenti e metodi con varie esperienze italiane e transnazionali. Questo innesto – e le infinite proliferazioni in Italia rispetto alle pratiche, alle ricerche, alle sperimentazioni che hanno utilizzato questi strumenti per l’accesso ai beni – può essere considerato come un orizzonte della costruzione di una politica dell’ (se inteso come riemersione della questione del valore d’uso della città come spazio di vita della società urbana). Questo “diritto alla città” (che contiene, a sua volta, la dimensione del “diritto alla vita urbana” agito in processi di produzione e frizione, negoziazione, conflitto e condivisione degli usi dello spazio) non va eccepito solo come rivendicazione di uno spazio relazionale ma, soprattutto, come diritto a prendere parte ai processi di produzione dello spazio (Lefebvre 1974).

L’uso civico e l’hackeraggio istituzionale

La questione della riqualificazione urbana e dei diritti fondamentali che si volevano ripristinare non poteva, a sua volta, che richiamarsi a una comunità emergente la quale, riappropriandosi di uno spazio per attività mutualistiche e solidali, scopriva la necessità di dotarsi di modalità di relazione e autorganizzazione politica altre. L’esperienza dell’Asilo, infatti, afferma con forza che “un bene per essere attratto alla categoria dei beni comuni deve essere caratterizzato da una forma di governo che sia ispirata ed attui forme di partecipazione diretta delle comunità di riferimento alla e alla gestione del bene”.

L’esperimento dell’occupazione è approdato, così, a un susseguirsi di assemblee pubbliche eterogenee dove si è stabilito di fare dello spazio un bene comune a disposizione della città. Sono state le stesse assemblee che hanno immaginato uno strumento del tutto nuovo: l’uso civico e collettivo urbano, ispirato allo strumento giuridico – l’uso civico – con cui, da sempre, le comunità gestiscono terre e risorse con modalità definite collettivamente attraverso l’uso. L’uso civico e collettivo urbano non prevede l’assegnazione del bene ad alcun soggetto, ma riconosce l’autogoverno aperto della comunità e impegna l’istituzione proprietaria a garantire l’accessibilità del bene, facendosi carico, tra l’altro, delle utenze e dei lavori di manutenzione straordinaria, oltre che di alcuni orari di custodia.

Tutte queste pratiche di uso e gestione assembleare sono state trascritte in una Dichiarazione d’uso civico e collettivo urbano, in cui sono descritti, ad esempio, gli organi e i processi decisionali, le procedure per l’accesso agli spazi, la condivisione delle responsabilità tra le comunità e l’Amministrazione, i principi delle economie interne. La Dichiarazione è stata presentata al Comune di Napoli che, a seguito di una lunga e accesa negoziazione, l’ha riconosciuta con proprie Delibere di Giunta (nn. 400/2012 e 893/2015). Alla Dichiarazione è allegato un dossier delle attività che mostra la varietà delle stesse e dei soggetti che usano gli spazi, avente lo scopo di rendere chiara l’accessibilità e la redditività civica dei beni comuni, cioè la capacità di ridistribuire le risorse e produrre un enorme valore culturale, sociale e politico. Lo stesso processo che ha visto protagonista l’Asilo è stato ripetuto con altri sette spazi che sono stati riconosciuti come beni comuni (Delibera di Giunta 446/2016), con il successivo riconoscimento delle loro Dichiarazioni (Delibere 297/2019 e 424/2021).

Importante rimarcare come la legittimazione di queste norme è stata fatta risalire direttamente al dettato costituzionale, in particolare nei diritti di partecipazione (artt. 48, 49 Cost.) – completati dal principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, comma 4) – nella funzione sociale della proprietà (art. 42), oltreché nella possibilità di affidare servizi essenziali a comunità di lavoratori e utenti (art. 43) e, soprattutto, nell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2).

