I processi collaborativi nelle politiche pubbliche 

Michela Deni | Città viva | Vol III | Futuri urbani


Introduzione

Lo scopo di questo intervento è di interrogarsi sulle specificità del design, in particolare per quanto riguarda i progetti che favoriscono i processi collaborativi tra cittadini e istituzioni pubbliche.

Dopo la presentazione dei progetti di attraverso il design del Laboratorio di ricerca (Projekt) e della Facoltà di design dell’Università di Nîmes, definiremo il design sociale e i suoi metodi per i processi collaborativi. Per concludere ci interrogheremo sul significato della creatività e sulle specificità del design sociale nella cultura del progetto.

Il design per le politiche pubbliche all’Università di Nîmes

L’incontro organizzato da Criticity, futuri urbani sulla promozione e sulla rivitalizzazione della sociale affinché i possano evolvere a misura di tutti coloro che li abitano ci ha permesso di presentare una parte dei progetti della Laurea Magistrale Design Innovazione Società[1] e di Projekt[2], laboratorio di ricerca in innovazione sociale attraverso il design dell’Università di Nîmes (Francia). In entrambi i casi i progetti di design sociale che si svolgono sia in un quadro pedagogico che di ricerca accademica promuovono la partecipazione dei cittadini e l’innovazione sociale. Tutti i progetti di design a cui faremo riferimento riguardano processi collaborativi per costruire politiche pubbliche più adatte ai beneficiari che ne usufruiscono[3]. La committenza di questi progetti è costituita in gran parte da istituzioni che si trovano nel sud della Francia, nelle regioni Occitania e PACA.

In alcuni di questi progetti fatti da designer, ricercatori e studenti in design dell’Università di Nîmes, lo scopo riguarda la messa in atto di processi collaborativi che coinvolgono direttamente i cittadini; in altri si tratta invece di favorire processi collaborativi tra i dirigenti e le persone che lavorano nelle istituzioni pubbliche e che progettano politiche pubbliche. In altri termini, l’attivazione di processi collaborativi influisce direttamente o indirettamente sui beneficiari e gli stakeholder potenziali di un progetto all’interno di una realtà locale. La fonte di ispirazione del design delle politiche pubbliche è La 27e Région, un esempio virtuoso che in Francia contribuisce all’evoluzione esponenziale di questo settore: la 27esima Regione è un laboratorio trasversale di trasformazione pubblica, costituito come associazione indipendente interregionale per costruire un futuro desiderabile delle azioni pubbliche[4]. 27esima Regione progetta i , le amministrazioni e le azioni pubbliche ed è diventata un interlocutore privilegiato delle istituzioni francesi. Il polo design dell’università di Nîmes collabora con l’équipe della 27esima Regione e gli studenti possono fare presso questa associazione lo stage di sei mesi previsto alla fine della laurea magistrale che si è concluso, in alcuni casi, con un’assunzione.

Tornando ai progetti pedagogici e ai progetti di ricerca dell’università di Nîmes, tra i committenti abituali ci sono le Regioni e i Comuni di PACA e dell’Occitania, la Provincia (Conseil Départemental du Gard), gli ospedali pubblici di Marsiglia e Nîmes, La Croce Rossa, la Caf[5] e il Crous[6].

