Chiara Belingardi | Città viva | Vol III | Futuri urbani
Introduzione
Il dibattito a proposito dei beni comuni (commons) ha avuto una lunga ripresa a livello internazionale e nazionale nell’ultima decade. Le ragioni sono molteplici. Tra queste la crisi del welfare state e il passaggio da un sistema economico liberista a uno neo-liberista (dall’economia industriale all’economia finanziaria), che si è accompagnato alla globalizzazione e al superamento dei confini degli stati nazione per alcune questioni politico-economiche, i cui effetti tuttavia si fanno sentire nella vita quotidiana. A questo si è unita la crisi economico-finanziaria mondiale (dal 2008), che ha generato un senso di impotenza e impoverimento in gran parte della società – soprattutto tra le fasce più colpite – che ha lasciato gli Stati impoveriti di parte dei loro fondi pubblici e di conseguenza i cittadini impoveriti dei servizi pubblici. Crisi i cui effetti sono stati di lungo corso e che invece di esaurirsi si sono sommati alla crisi ambientale e climatica, e alla crisi socio-sanitaria che ha caratterizzato gli ultimi due anni. La pandemia da Covid-19 ha generato un ulteriore impoverimento delle fasce di popolazione già deboli: i sussidi (e molto spesso anche gli aiuti di emergenza) non sono arrivati alla “vita precaria”: persone senza documenti (o in attesa), lavoratrici e lavoratori al nero, intermittenti, giornalieri, senza dimora, per fare alcuni esempi. Roma è stato un caso (non l’unico) di come le reti sociali autorganizzate siano state in grado di dare risposte più capillari ed efficaci alle esigenze basilari (aiuti alimentari, pacchi per neonati, distribuzione di medicine e altro materiale sanitario) di un gran numero di persone, che non erano ancora o non sarebbero mai state raggiunte dalle istituzioni[1].
Ci troviamo dunque di fronte a una società ancora più impoverita e con sempre più necessità di creare legami mutualistici e di Solidarietà. Il tipo di legami che si possono creare attorno a spazi condivisi, della Cura:
Gli spazi pubblici sono cruciali per la costruzione di comunità basate sulla cura perché sono accessibili a chiunque e favoriscono la convivialità, le interconnessioni e la vita in comune. Per questo dobbiamo creare, riappropriarci e rivendicare più spazio pubblico.[2]
Quando però il pubblico diventa escludente, per effetto di politiche di sfruttamento ed estrattivismo urbano[3], accompagnate da tendenze al decoro e securizzazione, si rende più forte la spinta alternativa verso gli spazi del comune:
Una de las alternativas emergentes es la del urbanismo y la arquitectura de los “comunes”, que, mas allá de la tendencia del estatalismo y exclusivismo de lo publico frente al predominio del individualismo y la financiarización de todo, proponen recuperar a los espacios de cooperación social en la gestión de los recursos comunes; un control de doble dirección entre ciudadania y gobierno.[4]
In questo emerge quanto la proprietà pubblica non sia più garanzia di un effettivo uso generalizzato di un bene, né sia garanzia di una sua eventuale disponibilità futura: si pensi ad esempio a tutte le cartolarizzazioni e dismissioni avvenute negli ultimi anni per effetto della crisi finanziaria e delle conseguenti politiche di austerity. I beni comuni al contrario nascono come luoghi di relazione che si forma attorno alla difesa, creazione, condivisione di un bene. Come sottolinea Micciarelli:
I beni comuni vanno tutelati non soltanto in quanto «cose», beni o risorse, ma come beni relazionali, intorno ai quali si genera una comunità di riferimento.[5]
Il dibattito sui beni comuni. Una ricostruzione interdisciplinare.