È con simile finalità che la neonata rete napoletana dei beni comuni ha promosso la costituzione di nuovi organi pubblici cittadini, come l’Osservatorio permanente sui beni comuni e la Consulta di Audit sul debito e sulle risorse della città di Napoli; composti da persone con alle spalle esperienza di attivismo politico-sociale, disposte a mettere le proprie competenze in ascolto della città, queste due istituzioni sono nate per facilitare l’accesso civico ai documenti amministrativi, proporre emendamenti, mappature, protocolli di intesa, dibattiti pubblici… In breve, si tratta di organi non tecnocratici né neutrali, che sono innanzitutto: “strumenti politici e di lotta, un’altra leva per rivendicare i diritti fondamentali”. La sfida posta da queste nuove istituzioni è porre, in modo più ampio, il tema di un governo della città funzionale ai diritti sociali, attraverso modelli di hackeraggio del sistema di proprietà, alternativo al paradigma estrattivo basato su mercificazione, alienazione e svendita del patrimonio pubblico. Per le nuove forme di lotte socio-ecologiche diventa essenziale ridiscutere i paradigmi legati alla proprietà e alla produzione dello spazio per esplicitare le relazioni tra valore d’uso e di scambio connesse al diritto alla città e alla produzione dello spazio, mettendo in discussione il dogma della valorizzazione immobiliare basato sulla cattura e sull’appropriazione del valore attraverso la rendita. Una logica che si dispiega attraverso conflitti sulla proprietà dei beni e sulle modalità del loro uso (Andreucci et al. 2017).

È chiaro, dunque, che la comunità non ha cercato nel diritto una semplice regolarizzazione, bensì uno strumento per immaginare nuove istituzioni che potessero fare da precedente per il riconoscimento di altre esperienze e innovare le modalità della decisione pubblica. Così nasce un esperimento che è stato rivendicato, con alterne vicende, in diversi luoghi d’Italia – da Torino a Palermo ad Alghero – e che, infine, ha trovato riconoscimento, al pari di altri strumenti, nel Regolamento dei Beni Comuni del Comune di Padova, approvato nel 2021.

Politica, arte, comunità

Come sostenuto da Camus, nel suo Mi rivolto dunque siamo, quel “no” pronunciato così distintamente e con forza aveva funto da chiamata, esprimendo un valore, a cui tutte/i coloro che avevano condiviso la disapprovazione per quello stato dell’arte diedero risposta. Una comunità, fino ad allora scarsamente consapevole di sé, incapace di esprimersi e di aggregarsi, sorse da quel “no”. Una comunità che adottò come pratica politica l’autorganizzazione (il suo modello organizzativo, infatti, è: un’assemblea, aperta e pubblica, unico spazio decisionale, articolata in tavoli, cui sono delegate le scelte logistiche) e, come criterio decisionale, quello del consenso (quindi non espressione della maggioranza, ma che includa nella decisione anche le obiezioni della minoranza), per provare a escludere la possibilità che venissero a crearsi minoranze inascoltate e preservare un ambiente quanto più possibile pluralistico, all’insegna della tutela massima della biodiversità dell’alterità culturale (a valle della scelta del metodo c’era il desiderio di passare dal “chi” al “come”). Questi gli organi di autogoverno di cui si è dotata una comunità che ha scelto di non formalizzarsi mai, proprio per rimanere sempre aperta, porosa (come la Napoli benjaminiana), includente e mai escludente, sfidando tutti i rischi che un’apertura comporta: dal free rider (chi beneficia di risorse collettive senza contribuire al pagamento, scaricandone l’onere sul resto della collettività), dagli attraversamenti strumentali (ovvero superficiali e solo utilitaristici, e non partecipati), a un sistema immunitario deficitario contro gli approcci egoistici che remano contro una comunità e l’interesse di tutte e tutti. Una comunità il cui mandato è stato quello di essere sempre e comunque accogliente, di gestire un luogo pubblico in modo aperto e partecipato, escludendo qualsiasi forma di uso esclusivo.

L’Asilo ha scelto di fare politica, sì, ma in modo comunque apartitico, rifiutando qualsiasi tipo di bandiera al suo interno (uniche eccezioni: No Tav, No Muos e la bandiera palestinese) e non schierandosi in alcuna campagna elettorale. La scelta di non assumere mai alcuna identità è dettata dall’intenzione, utopica, di esser sempre pronti/e ad accoglierle tutte. Grazie al suo modello flessibile e mai rigido, si può dire che non esiste un solo Asilo, ma tanti quanti i suoi abitanti, così come al suo interno non esiste un solo io, ma una noità che si vorrebbe sempre più eterogenea e plurale. Questa sua versatilità ha garantito all’esperienza un turnover di forze ed energie in continuo rinnovamento, assicurandole di essere antenna pronta a captare ogni nuova corrente di pensiero e attenta ad avere cura di ogni nuova sensibilità, ben salda alla contemporaneità del territorio, eppure capace anche di potersi flettere per accogliere nuove battaglie (la lotta alla turistificazione di massa e selvaggia che ha stravolto il quartiere, l’eco-transfemminismo, il femminismo della IV ondata, nonché numerose altre campagne politiche e civili; impossibili da riportare tutte, basti citare i collettivi studenteschi, l’associazionismo, l’appoggio alla rete Kurdistan, alla gira zapatista, le scuole di italiano per i migranti, la scuola elementare del teatro, i dibattiti pubblici).

