Antonio Martone | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani
L’obiettivo del contributo è evidenziare l’attualità del concetto di “Diritto alla città” del sociologo e filosofo francese Henri Lefebvre per leggere alcune dinamiche che caratterizzano oggi i centri urbani. Nella prima parte del saggio[1] si fa riferimento alla genesi del concetto, mentre la seconda parte si concentra sul recupero del lessico lefebvriano alle soglie del terzo millennio. L’ultima parte del lavoro prova a offrire un’analisi lefebvriana della città nella pandemia.
La tesi esposta in questo scritto è che un autentico Conflitto politico al tempo della Globalizzazione, nonostante forti e crescenti Disuguaglianze, sia soffocato sul nascere da dispositivi di sistema assai potenti. Il conflitto esiste, ma vede come protagonista attiva soltanto la classe dominante. La tendenza contemporanea volge verso la produzione di scarti, di periferie sostanzialmente passive collocate perfino all’interno delle città.
Il conflitto contemporaneo fa registrare uno sfondamento della linea del fronte che significa crescita smisurata delle disuguaglianze di reddito e di capitali. È la vittoria del tecno-capitalismo: un mondo diseguale che compromette, necessariamente, anche la libertà. L’individualizzazione dei rapporti di lavoro, le nuove tecnologie digitali e la fine della fabbrica fordista hanno dissolto la relazione tradizionale tra potere capitalistico e forze antagonistiche. Le vecchie contrapposizioni dialettiche non proiettano luce sui fatti nuovi del mondo diseguale.
Occorre ripristinare la dimensione della lotta bilaterale: il nuovo fronte dovrebbe essere costituito da un conflitto scatenato dai ceti dominati (il demos) per la riappropriazione di un senso più pieno e autentico della democrazia.
Disuguaglianze
In che cosa consiste, concretamente, la disuguaglianza del nostro tempo? Per dirla molto in generale, essa è fondamentalmente costruita sull’aumento ipertrofico di pochi redditi e sulla contrazione – che può raggiungere livelli di mera sussistenza – della gran parte degli altri. Per esempio, grandi capitani d’industria, quadri dirigenti e speculatori finanziari, campioni dello sport e dive/divi dello show-business vantano compensi incommensurabilmente diversi da quelli dell’enorme maggioranza delle persone.
L’uguaglianza senza libertà, già Tocqueville[1] lo sapeva bene, è soltanto comune facoltà di servire un despota; libertà senza uguaglianza, inesorabilmente, è libertà di pochi a detrimento dei molti. Su questo punto, come non ricordare il Rousseau che, ben prima delle grandi rivoluzioni sette-ottocentesche, già ricordava che:
Ho già detto che cos’è la libertà civile; riguardo all’uguaglianza, non bisogna intendere la parola come se significasse che i gradi di potere e di ricchezza devono essere esattamente gli stessi, ma, quanto al potere, nel senso che esso non deve giungere a nessuna violenza e deve sempre esercitarsi sulla sola base del grado e delle leggi; quanto alla ricchezza, che nessun cittadino deve essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi.[2]
È facile vedere come la differenza di reddito produca concentrazioni formidabili di patrimoni. Per rimanere soltanto in ambito euro-americano, Rosanvallon scrive:
Questi crescenti scarti di reddito sono stati accompagnati da un’accresciuta concentrazione dei patrimoni. Così, negli Stati Uniti, il 20% degli individui possiede il 93% di tutti gli averi finanziari (escludendo il patrimonio immobiliare, il cui valore d’altra parte si è contratto). Nel caso francese, l’1% dei più ricchi possiede il 24% della ricchezza del Paese, e il 10% dei più ricchi il 62%, mentre il 50% dei meno agiati ne possiede solo il 6%.[3]
È un gioco concatenato: la disuguaglianza di reddito individuale provoca disuguaglianze patrimoniali, e queste agiscono a livello globale, creando enormi differenze fra continenti, Stati, regioni e all’interno degli Stati stessi:
Quello che qui si vuole sottolineare e che la crescente disuguaglianza fra le persone ha rilevanti conseguenze sulle disuguaglianze fra città e regioni, dato che, come si e già più volte ricordato, la distribuzione territoriale degli individui per classe sociale e reddito non è affatto omogenea.[4]
L’umanità viaggia a vele spiegate verso l’urbanizzazione. Nel 2008, gli abitanti delle città di tutto il mondo avevano raggiunto circa la metà della popolazione mondiale. L’insieme dei comportamenti, delle attitudini lavorative e, più in generale, delle forme di organizzazione della vita di coloro che risiedono in città risulta ormai predominante. Ciò potrebbe far pensare che gli squilibri si concentrino all’interno della relazione fra città e ambienti rurali. Non è così. Neppure si può affermare come vera una vecchia contrapposizione oggi assai sfumata, ossia quella fra centro e periferia[5]. Le disuguaglianze sono presenti dappertutto: fra città e campagne ma anche all’interno delle stesse città:
E da questo punto di vista è da dirsi che le differenze all’interno della città sono importanti quanto quelle che esistono tra la città e i sobborghi e tra i sobborghi e le aree intorno alla città. Quindi, ci sono tante differenziazioni all’interno del processo di urbanizzazione e la differenza tra zone dove le persone hanno un alto reddito e i quartieri degradati e poveri è altrettanto drammatica, in realtà in vari modi più drammatica, di quella che c’è tra la città e le zone fuori città.[6]
Certo, sul piano geopolitico esistono pur sempre paesi forti e paesi deboli, ma credo sia molto più difficile oggi supporre che esista un “impero” con al centro una forte capitale e zone sempre meno ricche e influenti man mano che ci si allontana dal centro. Sembra a me, invece, che il centro oggi sia un luogo più simbolico che reale. Il centro significa il successo individuale, ossia il conseguimento dell’obiettivo massimo del nostro tempo. La terra promessa. La salvezza che protegge dal rischio di cadere nel nulla[7]. Insomma, il centro significa essere pervenuti nel cuore della città dei vincenti. Non corrisponde – se non in parte – a un luogo preciso, poiché essa coincide piuttosto con un mito fantomatico, promesso a tutti; di un centro, però, a cui non si arriva mai.
La linea del fronte: ECity e NoCity
È chiaro che è in atto un conflitto. Non si tratta però di una lotta politica democratica, bensì di uno scontro combattuto in maniera unilaterale dalle classi dominanti contro le classi dominate. Di ciò, tuttavia, pochi sono avvertiti – anzi, proprio l’inconsapevolezza dei tanti ha reso il potere dei pochi capace di vincere: «C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe dei ricchi che sta facendo questa guerra, e la stiamo vincendo», dichiara Warren Buffet (il secondo o terzo uomo più ricco del mondo)[8].
All’orizzonte del mondo contemporaneo, pertanto, si va sempre più e sempre meglio delineando una “linea del fronte” ideale ma anche concretissima. Da una parte, il pieno riconoscimento di coloro che abitano lo spazio iperconnesso del mercato globale e il ritmo veloce del tempo presente. L’hic et nunc, il ripudio della memoria e dell’attesa è divenuto il sovrano legittimo della nostra epoca. Dall’altra, l’esclusione di un numero crescente di individui inadatti e non allineati. Se distogliamo lo sguardo in modo da non vedere i loosers spazzati fuori dalla competizione feroce che regna nel capitalismo post-industriale, la NoCity del degrado e della paura, i rischi ambientali che divengono ogni giorni più concreti, pezzi di territorio di paesi africani o mediorientali degradati oltre ogni limite, sarà il negativo stesso di questo mondo a venirci a cercare sotto le mura di casa nostra. È in atto un conflitto spietato e certamente non ne usciremo facendo finta di niente.
La tendenza alla privatizzazione o comunque al controllo degli spazi urbani[9] va nella direzione della cancellazione automatica e preventiva non soltanto della dissidenza ma anche di quelle forme eterogenee di vita che non si conformano al sistema e che anzi, con la loro semplice presenza, del sistema stesso costituiscono un’obiezione vivente. Gli spazi pubblici vengono sottratti all’incontro intersoggettivo, nel tentativo di sovrapporre a essi il monocolore grigio della ECity globale nel quale vige l’unica norma globalista e neoliberista. Ciò che rifiuta di entrare nella ECity[10] viene spinto in una negatività scomoda e quasi inabitabile, laddove diviene assai difficile, se non impossibile, organizzare una resistenza efficace[11], soprattutto perché il sistema è abilissimo nel dividere gli esclusi. La frammentazione del mondo contemporaneo, in fondo, è anche questo: devastanti guerre fra poveri vengono alimentate incessantemente: donne contro uomini, classi subordinate di un paese contro quelle di un altro, settori di lavoratori contro altri settori. Non è l’unico, ma la capacità divisiva è certamente uno dei dispositivi più efficaci elaborati dal sistema capitalistico contemporaneo.
Atrofia del conflitto democratico
Se dunque la questione della disuguaglianza è già di fatto un problema sociale significativo, come mai non è dato riscontrare una forte mobilitazione contro di essa che sia all’altezza del problema stesso? Io credo che, oltre alle ragioni già abbozzate, per comprendere tale acquiescenza, occorra almeno delineare un’analisi di sistema. La mentalità tecno-capitalista nella quale viviamo dispone di tutta una serie di dispositivi capaci di bloccare sul nascere qualsiasi “rivolta” ideale che possa tradursi in lotta democratica.