Il dibattito sui beni comuni ha avuto fortune alterne nella storia europea[6], con periodi di ampie discussioni, a cui si sono susseguiti periodi che si potrebbero definire di indifferenza al tema. Silvia Federici individua l’inizio del dibattito contemporaneo sui commons nel 1993, quando gli Zapatisti presero lo Zocalo (la piazza principale) di San Cristobal de las Casas, in Messico: diedero un’alternativa alla rivoluzione statalista, che fino a quel momento rappresentava l’unica altra opzione rispetto al modello capitalistico[7]. Nei primi anni 2000 il dibattito si nutrì ancora dei punti di vista nati all’interno dei Social Forum e dei movimenti antiglobalisti e altermondalisti, che puntarono soprattutto sulla natura dei beni comuni come elemento di opposizione e resistenza alla commercializzazione di ogni aspetto della vita quotidiana. Nel 2009 Elinor Ostrom ricevette il premio Nobel per l’economia, per il suo studio sui beni comuni come sistema organizzativo in grado di garantire la disponibilità di alcune risorse naturali per lungo tempo, attraverso un uso conservativo e non di sfruttamento[8]. Questa posizione fu in grado di confutare la teoria della “Tragedia dei beni comuni”[9], che postulava l’impossibilità di un’equa condivisione dei beni, dovuta all’egoismo intrinseco della natura umana. Hardin infatti sosteneva che di fronte a una risorsa messa in comune (ad esempio un pascolo) ogni individuo del gruppo degli usuari avrebbe necessariamente teso a massimizzare lo sfruttamento a proprio vantaggio (ad esempio portando il massimo numero di pecore), portando di conseguenza il bene all’esaurimento (l’erba non riesce a ricrescere perché i pastori hanno portato un numero di pecore eccessivo); di conseguenza solo la proprietà poteva garantire il perdurare di un bene (il proprietario del pascolo che stabilisce quante pecore si possono portare e a che prezzo, perché il suo interesse è che il prato non si esaurisca). Al contrario Ostrom, attraverso lo studio di diversi sistemi comunitari attorno all’uso di risorse naturali (pesca, pascoli, o altro) ha dimostrato che le regole della comunità si rivelano in effetti più efficaci delle regole imposte dall’esterno (il proprietario del pascolo, lo Stato o altri).
In Italia il dibattito sui commons ha avuto un ulteriore avanzamento a livello politico per due fattori che è necessario nominare. Nel 2007 l’allora governo Prodi nominò una commissione di esperti giuristi (la Commissione Rodotà) per operare una riforma del codice civile in materia di beni pubblici, includendovi i beni comuni. Il risultato della commissione definiva i beni comuni come beni in grado di garantire la realizzazione dei diritti fondamentali, e come tali invendibili/incedibili dallo Stato[10]. A metà del 2011 si è tenuto un Referendum di iniziativa popolare che, tra gli altri quesiti, ne conteneva uno contro la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, prima di tutto i servizi idrici. La campagna referendaria ha visto un’ampia Partecipazione popolare, nonostante lo scarso appoggio ricevuto dai partiti politici[11]. La vittoria al referendum, avvenuta anche attraverso lo slogan “L’acqua è un bene comune”, ha acceso l’immaginazione di molti movimenti, per cui nei mesi seguenti si è assistito a un abuso del termine[12].
Nello stesso periodo sono nate diverse occupazioni di cinema e teatri ad opera di studenti e lavoratori e lavoratrici dello spettacolo e della cultura: il Cinema Palazzo (diventato poi Sala Vittorio Arrigoni e di recente sgomberato dalla giunta Raggi), il Teatro Valle Occupato a Roma (esperienza conclusa nel 2014), l’Asilo Filangieri a Napoli, il Teatro Rossi Aperto a Pisa (chiuso nel 2021), MACAO a Milano, l’ex Cavallerizza a Torino (l’elenco non è esaustivo), e altre occupazioni hanno messo la centro della scena la questione della messa in comune degli spazi della cultura per creare luoghi di sperimentazione e innovazione politica e culturale. Alcune di quelle esperienze si sono concluse, quasi sempre in maniera violenta e per fattori differenti (primo di tutti lo sgombero degli stabili a opera delle forze dell’ordine). Tuttavia sono state l’avanguardia di una stagione in cui il “comune” ha preso il centro del dibattito politico, aprendo la strada a nuove forme di relazione, mutualismo e riproduzione da una parte e a nuove categorie giuridico-legislative dall’altra.