L’altra faccia di questa scelta politica è il costo di non poter essere immediatamente riconoscibile nel sistema dei bandi, non traducendosi in un soggetto di diritto privato. Una decisione questa che, se da un lato ha, forse, allontanato chi avrebbe voluto veder crescere l’ex Asilo come un hub o una factory, dall’altro ha pagato in termini di coerenza politica e ha spinto – con il concorso di diverse altre realtà – per innovare il sistema dei finanziamenti sociali e culturali, che sempre più spesso si sta aprendo ad accogliere anche realtà informali.

L’esperienza dell’Asilo, dunque, si regge su un mix creativo di sostegno pubblico, bandi e donazioni, che gli hanno consentito di vivere e crescere, per ormai quasi dieci anni, come spazio aperto, dove l’accoglienza delle iniziative e l’accesso ai mezzi di produzione sono sempre liberi e mai soggetti a un contributo economico vincolante. Attraverso liberalità e contributi dei suoi attraversatori, infatti, la comunità ha potuto autosostenere le spese di manutenzione ordinaria e autodotarsi di strumenti di produzione artistica (e di ricerca) da mettere alla libera disposizione della collettività di artisti/e, fruitori e fruitrici o, più generalmente, chiunque ne facesse richiesta. Di qui, un ex refettorio che diventa sala prova di danza, con la pedana più grande del sud Italia; ex uffici che rinascono come teatro per piccole compagnie e teatri di prossimità che non possono permettersi l’affitto di spazi, o si convertono in teatri di posa per fotografi senza produzioni, o ancora si fanno aule studio o biblioteche; cappelle che, tramite un crowdfunding, dotano la città di una sala cinema, vero e proprio schermo libero… ma anche nuovi laboratori che sorgono e si succedono a seconda dell’uso, e vengono autocostruiti in base alle esigenze di chi li attraversa: dalla sartoria teatrale al laboratorio di cianotipia, dalla falegnameria sociale alla camera oscura, dalla serigrafia al forno di ceramica comunitario… Per tenere sempre alta la vocazione alla riconvertibilità e non rischiare mai di cristallizzarsi e ridurre l’attraversabilità, gli spazi dell’immobile sono quasi tutti prettamente polifunzionali, con allestimenti removibili che consentono il rispetto dell’assetto storico e monumentale e, al tempo stesso, realizzano architetture nate per la condivisione e la turnazione di diversi usi, corrispondenti ai criteri di gestione che il bene comune si è dato.

Il modo di fare politica dell’Asilo è il modo in cui fa arte: tutte le proposte sono accolte, stante la disponibilità di spazi, energie e competenze tecniche; i prezzi fissati per la fruizione di eventi e seminari formativi (non rilevante da chi siano tenuti) sempre popolari e mai vincolanti; qualsiasi forma di direzione artistica è esclusa proprio per dare spazio a tutte le forme di espressione, con il rifiuto reciso del concetto di arti, intelligenze o culture, più alte e più basse, più o meno meritevoli di altre: non c’è gerarchia nemmeno in questo campo. Unici limiti, i tre principi di base, di cui sopra, conditio sine qua non per accettare una proposta, culturale o politica, cui in seguito si sarebbe sempre dibattuto se affiancarne altri, come l’anticapitalismo o l’antispecismo.

Uno degli eventi caratterizzanti del fitto calendario, sempre mutevole, dell’Asilo è il Grande Vento. Come dimostra il gioco di parole, si tratta di una manifestazione nata in aperta contrapposizione alla mentalità sottesa ai grandi eventi istituzionali descritti sopra, che piombano su un territorio senza alcun confronto a monte. Alla fine di ogni anno, l’Asilo apre le sue porte per tre giorni di folle autorganizzazione. Qualsiasi proposta è accettata e supportata tecnicamente per esprimersi, ma anche calendarizzata e invitata a mettersi in connessione con altre all’interno di apposite assemblee di artisti/e, per condividere lo spazio performativo, e non solo, invitando all’incontro e alla sinergia verso una contaminazione vicendevole.