Gli obiettivi più frequenti nei progetti collaborativi portati avanti con tutti gli stakeholder del settore delle politiche pubbliche per migliorare la qualità abitativa delle città anche attraverso i servizi pubblici sono stati, a seconda dei casi: co-progettare la metropolizzazione della città di Montpellier a misura dei cittadini attraverso una ricerca-azione e metodi di intelligenza collettiva tra ricercatori, designer, istituzioni e stakeholder, per il programma POPSU (Piattaforma di Osservazione di Progetti e Strategie Urbani) diretto dal PUCA (Piano Urbanismo Costruzione Architettura)[7]; rinforzare l’attrattività del servizio diurno di accoglienza per le persone dipendenti, allo stesso tempo valorizzando la necessità di riposo per i care-giver[8]; progettare in Lozère i servizi per un terzo luogo in un piccolo comune da ripopolare anche grazie a servizi attrattivi[9]; facilitare il “percorso utente” nella domanda del reddito di solidarietà (RSA in Francia) e nella re-inserzione professionale; facilitare l’informazione e l’accesso degli utenti agli aiuti per usi abitativi FSL (Fonds de Solidarité Logement) e migliorare il coordinamento dell’assistenza sociale[10]; riorganizzare la segnaletica e l’accesso alle informazioni alla Caf[11]; facilitare l’appropriazione dei cittadini dello spazio a disposizione nel nuovo edificio della Provincia, per favorire l’inclusione sociale in un quartiere sensibile, attraverso attività collettive volte a rinforzare i legami sociali (attività associative, ludiche, artistiche, orti condivisi)[12]; gestire i rischi legati alle alluvioni trasmettendo esperienze concrete e competenze locali, coordinando e formando gli abitanti di zone a rischio per affrontare l’emergenza insieme alle istituzioni[13]; co-progettare dei cohousing intergenerazionali; rivitalizzare gli ksour nel deserto tunisino di Tataouine al di là del turismo, coinvolgendo gli abitanti attraverso associazioni locali e designer per favorire attività legate all’artigianato, alla cultura, alla valorizzazione del patrimonio, alla formazione, all’imprenditoria femminile e giovanile[14].

I progetti nel settore dell’educazione sono stati incentrati su diversi obiettivi a seconda dei committenti: co-progettare gli alloggi “del futuro” per studenti universitari[15]; costruire un campus universitario sostenibile ed ecologico, adeguato alle necessità contemporanee ripensando i trasporti, la socializzazione, gli spazi per lo studio e l’aggregazione[16]; favorire l’accesso all’informazione di studenti con bassa scolarità per indirizzarli in percorsi di studi professionali adeguati ai loro interessi e alle loro competenze[17]; sviluppare strumenti per una pedagogia universitaria inclusiva e particolarmente adatta allo spettro autistico[18].

Nei settori di sanità e care gli obiettivi principali dei progetti sono stati: trasformare l’ospedale in un luogo ospitale per care-giver e pazienti facilitando l’accesso, l’informazione, la documentazione e le attività di condivisione[19]; favorire il benessere di medici e infermieri che lavorano al pronto soccorso[20]; riorganizzare i servizi delle terapie intensive permettendo un monitoraggio dei pazienti anche quando vengono trasferiti in altri reparti, migliorando le condizioni di salute del paziente e restituendo allo stesso tempo ai medici urgentisti il senso concreto del proprio lavoro[21]; migliorare la coordinazione tra medici di famiglia, specialisti e pazienti che soffrono di disturbi legati al sonno[22]; favorire la coordinazione di specialisti, medici di base e personale sanitario nella costruzione del percorso terapeutico individuale di pazienti che soffrono di lombalgia[23]; progettare la coordinazione dei servizi necessari per permettere a persone non autosufficienti di rimanere a domicilio con le strutture adeguate (monitoraggio, aiuti, dispositivi e oggetti per facilitare le azioni quotidiane)[24]; permettere ai malati di cancro di rimanere nelle loro abitazioni attraverso l’organizzazione di servizi e infrastrutture[25]; riunire studenti, anziani residenti in RSA, famiglie e operatori socio-sanitari grazie alle attività di un terzo luogo mobile[26].