A livello scientifico, molti studiosi e studiose hanno dato definizioni del lemma “beni comuni”, ma si è ancora lontani da una definizione univoca e valida per le diverse discipline. Per questo motivo, al posto della ricerca di una definizione, spesso si è ricorso a due tipi di operazione: l’elenco delle cose che devono essere considerate tali (acqua, terra, aria, clima, conoscenza, pace, usi civici…) e/o la ricerca di alcune caratteristiche ricorrenti tra i vari elementi dell’insieme[13]. Questo dimostra che il “comune” non è una caratteristica intrinseca di una categoria di beni e dà ragione a chi sostiene che il fattore centrale nella definizione di un bene comune è il governo/uso che se ne fa[14].
Il fatto che l’essere o meno comune non dipenda dal bene in sé, ma da altri fattori, offre la possibilità di esplorare il concetto anche in ambito territoriale e urbano, individuando dunque una nuova categoria di spazi: le “comunanze urbane”.
Beni comuni urbani
Nell’ambito delle discipline della pianificazione si possono riconoscere alcune declinazioni del collegamento tra il discorso sui beni comuni e quello sullo spazio urbano: da una parte chi considera lo spazio urbano un bene comune in generale, perché «non c’è nulla di più comune dello spazio nel quale l’andamento delle nostre vite si definisce»[15]. Da altra parte chi, come Cellamare, riconosce un carattere “comune” ad alcuni luoghi specifici:
Abbiamo, poi, situazioni in cui invece prevale la cura e la rimessa in circolo di un bene, che quindi (ri)diventa un “bene comune”. Soprattutto se a intervenire sono abitanti organizzati senza secondi fini o altri soggetti (comitati, associazioni, ecc.) che appartengono al tessuto sociale, sono ben radicati nel territorio e sono espressione di una dimensione collettiva condivisa.[16]
Questo in particolare avviene quando le comunità si organizzano intorno a spazi abbandonati, spazi di risulta, i cosiddetti brownfield:
Ora, mentre la città continua a espandersi a livello regionale, le terre desolate riappaiono al suo centro, sotto forma di lotti vuoti, case sbarrate, auto fracassate e slums esauriti. La miseria rurale e i cumuli di rifiuti rurali del passato vengono inglobati nelle forme di terra sottoutilizzata e di gruppi marginali interni alla città stessa. Remote o centrali, queste aree desolate sono anche i luoghi in cui sopravvivono i modi di vita emarginati, e in cui iniziano nuove cose.[17]
Nei continui cambiamenti che la città subisce è facile trovare parti in attesa di un uso, o abbandonate, rovinate. Per le comunità è più facile ritrovarsi intorno a questo tipo di spazi per alcuni motivi: prima di tutto la mancanza di un uso e di una proprietà forte, che permette una più facile appropriazione e proposta di alternative; in secondo luogo perché recuperare uno spazio ha delle ricadute positive evidenti in termini di sicurezza, salute pubblica e piacevolezza dell’ambiente urbano, creando di conseguenza un sostegno generalizzato anche da parte di persone non direttamente coinvolte nella pratica di comunanza.
Harvey si riferisce alla produzione di commons nello spazio urbano come un’operazione che avviene continuamente. Il problema è che, nel momento in cui vengono creati, questi beni comuni vengono anche continuamente appropriati dal capitale:
The common is not, therefore, something that existed once upon a time that has since been lost, but something that is, like the urban commons, continuously being produced. The problem is that it is just a continuously being enclosed and appropriated by capital in its commodified and monetized form, even as it is being continuously produced by collective labour.[18]
In mezzo agli autori qui citati come esempio, senza la pretesa che fossero esaustivi delle rispettive posizioni (le quali in effetti non possono nemmeno essere considerate antitetiche) è possibile collocare Bollier, che in Think like a commoner[19] considera come bene comune lo spazio pubblico, in quanto indice di salute della nostra democrazia:
The erosion of public space means that it is much harder to be commoners. Without these spaces, we are forced into playing roles dictated by the Marked and the State – acquisitive consumers and quiescent citizens.[20]
La relazione tra spazi urbani/pubblici e la vitalità e la partecipazione democratica è d’altronde oggetto di considerazione già da lungo tempo[21].