Mentre si riflette su come questo momento imprescindibile possa essere ripensato in tempi pandemici, l’Asilo ha trovato altri mezzi di cui dotare la comunità per potersi incontrare ed esprimere, su un piano non fisico. Così è nata l’esperienza de La tela, uno spazio web di incontro e scambio artistico e culturale dove, tramite una serie di chiamate diffuse alle arti (anziché alle armi), la comunità ha ulteriormente esteso i suoi confini immateriali per coprire luoghi geograficamente lontani, diventati improvvisamente vicini. Anche lì è stato fatto salvo il principio cardine dell’interdipendenza, privilegiando l’incontro e invitando al mutualistico meticciamento: anche nel virtuale non viene meno la vocazione a voler essere uno spazio sempre aperto a stimoli che lo contaminino, in quello che è un processo più che un modello puntuale.

Abbracciando, tra le altre, le rivendicazioni delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo, col covid più flagellati/e che mai, l’Asilo ha ibridato la sua natura pervenendo ad autodefinirsi nuovamente quale centro di autoproduzione artistica inter-dipendente e relazionale, respingendo l’idea che si possa fare arte indipendente, ovverosia sufficiente di per sé stessa, isolati/e da tutte le altre persone. Se, in passato, l’Asilo ha portato avanti una serie di sperimentazioni, accogliendo quello che era lo spirito del tempo in cui è nato (l’autoproduzione in contrapposizione alle logiche mortificanti e falsamente meritocratiche di un sistema di grandi produzioni che ci ha vessato con un’industria culturale di massa foraggiata da interessi privati, omologante e appiattente; un innovativo istituto giuridico che estendesse l’appropriazione dal basso di inutilizzati beni pubblici dalla specifica vocazione d’uso – pascoli in stato di abbandono, tratti di mare pescosi – ai beni urbani destinati all’uso civico e civile, lasciati degradare o privatizzati da governanti incapaci di valorizzarli o ri-significarli a seconda delle esigenze dei quartieri dove insistono), quella a cui si sta aprendo, recentemente, è di diventare un luogo di incontro dove poter esperire un diverso modo di interfacciarsi, mettendo al centro non l’esito dell’atto creativo, ma il processo e, soprattutto, le relazioni a esso sotteso. Relazioni che si vogliono improntate non alla competitività (come nel mondo esterno dal quale si vuol distaccarsi per proporre un altro modo di comportarsi e stare al mondo) ma alla condivisione, non al conflitto volto a sé stesso ma alla dialettica, per far emergere una voce nuova, il cui valore sia superiore alla somma dei suoi componenti – il c.d. genio collettivo – all’interno del quale ogni individualità sia accolta, esaltata e abbracciata, e non diluita, ma il cui frutto sia impossibile scindere e fare risalire ai singoli contributi.