Intanto, vi sono ragioni storiche precise. La prima è data dal fatto che le disuguaglianze locali sono provocate spesso da ragioni globali. E, infatti, è chiaro che, anche volendo, sotto la spinta delle rivendicazioni popolari, la classe politica trova parecchie difficoltà a incidere su problemi che la scavalcano in senso globalista ed è costretta perciò a lasciare inevasi i problemi reali, distraendo gli elettori attraverso l’invenzione di questioni fittizie rapidamente ingigantite dai media.
Più in generale, la questione del conflitto – nel tempo in cui la politica viene esercitata in modalità economica – non può essere compresa se non affiancando alla ricerca filosofica in senso stretto un’analisi della specifica antropologia del mondo post-industriale. Anche in seguito a un’analisi sommaria, quest’ultima appare nella sua essenza caratterizzata da soggettività fragili, sradicate dai territori, isolate, irrelate, atomizzate, alle prese ogni giorno con una lotta per la vita indotta da una visione del mondo secondo cui la libertà va costruita in maniera individuale. È ovvio che una società sempre più complessa e frammentata, esposta peraltro a una mobilità liquida, si presti poco all’identificazione precisa delle classi privilegiate. È altrettanto ovvio che il sistema di produzione industriale, avendo lasciato il posto all’economia finanziaria globale, non può più contare sulle “barricate naturali” delle fabbriche per fare di queste ultime il “punto archimedico” su cui far leva per opporsi al sistema.
Un altro grande elemento che impedisce una lotta socio-politica adeguata è legato alla modalità contemporanea della comunicazione. Le trasformazioni generate dal mondo del lavoro, infatti, significano innovazione tecnica (come ignorare l’importanza decisiva del Digitale?) e quest’ultima, a sua volta, sembra in grado produrre una vera e propria rivoluzione. La socialità come esperienza è stata trasformata in “socialità social”. La pratica della connessione illimitata viene applicata e diffusa grazie a miriadi di app che consentono un consumo rapido e quasi istantaneo di “esperienze” che si disperdono con la medesima velocità con cui sono state accese. Gli approcci comunicazionali dominanti, pertanto, sono di tipo meramente emotivistico: esprimono un mondo estremamente individualizzato che non prevede intese che non siano contingenti. Nel mondo digitale, le rivendicazioni, le proteste, gli scambi – nella gran parte dei casi – finiscono per diventare soltanto uno sciame di reazioni incontrollate – certamente non coordinabili in un’azione politica efficace.
Fioccano raggruppamenti tendenzialmente emofiliaci nei quali il conflitto si esprime attraverso slogan viscerali atti a stimolare “i due minuti d’odio” quotidiano. Il “veleno social”, frutto di disagio sociale – ciò che con molta fatica l’ostentazione del consumismo riesce a celare –, disarticola il conflitto politico, tendendo a innalzare una coltre insuperabile di rumore non oltrepassabile dagli strumenti tradizionali della dialettica.
La logica dell’antagonismo e del conflitto presuppone, invece, la visione dell’intero. Il conflitto democratico non può attivarsi laddove i sistemi complessi siano frammentati in tanti microsistemi nei quali le autonarrazioni sono semplificate, prive di memoria e omologate a uno spazio pubblico digitale predeterminato da format algoritmici che tendono a passivizzare, creando una visione del mondo nella quale sembra non ci siano, né possano esservi, vere e proprie alternative politiche.
Accade così, pertanto, che la gran parte degli uomini sono tenuti sulla linea del fronte in una condizione di continua ricattabilità. Nella gran parte dei casi si tratta di persone oneste, ma forse troppo disponibili alla “servitù volontaria”, confitte in un sistema marcio. Se vogliono sopravvivere non hanno altra scelta se non quella di vendere la propria anima (anestetizzata dai media, dai social e dal bisogno) al prezzo che il sistema decide di pagare per tenerli in una condizione di elemento funzionante e funzionale. In fondo, per riprendere la formula famosa di un certo Eichmann, stanno soltanto “eseguendo ordini”. Più o meno consapevolmente, stanno obbedendo al sistema. E del resto, che cosa potrebbero fare da soli – ammesso che ne abbiano voglia, forza e coscienza – contro un apparato titanico che può in qualsiasi momento inviare nella “Siberia dei nostri tempi”, ossia fra gli scarti emarginati dei loosers? Non è più facile inscriversi a ciò che appare vincente, ossia “il partito di Wall Street”, con le sue leggi “meritocratiche” che premiano i migliori e che mai penserebbero di aver prodotto una vera e propria barbarie antropologica, politica ed economica?