Anche in ambito urbano c’è chi, come Montaner e Muxì, sposta la questione dallo spazio in sé (grande o piccolo, pubblico o privato) all’azione di messa in comune:
Lo común debe interpretarse como acción constante, una actividad compartida y abierta, un ejercicio de corresponsabilidad, y no com pertenencia, propriedad y posesión […] Los comunes no son cosas, sino relaciones sociales; comportan “una dinámica viva de autogobierno de la riqueza social”.[22]
Alcune note sugli usi civici nelle città tradizionali
La maggior parte degli usi civici che sono sopravvissuti fino all’età contemporanea (e che sono tutelati dalla Legge Galasso) corrispondono a parti di territorio legate a un’economia rurale (campi, boschi, pascoli), perciò rimangono quasi sconosciuti quelli che invece insistevano all’interno delle città. Nel suo elenco delle risorse collettive in epoca medievale, Riccardo Rao[23] inserisce alcuni elementi urbani: baracce o braide (spiazzi lasciati liberi con funzioni diverse: pascolo, allenamento dei militari, zone di gioco e di feste, ecc.), mulini, edifici comunali, altri edifici di uso comune, vie e strade (identificate come communia grazie all’ambiguità tra comune e pubblico), sponde dei fiumi, isole nei fiumi, mura cittadine e spazi relativi. Nel suo libro sulle città medievali, Grohmann riporta la presenza di incolti anche all’interno delle mura cittadine:
Le città che tra fine duecento e inizio Trecento avevano impiantato vasti cantieri per ampliare i loro circuiti murari, dopo la grande pestilenza videro all’interno delle mura la presenza di aree verdi non più necessarie per la crescita dell’edificato, che tra l’altro posero problemi sostanziali per la difesa e il controllo degli abitati.[24]
È possibile trovare tracce di questi usi civici comunali nella città contemporanea. Un esempio di questo è il Boston Common, un parco situato nel cuore della città di Boston (Massachusetts). Gli abitanti di Boston hanno usato da sempre il Common come luogo di riunione religiosa o politica (dai Tea Party a Occupy Boston), ma anche come luogo di loisir, avvenimenti culturali, oltre a tutte le funzioni del parco pubblico. Dall’inizio del Novecento il Common è entrato a far parte della “collana di smeraldi”, l’Emerald Necklace: un sistema di parchi pubblici progettato da Frederick Law Olmsted che parte dal mare e si conclude qui disegnando un semicerchio, la collana appunto. Il Common è considerato un’unica unità con altre due aree verdi limitrofe: il Public Garden e il Commonwealth Avenue Mall. Nel 1970 è stata fondata un’associazione, Friends of the Public Garden, che lavora in stretto contatto con il dipartimento per i parchi pubblici del comune di Boston. L’associazione è ancora molto attiva e raccoglie una grande partecipazione.
Il caso del Kennington Common (a Londra) può essere considerato esplicativo per molti altri luoghi dello stesso genere, che con la modernità hanno cambiato funzione (si parlerà più avanti dei Prati del Popolo a Roma). Il common si trovava nel cuore di Londra, nel quartiere di Kennington. Era luogo di usi informali, di attività legate alla sopravvivenza (piccola agricoltura, pascolo, raccolta di erbe, ma anche attività illecite), di incontro tra gli abitanti, assemblea per predicatori, attività politiche anche di primo piano. Da qui era partita la grande marcia dei Chartisti[25] del 1848. In seguito a questo fatto il governo decise di impedire che folle così grandi potessero di nuovo riunirsi nel common, soprattutto a causa della sua poca distanza dal Parlamento e, con l’appoggio dei moderati e il sostegno della stampa, fece partire una campagna per la pulizia materiale e morale dell’area. Pulizia che come primo atto ebbe la recinzione dello spazio e la sua sistemazione a parco pubblico (vennero piantati alberi, sistemati viali, posti arredi, ecc.). Il risultato fu un miglioramento della pulizia dell’area, ma a scapito delle libertà di riunione, dibattito politico e manifestazione. Inoltre furono rimosse tutte le attività informali legate alla sopravvivenza.