Dal commoning a un nuovo comunitarismo del vissuto

In questi quasi dieci anni la comunità dell’Asilo si è rinnovata e dalla sua esperienza hanno preso spunto altri beni comuni, facendo emergere, con continuità, magmatiche comunità carsiche e offrendo un modello a un potenziale sul territorio che attendeva solo di autodeterminarsi e potersi esprimere, diventando anche un caso studio all’estero in termini di riqualificazione del tessuto urbano, e civile, con la sua forma di municipalismo partecipato. Queste esperienze sono nate, non a caso, a Napoli: una città caratterizzata da un patrimonio artistico e urbano la cui storia e valore sono pari solo al loro disuso. La gestione di questi spazi è sempre stata all’insegna di un’autorità o assente o, quando presente, paternalistica e giudicante, refrattaria a essere contaminata e offrire ascolto a larghe parti della popolazione, ignorata o neocolonializzata da proiezioni e visioni esogene (tenuto conto che convivono, fianco a fianco, Napoli diversissime e distanti). L’esperienza dei beni comuni napoletani ha riaperto oltre dieci immobili: una fetta sempre più larga di popolazione si è emancipata da sé e si è dotata, da sola, di quanto sentiva mancare nell’offerta culturale e nelle prestazioni sociali della sua città. L’azione a cui si stanno votando adesso i beni comuni è quella di recuperare anche un modo diverso di stare insieme, che era quello comunitario, tipico della sua tradizione: la c.d. cultura del vicolo, nata dalla convivenza in uno spazio, quello cittadino, angusto che costringeva alla prossimità: è quella che è stata attaccata con l’eradicazione di interi quartieri, con la ricostruzione della città pubblica, durante la gestione commissariale post-terremoto, segnata in parte da operazioni speculative, e ora con la gentrificazione; quella che ha capitolato, a seguito dell’individualismo capitalista e consumista, della mancata valorizzazione delle proprie tradizioni (salvo quando si tratti di svenderle), e del genocidio delle sottoculture non borghesi, solo più lentamente che altrove. Questo altro modo di intendere il proprio stare al mondo (unicamente insieme) affonda le proprie radici in un sistema filosofico che va dalla grecità, passando nuovamente per la tradizione umanistica napoletana che la recuperava (“è legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri” scriveva Genovesi nel 1754), fino a un modo di intendere la felicità stessa non come qualcosa di privato o pretenziosamente indipendente, di escludente e avulso dalle sorti altrui, ma eudaimonica, ovvero come un bene comune anch’essa al quale votarsi. Di qui l’invito all’inter-essere, la valorizzazione dell’eterogeneità culturale e il meticciato delle culture come atto d’impegno politico (“è il possesso culturale del mondo che dà la felicità”, scriveva, nel 75, Pasolini, rivolgendosi, di nuovo non a caso, a un immaginario giovane napoletano). 

L’Asilo, dieci anni dopo

A marzo 2022, l’Asilo ha compiuto i suoi primi dieci anni di sperimentazione. Ha al suo attivo molte cose:

–      un film recentemente interamente autoprodotto – Un fallimento perfettamente riuscito – in grado di competere a piccoli festival, che parla di una comunità che riflette su sé stessa e sulle sue possibilità di continuare a liberare, insieme, il proprio genio creativo e collettivo, in un mondo che, complice la sindemia, sta diventando sempre più abbrutito, competitivo, escludente e chiuso. Il film prova a dimostrare che un altro modo di fare arte, con le proprie forze, in assenza di ruoli, è possibile, autodeterminando e mettendo in connessione le risorse umane e creative che un territorio, incapace di valorizzarle, fa cadere in disuso;

–   sperimentazioni ancora agli step iniziali nel tentativo di estendere la comunità e l’uso civico degli spazi e dei suoi mezzi a quante più persone possibili. Qui l’esperienza si confronta con la sfida di includere – non integrare – il terzo, lo straniero, il più diverso da sé, quello che sfugge alla nostra sfera di prossimità e bolla di affinità. Ad esempio, lo spazio ha provato ad accogliere le persone percettrici di reddito di cittadinanza immaginando un modo diverso di realizzare i Progetti di Utilità Collettiva previsti dal Governo. Strumenti di per sé criticabili per come costruiti dalla norma, perché limitati, in quanto pongono il reddito a una sub condizione – quasi l’indigenza fosse una colpa – e spesso finiscono per trasformarsi in altre forme di sfruttamento o asservimento e negazione del valore e della dignità della persona. All’Asilo si sono approcciati i PUC con una logica opposta: per liberare il tempo dei percettori e renderlo spendibile in processi emancipatori. In sinergia con l’Osservatorio sui beni comuni e l’Amministrazione comunale, i progetti sono diventati un modo per provare a coinvolgere sempre più il territorio in questo (prima ex, ora nuovamente) luogo che è suo, restituito e liberato, perché se ne riappropri. Inoltre, i percorsi con le scuole – non solo i collettivi studenteschi (già “risvegliati” e politicamente attivi), ma studentesse e studenti degli istituti tecnici, o alberghieri, vero bastione futuro contro la turistificazione della città – hanno tentato di favorire un passaggio generazionale e sopperire alla ormai strutturale carenza di spazi e mezzi delle scuole del territorio, soprattutto quelle in periferia, badando bene a non replicare un assistenzialismo di ritorno;

–    percorsi di autoformazione per dotarsi di nuovi toolkit assembleari, sviluppare e diffondere anticorpi che tengano conto e rispetto di tutte le nuove sensibilità e le nuove minoranze, disinnescare la violenza latente negli strumenti comunicativi di cui disponiamo. Spazi e progetti dove l’Asilo, come buona pratica europea, si mette continuamente in gioco per confrontarsi con diversi contesti e sperimentarsi su terreni nuovi ed essenziali;