Alcuni di questi progetti si sono svolti nei “Lab innovazione”, poli progettuali all’interno delle istituzioni stesse e sempre più frequenti (nelle regioni, negli ospedali, ecc.). In alcuni casi, e a seconda delle persone che li pilotano, questi laboratori di innovazione oscillano ancora tra la volontà reale di innovare insieme agli utenti e la volontà di legittimazione delle proprie politiche pubbliche attraverso la concertazione degli stakeholder che i metodi del design sociale permettono. In questo secondo caso è importante non strumentalizzare il design evitando che i progetti si trasformino, di fatto, in un aiuto incondizionato ai processi di accettazione graduali di decisioni che vengono dall’alto e non sempre tengono conto delle reali esigenze dei cittadini. In altri termini, è necessario distinguere tra “processi di appropriazione”[27] a misura degli utenti e processi che, certamente in modo provocatorio, possiamo chiamare “di addomesticamento”. Anche per queste ragioni e per la reale volontà di progettare con gli utenti, prima di accettare qualunque commissione i professionisti e i ricercatori dell’Università di Nîmes chiariscono questi aspetti e spiegano ai committenti che i progetti non sono strumenti per l’animazione di workshop con gli utenti – come in diversi casi viene invece interpretato e ridotto il design thinking – ma, dopo una fase immersiva e esplorativa, consistono in proposte progettuali da sperimentare con tutti gli stakeholder prima di realizzarle definitivamente.

Diverse istituzioni si rivolgono all’Università di Nîmes chiedendo brevi moduli di formazione in design: per noi è importante rifiutare tali proposte poiché ciò svaluta la categoria professionale ma soprattutto la qualità dei risultati che un “vero designer” (cfr. Voglaire 2020) può realizzare.

La committenza, per conoscenza o per fiducia, deve quindi essere disposta a mettere in discussione il progetto che avrebbe inizialmente voluto prima dell’intervento del designer il quale, analizzando pratiche e azioni, può rendersi conto di reali necessità e desideri degli utenti finali e del modo di coniugarli con le possibilità concrete del committente. Non ci si rivolge al design sociale per commissionare, ad esempio, il progetto di una sala d’attesa più confortevole, come è stato il caso dell’ospedale pubblico di Marsiglia[28]; ci si rivolge ai designer perché i familiari dei pazienti di un ospedale si spostano continuamente dagli spazi vuoti a loro dedicati cercando informazioni, contatti e intralciando anche il lavoro di medici e infermieri: nel caso specifico il progetto è stato orientato sul senso dell’ospitalità con particolare attenzione all’accesso all’informazione (sui malati, sui servizi e attraverso la segnaletica), al riposo fisico e emotivo (spazi con sedute che consentano isolamento), alla socializzazione (angoli dedicati a colloqui personali, al consumo di pasti riscaldati), alla possibilità di prendersi cura dei propri malati al di là degli atti medici funzionali alla terapia (fascicoli con consigli per attività senza rischi legati alle patologie realizzabili con il malato).

Nei progetti elencati per mostrare i campi di intervento dei metodi collaborativi dei designer dell’Università di Nîmes, i team di progetto sono composti, alternativamente o contemporaneamente, da studenti, docenti, dottorandi, professionisti e si avvalgono sempre di competenze interdisciplinari (design, semiotica, comunicazione, antropologia, etnografia, sociologia, geografia, management, ecc.). Il settore di intervento sul quale il polo del design dell’università di Nîmes è specializzato è quello del design sociale insieme al design per l’innovazione sociale a misura dell’utente, settore che vale la pena di definire per comprendere l’accezione in cui usiamo questi concetti e i metodi che ne derivano.

Il design sociale nei processi collaborativi

Brevemente, per design sociale si intendono in particolare due settori del design: il primo riguarda i progetti che mirano a risolvere questioni sociali su larga scala (povertà; accessibilità a cibo, acqua, abitazioni e salute; urgenze e i rischi naturali o conseguenti a azioni umane, come le alluvioni, i terremoti, gli incendi, ecc.)[29]. Nella seconda accezione per design sociale si intende un settore del design che utilizza metodi partecipativi, orientato a utenti specifici o collettività, definiti dalle politiche pubbliche. I metodi progettuali adottati privilegiano: la ricerca-progetto sul campo[30]; le residenze tra i beneficiari del progetto e gli stakeholder; processi progettuali partecipativi per trovare soluzioni condivise dagli utenti e dai beneficiari, diretti e indiretti, dei progetti. Il ruolo dei designer coinvolti in questi progetti interviene in svariati ambiti progettuali come i servizi, i prodotti (materiali o immateriali), gli spazi, la comunicazione. Per favorire il co-design e i progetti partecipativi i designer progettano anche strumenti che facilitano la tra tutte le persone coinvolte direttamente o meno in un progetto.