Non inganni la presenza di partiti e raggruppamenti fortemente identitari, nazionalisti o populisti. In realtà, questi movimenti non rappresentano una vera via d’uscita dal sistema della frammentazione generalizzata e dell’individualismo di massa, poiché di esso costituiscono semmai il rovescio della medaglia. Il capitalismo è riuscito in una mossa geniale, ossia quella capace di imporre negoziazioni non più sulla base delle contrapposizioni che facevano parte del mondo industriale – borghesi contro proletari –, bensì sulla base di negoziazioni individualizzate che sembrano aver maggiore appeal perché “meritocratiche”. La sinistra è entrata fortemente in questo gioco a perdere (dal punto di vista dei ceti depressi) e le controspinte finora si sono limitate a favorire il reinsediamento in comunità fantasmatiche – “comunità” di destra, pensate e gestite in maniera ideologica da leader politici parecchio demagogici e spesso anche piuttosto disinvolti sui temi della Sicurezza e del respingimento degli stranieri “che vengono a delinquere o a rubarci il lavoro”. La strategia è antica e consolidata: si inventa un nemico, gli si attribuisce le caratteristiche di capro espiatorio e ciò consente di legare insieme cittadini soli affetti da problemi identitari, individuali e collettivi, oltre che da disagi economici di cui non si vede alcuna soluzione.
Come mai è accaduto tutto questo? Come mai cioè i partiti di sinistra non riescono più – e forse neppure desiderano – a corrispondere alle richieste di giustizia dei ceti meno abbienti? Come mai tale incapacità, innescando un circolo vizioso di cui non si intravede la fine, alimenta a sua volta il passaggio di pezzetti importanti della base elettorale tradizionalmente di sinistra alle destre populiste? Come è possibile che gli interessi dei ceti sociali penalizzati siano diventati di colpo insignificanti e indegni di essere rappresentati socialmente? Per quale motivo si è verificata una tale marginalizzazione dei ceti popolari da rendere improponibile una loro candidatura ad assurgere al ruolo di antagonisti politici del mercato, dei suoi sacerdoti e dei suoi chierichetti? Infine, e soprattutto, qual è la ragione per cui il numero dei tanti non riesce più a contrastare, come invece era avvenuto in tutto il percorso della modernità, la ricchezza dei pochi?
Se non riusciremo a pensare di nuovo il campo sociale come sede dell’antagonismo politico fra interessi diversi, ben difficilmente recupereremo un senso adeguato alla democrazia.
Lotta politica o macchina/merce capitalistica
Di contro, la lotta per l’integrazione, la riduzione delle disuguaglianze, il rispetto dell’ambiente e delle autonomie regionali e individuali, dovrebbe essere la base fondamentale del conflitto politico: va sottolineato che “l’ultima trincea” delle istituzioni libere si trova proprio nelle periferie – reali o simboliche che siano. Al centro della vita democratica, occorrerebbe porre l’idea inderogabile del “comune”, considerando quest’ultimo non come un particolare tipo di merce, risorsa o processo, ma come relazione instabile e dinamica tra gruppi sociali in ibridazione formativa e in interazione con l’ambiente fisico ed ecologico.
Il futuro delle città, invece, sembra andare sempre più nella direzione della ECity, ossia città/nodi urbani sempre più ampi e tecnologizzati. Una città simile si caratterizza per la perdita o la forte erosione delle relazioni stabili dei cittadini con la geografia fisica e culturale locale, al posto delle quali subentrerà un urbanismo astratto, costruito secondo linee globali e che obbedisce alle esigenze del consumo e del mercato imposte dal capitale transnazionale. Un esempio, in questo senso, è rappresentato dalla cosiddetta “Gentrificazione”, ossia la trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente aumento dei prezzi – ciò che comporta la trasformazione della composizione sociale del quartiere stesso:
La gentrification non è il solo risultato di forze di mercato, della svolta graduale compiuta dai cicli d’investimento del capitale che hanno portato a rendere nuovamente interessanti i centri delle città. Si tratta di una violenta rivoluzione supportata, e talvolta persino condotta, dallo stato, che allontana le persone dalle proprie case, obbliga i commercianti a chiudere i propri negozi e «ripulisce» il centro a favore di marchi culturali, globali ed egemonici.[12]
In tali contesti, non possono che emergere aree urbane specializzate, ricalcate su modelli patinati se non “plastificati”, dove la sorveglianza e la creazione di spazi sempre meno promiscui e socialmente differenziati si lega strettamente all’ossessione della sicurezza e alla restrizione della pratica politica della dissidenza.