– la sperimentazione con il bando Fermenti, con cui 100.000,00 € sono stati portati in Asilo da un gruppo di under 35 che, in sinergia con tavoli e assemblee, hanno scritto un progetto con l’obiettivo di rafforzare una biblioteca e aula studio a uso civico e collettivo urbano nel centro storico di Napoli. Un progetto che sfida tutti i limiti posti dal finanziamento ministeriale, che immagina una start-up giovanile come forma di rilancio del territorio, rinunciando a forme di sostegno più strutturali, capaci di svincolare energie dalla morsa del sostentamento economico laddove una tale mole di lavoro non riconosciuto, in un’epoca di altissime percentuali di disoccupazione e di smantellamento del pubblico, produce una così imponente redditività civica e una tale ricaduta sociale sulla vita delle città.

Arrendetevi: noi siamo la cura

Un’eredità importante quella che l’Asilo si trova a fronteggiare, a questo giro di boa, e che pure si scopre fragile davanti al cambiamento sociale, politico e culturale in atto. La pandemia ha mostrato l’importanza di spazi come l’Asilo, laddove le città sono sempre più considerate da luoghi di speculazione e consumo, mentre restano carenti le strutture dedicate all’istruzione, alla cultura e alla salute intesa nel senso più ampio del termine. Al tempo stesso, il meccanismo del pareggio di bilancio ha attanagliato ulteriormente le istituzioni locali, dove la necessità di misure eccezionali non si è accompagnata alla possibilità di vedere ridotti i propri obblighi di contenimento del debito. Infine, i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il c.d. PNRR) recano un chiaro messaggio: gli stanziamenti andranno prima o poi ripagati e, quindi, devono essere accompagnati da misure che, man mano, velocizzano i processi decisionali – anche a discapito della partecipazione – e privatizzano con il pretesto dell’efficienza.

Il momento presente richiede un rilancio delle conquiste cittadine legate alla ripubblicizzazione dell’acqua e ai beni comuni, che oggi sono – dopo dieci anni – di nuovo a rischio. Si rende necessario un ulteriore appello alla discussione pubblica sulle risorse, destinata a rivendicare che il patrimonio pubblico resti tale per lasciare aperti spazi di possibilità quali molteplici usi sociali adattabili ai bisogni del territorio. Proprio questa carenza ha costretto a chiudere scuole e spazi culturali mentre restavano aperte le industrie: di fronte alla progressiva erosione delle risorse e degli strumenti per la valorizzazione sociale dei beni pubblici, non c’era spazio per soccorrere le strutture, già insufficienti, degli istituti formativi, dei teatri di prossimità e dei luoghi di cultura in genere.

Queste sono le sfide di un nuovo decennio di Asilo che si apre dopo due anni dall’inizio della pandemia, quando le vulnerabilità individuali e collettive ci fanno scoprire la necessità, e al tempo stesso le difficoltà, dell’interdipendenza. Di qui l’esigenza di riappropriarsi di quegli elementi in attivo nell’Asilo che fanno la differenza, e che ancora sfuggono a qualsiasi strumento di misurazione di ricadute sociali sul territorio: le relazioni che non sono venute mai meno, nonostante il distanziamento, la chiusura, l’incertezza dei tempi. E la loro cura. Cura che, anche qui, mette insieme la tradizione femminista e quell’attivismo partecipativo e civico, ben espresso da Don Milani, per cui la cura (care) è la risposta, la controreazione rivoluzionaria, al me ne frego fascista: fare l’interesse di tutt*, consapevoli, in questo modo, di fare, in ultima analisi, il proprio. Vale a dire: il bene comune.

Il genio collettivo de l’Asilo, grazie al contributo di Roberto Cirillo, Maria Francesca De Tullio, Gaia Del Giudice, Andrea de Goyzueta, Cesare di Transo.

Bibliografia e sitografia:

Andreucci A., Garcia-Lamarca M., Wedekind J., Swyngedouw E. (2017), “Value Grabbing: A Political Ecology of Rent”, Capitalism, Nature, Socialism, 28(3), 28-47.

Lefebvre H. (1973), La rivoluzione urbana, Armando Editore, Roma.

http://www.exasilofilangieri.it/approfondimenti-e-reportage/

https://commonsnapoli.org/

http://www.exasilofilangieri.it/arti-virali/