Si tratta in generale di progetti istituzionali o associativi orientati al “bene comune” che, come sostiene Manzini (2018) è importante poiché è al di fuori delle logiche del mercato, migliora il benessere individuale rinforzando allo stesso tempo anche il senso di comunità promuovendo in questo modo un circolo virtuoso. Per queste ragioni, i designer che operano nel settore del design sociale necessitano di competenze trasversali per operare in diversi campi: dopo un periodo di immersione etnografica, sarà compito del designer inquadrare gli aspetti da progettare o modificare (problem framing, problem finding, problem making); nella seconda fase, i workshop e il co-design con gli stakeholder permetterà di individuare le piste progettuali pertinenti per rispondere al problema, prendendo in considerazione le esigenze implicite e esplicite delle persone e delle istituzioni coinvolte. Dopo un confronto con i committenti per verificare le attese reciproche, una fase di prototipizzazione rapida e di test con gli stakeholder permetterà di calibrare al meglio i progetti finali che saranno il risultato di questo lungo processo.

La creatività nella cultura del progetto

Collaborando con i designer e accompagnando gli studenti di facoltà e scuole di design in numerosi progetti, ci sembra importante valorizzarne le competenze così come le specificità del loro lavoro, in particolare in un settore come quello del design delle politiche pubbliche. I metodi del design sociale applicati alle politiche pubbliche e ai processi collaborativi nelle città sono spesso il risultato della collaborazione tra professionisti e ricercatori provenienti da più discipline: dal design all’architettura, all’urbanismo, all’antropologia, alla sociologia, alla semiotica, alle scienze politiche, all’economia, ecc. È vero, si tratta in generale di intervenire in progetti in cui l’approccio interdisciplinare è necessario poiché riguardano dimensioni sociali e collettive, territori e comunità urbane costituiti da cittadini – o anche abitanti senza lo statuto giuridico dei cittadini (i migranti ad esempio). Ciò comporta la necessità reciproca di dialogare con gli altri professionisti che partecipano al progetto e con gli stakeholder e soprattutto la necessità di conoscere le competenze altrui per agire in modo complementare. Ci sono quindi due aspetti fondamentali da prendere in considerazione ancora prima di iniziare un progetto: comunicare le proprie competenze e il proprio lavoro in modo chiaro agli utenti e a persone che vengono da altri ambiti ma, ancora prima, individuare precisamente tali competenze così come la ragione d’essere del proprio contributo.

La formazione attuale dei designer deve quindi, a nostro avviso, prendere in considerazione queste necessità che derivano da un panorama progettuale più vasto e versatile di quello in cui operavano i designer del secolo scorso, ma allo stesso tempo meno identificabile agli occhi di utenti, committenti e collaboratori potenziali. In altri termini, quando un designer si trova a fare anche il mediatore culturale o il facilitatore, nella prima fase di un progetto lo fa, ad esempio, grazie a strumenti etnografici, antropologici e sociologici, ma i committenti e gli utenti di un progetto si attendono legittimamente un risultato concreto e non soltanto un’indagine diagnostica.

Come valorizzare allora l’apporto del design sia per riconoscere i professionisti di questo settore che, anche e soprattutto, per mantenere la qualità e l’ambizione dei risultati che gli stakeholder del progetto meritano per migliorare la qualità della loro vita individuale e collettiva?