Anche la città di Roma aveva uno spazio con simili funzioni: i “Prati del Popolo di Roma”. Quest’area prativa nell’odierno quartiere di Testaccio si trovava tra Monte dei Cocci (una discarica al tempo degli antichi romani), il Tevere e le mura. I Prati erano destinati alla riunione, al ritrovo, alle celebrazioni (i riti pasquali e l’ottobrata romana), al pascolo, alla raccolta di erbe spontanee e alle gite fuori porta, oltre ad altre attività. I Prati avevano sempre avuto un uso libero, e se ne trova traccia nella cartografia storica: alcune mappe (la mappa di Etienne Duperac del 1577, quella di Maggi del 1625, la mappa di Nolli del 1784, quella di Pietro Ruga del 1824, la Pianta topografica di Roma a cura della direzione generale del Censo del 1866, per fare degli esempi) citano la dicitura “Prati” o “Prati del popolo”; altre lasciano lo spazio in bianco (ad esempio Mario Cartaro, 1576; Antonio Tempesta, 1593; Gian Battista Falda, 1676; Angelo Uggeri, 1800 e 1826). La pianta di Roma del 1866 è probabilmente l’ultima in cui è possibile vedere l’area inedificata: nel 1873, anno del primo PRG (Piano Regolatore Generale) [abbiamo aggiunto la parentesi. Per conferma: è giusto?], viene pianificato lo sviluppo industriale e si disegna l’edificazione di tutta l’area[26] facendo di fatto sparire i Prati. La parte rimasta non costruita ospita il cimitero acattolico della capitale, che istituzionalizza l’uso di seppellire nei prati le persone non battezzate. Rimane, sulla Porta San Paolo, una targa[27] del 1720 a memoria dell’antica destinazione.
Verso una definizione operativa delle comunanze urbane e le loro caratteristiche
Quanto fin qui emerso, unito all’analisi di alcuni casi studio[28], porta alla creazione di un elenco di sette caratteristiche delle “comunanze urbane”, che permettano di identificarle e di concepire alcune politiche in grado di rafforzarne le ricadute positive sul vicinato. Le caratteristiche corrispondono a:
1. Autodeterminazione: il potere decisionale rispetto alle modalità di creazione, messa in comune, salvaguardia, cura e manipolazione della comunanza urbana è nelle mani della comunità. Questa comunità è un insieme di individui che si forma grazie all’azione di comunanza. Questa caratteristica non esclude un rapporto con la proprietà, che può essere di tipo negoziale, conflittuale o cooperativo.
2. Multifattorialità: come già spiegato nel paragrafo precedente, si tratta della necessità di tenere conto di diversi fattori nel riconoscimento di un luogo come comunanza urbana effettiva.
Senza la sua comunità di riferimento non esiste bene comune urbano, perché questi non sono risorse già date, ma create dall’attività e dalla volontà dei commoners. Il loro fallimento non sta tanto nel rischio di deperimento fisico del bene, che tendenzialmente è già in una condizione di partenza di degrado, quanto in quello del «deperimento della comunità», cosa che può avvenire per fattori interni alle difficoltà di fare comunità ovvero esterni-interni, e cioè attinenti alla relazione tra la comunità e l’ambiente politico ed economico circostante.[29]
Allo stesso modo c’è bisogno del bene – spazio e delle azioni di comunanza. È l’interazione tra i tre fattori che determina l’esistenza della comunanza.
3. Cura: l’orizzonte di senso della cura non si limita alla manutenzione. Si tratta non di “fare le pulizie”, ma di riconoscere alla cura il suo significato complesso di azione volta al miglioramento, al non-finito, al work-in-progress in uno spazio in continua evoluzione, in un continuo adattamento alle esigenze che di volta in volta si dovessero presentare. La cura implica la conoscenza, l’apprendimento oltre all’azione, implica il tempo oltre all’efficienza:
La cura è un’azione. Curare significa conoscere delicatamente, conoscere lentamente, momento dopo momento, significa ascoltare, guardare le reazioni dell’altro. La cura implica il riconoscimento dell’altro, è implicitamente interattiva. Curare un luogo aiuta ad attivare quel processo fondamentale che ‘crea’ lo spazio geografico, aiuta la formazione dei processi per mezzo dei quali l’azione proiettiva della società trasforma uno spazio naturale in uno spazio geografico col quale si identifica.[30]
4. Autogestione: le regole di creazione – gestione – cura della comunanza vengono stabilite dalla comunità per lo più in momenti decisionali orizzontali o per consuetudine. Questo fa sì che sia necessario usare parte del tempo e dello spazio della comunanza per il confronto tra i membri della comunità (molti spazi hanno assemblee aperte che si tengono a cadenza fissa). Altra conseguenza è che le regole, tranne alcune principali, possano essere messe in discussione e variare a seconda della composizione della comunità e del contesto.
5. Uso: è l’elemento centrale della comunanza. Si tratta delle regole di messa in comune dello spazio e della loro adattabilità e mutevolezza nel tempo. L’uso, l’azione di messa in comune e di creazione della comunanza, sono al centro della formazione della comunità e anche della manipolazione/adattamento dell’ambiente fisico a seconda dei desideri e delle necessità a cui la comunanza risponde.
6. Relazionalità: le comunanze urbane sono in generale luoghi significanti, sia per le persone che li curano, sia per gli altri abitanti; il significato è dato da una parte dall’essere il luogo delle relazioni che si instaurano tra i membri della comunità, dall’altra parte dal lavoro di cura di cui sono oggetto.
7. Inclusione: Questa caratteristica ha a che fare non solo con la possibilità dello spazio di essere attraversato, ma delle persone di entrare a fare parte della comunità. I gruppi che si formano in questo modo sono volontari e non si esauriscono su base territoriale. Questo succede in gran parte dei casi, dove persone disposte a dedicare tempo ed energia alla comunanza non sono solo benaccette, ma addirittura ricercate.
Le caratteristiche qui elencate e brevemente descritte devono essere intese come una modalità di azione che va adattata alle circostanze: è necessario tenere conto del contesto in cui si collocano per capire come queste caratteristiche possano essere declinate. Poiché si tratta di pratiche autogestite, non esistono modalità uguali per tutte, ma solo modalità ricorrenti, che vengono riprese le une dalle altre perché si è visto che funzionano o perché non se ne sono inventate altre.
È ancora una volta utile richiamare qui la caratteristica della modulazione delle regole sull’uso: il fatto di essere messe in comune con uno scopo di volta in volta un po’ diverso, di stare in ambienti e contesti diversi e attraverso l’azione di persone diverse fa sì che non si possano rintracciare regole uguali per tutte, universali, ma solo sistemi ricorrenti che vengono adattati. Quello che rimane costante è il risultato delle azioni: la manipolazione, la partecipazione, la significazione, la frequentazione, l’apertura e la messa in comune degli spazi. Tenere a mente questo è estremamente importante per riuscire a trovare modalità di trattazione che siano non standardizzate, ma che si adattino caso per caso, calandosi nelle pratiche per amplificarne i valori, senza appiattirne le differenze.