Per dare un esempio specifico, capita che alla fine di un progetto della laurea magistrale Design Innovazione Società dell’Università di Nîmes i dirigenti della Provincia o della Regione (CD Gard, Occitanie, per esempio) siano molto soddisfatti del risultato affermando che anche loro “facevano design” senza saperlo. Ciò ha un aspetto positivo e uno negativo: l’aspetto positivo è che, tramite un percorso progettuale condiviso con gli stakeholder, si esplicita allo stesso tempo un saper-fare locale che per mancanza di consapevolezza, competenza specifica e giusta distanza dai propri processi di lavoro, non saprebbe forse farli emergere né riprodurli in circostanze analoghe attraverso strategie efficaci; l’aspetto negativo è che in alcuni casi la soluzione concreta dei designer (servizio, comunicazione, prodotto, spazio, ecc.) si è adeguata eccessivamente alle aspettative degli stakeholder attraverso il co-design, non garantendo in alcuni casi un prodotto riconoscibile (o un servizio) secondo gli standard di elevata qualità formale, funzionale e di piacevolezza dell’esperienza che un designer dovrebbe garantire. In altri termini, se il designer si limita a essere un connettore di competenze, un facilitatore o un’interfaccia tra gli stakeholder in grado di riassumere e negoziare valori e esigenze in gioco senza però trasporre una soluzione in un risultato concreto e di qualità (funzionali, estetiche, estesiche), ecco che il suo operato non è sufficiente né lo distingue da altre figure professionali che fanno già parte di diversi ambiti progettuali (dal management all’amministrazione).

È legittimo quindi chiedersi quali sono le specificità nei vari settori del design. Si tratta di una domanda forse provocatoria, apparentemente oziosa, ma a nostro avviso necessaria poiché indaga sulla ragione d’essere del design nella complessità della società contemporanea. C’è sempre progettazione quando c’è design, ma non è vero il contrario: non sempre quando si progetta si fa design. Ed è per questo che anche le istituzioni che formano i designer devono porsi questa domanda per costruire le competenze necessarie dei designer, competenze che derivano da: una cultura storico-umanistica e artistica che permetta di interrogare il mondo che ci circonda coltivando capacità di osservazione critica in una dimensione temporale diacronica; una cultura scientifica, tecnica e tecnologica che permetta di gestire autonomamente o riconoscere le competenze di cui si ha bisogno in un progetto (informatiche, architettoniche, chimiche, fisiche ecc.); un saper-fare che renda il designer il più possibile autonomo nella concretizzazione di un progetto o nella sintesi finale delle competenze tecniche esterne a cui deve ricorrere.

L’Italia è nota anche per le competenze tecniche di alto livello, competenze artigianali e artistiche che hanno contribuito all’affermarsi di una cultura in cui la qualità di ogni dettaglio è importante (anche estetica) e, a nostro avviso, deve continuare a essere valorizzata. Ma nel design che si occupa di innovazione sociale e della valorizzazione dei processi collaborativi dei cittadini, come si trasmettono tali competenze e in quali specificità si traducono nei progetti che in molti casi propongono servizi o esperienze? Il design storicamente non si caratterizzava, tra l’altro, anche per la riproducibilità dei suoi risultati, a differenza dell’artigianato e dell’arte (non seriale)?

Nel design sociale si tratta forse allora di un altro tipo di riproducibilità, una riproducibilità che non si realizza nei risultati, quanto nei metodi progettuali e negli strumenti. Ciò accade ancora di più nei progetti che riguardano l’innovazione sociale attraverso la partecipazione degli utenti poiché si tratta di interventi locali, specifici e legati spesso esclusivamente al contesto socio-culturale in cui si trovano. Sono in gran parte progetti collaborativi per i cittadini che vivono e abitano le nostre città (nel senso di polis), progetti complessi per la dimensione allo stesso tempo collettiva e locale.

Cerchiamo allora di riflettere ancora sulla specificità del design e sulle condizioni di emergenza di un progetto di design. Prima di tutto ricordiamo con Bruno Munari (1971 e 1981) che il design è frutto di un processo creativo e richiede un metodo, al contrario della “creazione” che riguarda più che altro i processi artistici. I metodi per progettare sono numerosi[31], e come indica Munari sono necessari all’emergere della creatività e utili poiché permettono di porsi alcune domande importanti nelle varie fasi del progetto, soprattutto fino a quando ciascuno non elabora i propri metodi attraverso una lunga esperienza personale. I metodi progettuali non sono da seguire come fossero “ricette”, si basano su esperienze pregresse e sui vincoli che un progetto specifico comporta, non garantiscono il risultato e per questo sono da riadattare a ogni progetto. È in questo modo che secondo Munari si sviluppa la creatività necessaria allo sviluppo di ogni progetto di design, che comporta un lungo processo in cui la consapevolezza (tramite il metodo) è alla base della creatività.

Abbiamo cercato altrove di definire le specificità della cultura del progetto nel design[32] per interrogarci sulle condizioni che permettono di “fare design” e distinguerlo da altre attività progettuali che potrebbero caratterizzare qualunque altra situazione (o professione)[33].

Riassumiamo quindi le specificità del design e gli elementi che ci fanno riconoscere il “design” al di là del settore, come l’industrial design, il design della comunicazione, il design dei servizi. Indichiamo di seguito le specificità caratterizzanti (1, 2, 3, 4, 5) poi i valori fondamentali del design (a, b, c):

1) Metodi progettuali;

2) Riproducibilità (dei processi, dei metodi e/o dei risultati);

3) Interdisciplinarietà;

4) Creatività;

5) Integrazione concreta dell’essere umano (aspetto recentemente incarnato dal design sociale).

I valori fondamentali della cultura del progetto secondo noi sono:

a- Etica;

b- Sostenibilità;

c- Qualità della vita (praticità, estetica, identità).

Sono sufficienti queste specificità e questi valori? Certamente no, ma a nostro avviso sono almeno una base da cui partire e, allo stesso tempo, a cui tendere come designer. In particolare nella società contemporanea in cui il designer deve rispondere a problemi complessi (sociali e culturali), l’iperspecializzazione non sempre permette di avere gli strumenti adeguati, come sostiene Paolo Deganello in Design Politico (2019).

Ma allora, come coniugare da una parte la domanda di iperspecializzazione attuale e dall’altra la gestione della complessità che necessita di competenze, metodi e strumenti diversi e versatili per progettare?

Per quanto riguarda i progetti orientati all’innovazione sociale, un altro aspetto importante ha a che fare con la necessità di una prospettiva progettuale lungimirante per risultati (sostenibili, ecologici, ecc.) che si mantengano nel lungo termine. Manzini (2018) sostiene infatti che il design debba favorire l’innovazione e non soltanto quella che definisce come incrementale quanto piuttosto l’innovazione radicale: l’innovazione incrementale riguarda piccoli cambiamenti individuali che contribuiscono in minima parte, ad esempio, alla sostenibilità, ma rischiano di rimanere inerziali poiché non arrivano nella maggior parte dei casi a modificare sostanzialmente lo stile di vita come invece sarebbe necessario per un’innovazione radicale. Ad esempio un’automobile elettrica – per altro controversa per quanto riguarda lo smaltimento della batteria – pur inquinando meno, teoricamente, non modifica abitudini e stile di vita (innovazione incrementale) mentre la sua sostituzione con la bicicletta per uno spostamento analogo modifica lo stile di vita dell’utente in modo radicale e ha la possibilità di un impatto più importante soprattutto quando si sposta dalla scala individuale alla scala collettiva.

Conclusioni

Qual è allora la specificità del design, di tutti i modi di fare design, in particolare design a misura dell’utente?[34] In quali condizioni e quando “emerge” un progetto di design?[35] Qual è l’originalità e l’unicità di un progetto di design, la sua “ragione d’essere”[36] tra gli innumerevoli progetti che si svolgono in ogni situazione (dal management alle politiche pubbliche)? Attraverso quali criteri si può valorizzare la specificità del design, oltre a quelli indicati come caratteristici della cultura del progetto?

Questo nostro intervento è un’esortazione a una riflessione che permetta di allenarsi a porsi le “buone domande”, a cominciare dall’introspezione sulle proprie competenze di designer, in particolare quando la risposta può migliorare la valorizzazione della partecipazione sociale affinché i territori in cui viviamo evolvano su principi etici condivisi, desideri, bisogni e convivenza di coloro che li abitano.

Per questo è sempre fondamentale pensare il progetto di design come un atto antropologico, poiché attraverso le scelte che si compiono in un progetto si costruiscono l’utente, le sue azioni, le sue pratiche (individuali, sociali, ecc.) e le conseguenze che queste avranno su tutti i viventi[37] dell’ecosistema.