Le comunanze urbane come elemento strategico per la costruzione di welfare generativo
Di fronte alle crescenti necessità sociali che nascono dalle diverse crisi descritte in apertura e alle sempre più esigue risorse da destinare ai servizi pubblici a disposizione della pubblica amministrazione, appare strategico cercare nelle comunanze urbane delle risorse per rispondere agli abitanti in maniera capillare e generativa. Appare utile richiamare qui le “Politiche pubbliche dal basso” per come sono state descritte da Paba:
Le pratiche sociali auto-organizzate che producono beni pubblici, hanno (possono avere) le seguenti caratteristiche: […] trasportano i destinatari dentro le pratiche, strappandoli all’indifferenza e all’inesistenza sociale, attraverso forme di inclusione attiva, se è possibile dire così; si sintonizzano in modo sottile sui problemi che debbono trattare, aderendo ai corpi degli abitanti, ai contesti umani, sociali e ambientali; […] mettono in relazione le persone, istituiscono il corpo a corpo tra le persone: bodies matter, i corpi contano, nelle pratiche sociali auto-organizzate; sono pratiche sensibili alle differenze, modulate sulle diversità delle popolazioni urbane – di età, genere, provenienza geografica e culturale, modalità di lavoro e di consumo, condizione sociale, stile di vita, abilità fisiche, preferenze sessuali; […] le pratiche si decidono, si definiscono caso per caso: sono uniche, adatte a una situazione specifica, traducibili ma essenzialmente non replicabili; si diffondono (e mutano nella diffusione) per disseminazione, gemmazione, contagio, imitazione, adattamento, proliferazione orizzontale; sono caratterizzate da un’attenzione (quasi ossessiva) sui modi di fare, ritenuti più importanti non solo del cosa fare, ma anche del come fare; superano (tentano di superare) l’opposizione tra il sostantivo e il processuale (il modo di fare è insieme la cosa e il come, in queste forme particolari di azione sociale).[31]
La “politiche pubbliche dal basso” sono dunque esito di un’azione di welfare comunitario e mutualistico, in grado di rispondere attraverso relazioni e attivazione del capitale sociale ai bisogni sociali esito delle congiunture del presente.
A oggi, riferendoci in particolare ai beni pubblici percepiti come “comuni”, possiamo considerare come riferimenti amministrativi principali i regolamenti sulla «gestione e cura condivisa» e le nuove forme di «usi civici e collettivi urbani»[32]. Seguire una strada o l’altra significa per le amministrazioni scegliere in che posizione stare rispetto ai cittadini autorganizzati. Appare comunque una strada da percorrere quella del dialogo e del rafforzamento delle pratiche di innovazione dal basso, che possano aprire campi nuovi e modalità nuove di azione del pubblico, per la costruzione di città più giuste. Dobbiamo pensare nuovamente al pubblico come garanzia, ma non come unico attore sulla scena. Un pubblico che diventa esito di un’azione politica comune, generatrice di nuove istituzioni:
La città è pubblica non perché è esito di intenzioni, azioni o progetti di un’autorità pubblica, ma perché si confronta direttamente e per intero, con una concezione compatta, ben levigata e potente di pubblico. Una concezione che diventa fonte di principi ordinatori su un progetto moderno che si pone a sostegno e conforto contro l’individualismo ed è permeato dalla volontà di rendere visibile l’istituzione politica.[33]
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Grohmann, 2003, p. 53. ↑
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Con il nome di Chartisti si indicano tutti gli appartenenti al movimento dei lavoratori che nacque in Inghilterra a metà dell’Ottocento. Le loro richieste principalmente riguardavano il suffragio universale maschile, lo scrutinio segreto, la possibilità di elezione per tutti e senza limiti censuari. il nome “chartisti” si riferisce al documento che aveva dato il via al movimento: The People’s Charter (1838). ↑
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Cfr. Insolera, 1981. ↑
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«Testacie campus publicus usui ad pascua depascenda a sacro SPQR iuxta urbi statuta destinato ne ab aliquo sibi addiceretur hic posere anno salutis MDCCXX». ↑
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Per una descrizione si rimanda a Belingardi, 2015. ↑
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Micciarelli, 2021, p. 94. ↑
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Poli, 1999. ↑
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Paba, 2010, pp. 108-109. ↑
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Belingardi, CRIOS; Micciarelli, 2021. ↑
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Bianchetti, cura, 2014, p. 16. ↑