Bibliografia

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Note

  1. https://dis.unimes.fr

  2. https://projekt.unimes.fr

  3. Sul design delle politiche pubbliche e sul ruolo dell’utente nel design, cfr. E. Bornand, J. Foucher 2019; M. Djemel, M. Ye, R. Bousbaci, G. Lizzaralde 2019.

  4. https://www.la27eregion.fr

  5. La “Caisse d’allocations familiales”, la cassa per assegni e prestazioni familiari: https://www.caf.fr

  6. È il “Centre régional des œuvres universitaires et scolaires”, il centro regionale che fornisce borse di studio per studenti, residenze e mense universitarie, attività culturali per studenti, accoglienza di studenti stranieri: https://www.crous-paris.fr

  7. https://popsu.archi.fr/

  8. https://dis.unimes.fr/accueil/

  9. https://dis.unimes.fr/rando/

  10. https://dis.unimes.fr/aides-sociales/

  11. https://dis.unimes.fr/accueil-caf/

  12. https://dis.unimes.fr/espace/

  13. https://dis.unimes.fr/risques/

  14. https://www.youtube.com/watch?v=QDGDtUSt3fc&t=39s

  15. https://dis.unimes.fr/canevas/

  16. https://dis.unimes.fr/Campus/

  17. https://dis.unimes.fr/ijobber/

  18. https://aspie-friendly.fr

  19. http://etrangeordinaire.fr/nos-projets/hopital-famillier/

  20. https://dis.unimes.fr/soutien-a-la-bientraitance/

  21. Progetto ancora in corso.

  22. https://projetsomhealth.wordpress.com/

  23. https://dis.unimes.fr/Pal/

  24. http://ressource-autonomie.fr/

  25. https://canceradom.fr/

  26. http://www.collectifetc.com/realisation/paquita-tiers-lieu-mobile/

  27. Cfr. P. Basso Fossali e O. Le Guern (eds) 2018, cfr. anche M. Deni 2018.

  28. Una parte del risultato basato sullo studio dell’ospitalità al CHU di Marsiglia, ospedale cittadino, si può vedere qui: http://etrangeordinaire.fr/nos-projets/hopital-famillier/. Esempi analoghi si trovano anche nel progetto CALME (Comme À La Maison, colme a casa) dedicato alle RSA: https://projetcalme.fr. Diversi designer nel settore del design sociale lavorano in questo ambito, si vedano i progetti realizzati dalla Fabrique de l’hospitalité, il laboratorio di innovazione degli ospedali universitari di Strasburgo (https://www.lafabriquedelhospitalite.org) e si vedano anche i progetti di Le lab-ah, il laboratorio di innovazione culturale attraverso il design del Gruppo Ospedaliero universitario psichiatria & neuroscienze (GHU) di Parigi, una polo che progetta sperimentazioni per l’accoglienza e l’ospitalità degli utenti dell’ospedale come i pazienti, le famiglie, i medici e gli infermieri (https://www.ghu-paris.fr/fr/le-lab-ah).

  29. Cfr. E. Manzini 2015, 2018, 2021.

  30. Cfr. A. Findeli 2010.

  31. Cfr. B. Munari 1971 e 1981; A. Semprini 2005; M. Deni 2008; M. Deni e G. Proni (eds.) 2008; C. Bianchi, F. Montanari, S. Zingale, (eds) 2010.

  32. I contributi che ci hanno ispirato per definire la cultura del progetto sono: T. Maldonado 1970; V. Papanek; B. Munari 1971 e 1981; E. Manzini 2015, 2018, 2021; P. Deganello 2021.

  33. Cfr. M. Deni 2020.

  34. Cfr. M. Deni e M.-J. Catoir-Brisson (eds) 2019.

  35. Cfr. M. Deni e D. Mangano (eds) 2020.

  36. Cfr. A. Semprini 2005.

  37. Cfr. A. Zinna 2020.