Lo scenario della futura ECity si può forse già intravedere in quelle grandi infrastrutture impersonali davanti alle quali l’individuo singolo diviene un nulla o, se è considerato, lo è soltanto nella sua capacità di consumatore potenziale. Già ora, le città contemporanee sembrano desiderose soltanto di appropriarsi della percezione umana al fine di instillare desiderio di merci e di servizi da implementare costantemente ma rapidamente obsolescenti. Le città/nodi urbani divengono sempre più il palcoscenico di un “conflitto semiotico”, che prende il posto del conflitto politico. Su tale palcoscenico, la toponomastica turistica convive con quella artistica e gastronomica. Nel medesimo spazio, la pubblicità e l’architettura commerciale sgomitano con tutto il resto al fine di catturare almeno un istante del nostro sguardo. È davvero molto difficile allontanare questo potente rumore di fondo che caratterizza le città contemporanee e farei fatica a ricordare i luoghi dove tale allontanamento sia davvero possibile.
Piuttosto che accettare la semplificazione di cui il mondo patinato è espressione, sarebbe necessario, invece, fare i conti con la complessità – superare la fase storica dell’emotivismo da social e ridare spazio all’elemento fondamentale dell’esperienza dialogica. Soltanto quest’ultimo, infatti, grazie alla distanza da se stesso e alla capacità di afferrare anche le ragioni dell’altro, facendole proprie e superandole in una visione comune (del comune[13]) può buttarsi alle spalle la politica spettacolo, i ring delle tribune televisive trash, i talk-show infarciti di pubblicità e i tanti format che affermano di voler essere rivoltosi ma che costituiscono il propellente principale del sistema.
Senza lungimiranza, come già ammoniva M. Weber[14], la politica non ha alcuna dignità. Senza una classe politica lungimirante, non è possibile immaginare le linee di una città futura, né un modo alternativo di organizzare la produzione, la distribuzione e il consumo. Un progetto politico camuffato da tecnica economica tendente all’impoverimento privato e alla concentrazione abnorme di grandi patrimoni multinazionali, tutto a beneficio dell’1% della popolazione, non rappresenta alcun futuro e condanna le generazioni che verranno, oltre che le sorti del pianeta e delle sue città.
Il gioco politico contemporaneo è finto, posticcio, plastificato e sterilizzato. Esso è stato veicolato in uno spazio apolitico quasi totalmente assoggettato al dominio ideologico dei media e al gioco emotivistico dei social. Un vero conflitto, invece, non può che riguardare visi che protestano e chiedono giustizia. Soltanto corpi che si muovono liberamente possono esser capaci di “rappresentare” istanze rivendicative di tipo democratico[15]. In questo modo, io credo, potranno costruirsi occasioni di scambio, di mobilità sociale e di autentica democrazia in uno spazio pubblico che, quand’anche ammesso come esistente, appare oggi frantumato da un conflitto inutile.
Sarebbe sommamente necessaria una svolta capace di ridimensionare il ruolo dell’economia, riportandolo all’interno di una sfera politica che avrebbe tanto da fare: erodere gli spazi periferici del degrado, sostituendovi un’integrazione a tutti i livelli di pratiche differenti, di conflitti di opinioni, di comunicazione libera, del tutto diversa dalle chiusure dogmatiche tipiche degli opposti fanatismi.
Alla sacralità dello sviluppo economico dei pochi, e alla marginalizzazione dei molti, occorrerebbe rispondere con la cura dei territori, la tutela dei mari, il consumo di prodotti agricoli locali, una forte riduzione dell’uso di carburanti fossili, il sostegno delle iniziative locali non più schiacciate dai legacci della burocrazia e dall’invadenza dei monopolisti multinazionali globali e dai loro politici di riferimento.
Insomma, occorrerebbe una nuova mentalità circa l’abitare la terra e le sue città. Occorrerebbe uno sguardo inedito sulla sacertà delle montagne, dell’acqua e delle risorse naturali:
Se il rapporto sociale con l’acqua – e con il cibo – è rispettato e protetto nelle sue forme consolidate nel tempo, il diritto all’acqua assume un’importante valenza simbolica per il gruppo come tale e non semplicemente per i suoi singoli membri. Grande rilievo può assumere il rapporto fra i corsi d’acqua e la qualità dell’ambiente e, più in generale, fra l’umidità del terreno e i tipi di colture, di abbigliamento e di costumi alimentari, per non parlare dei miti identitari collegati ai grandi fiumi: il Rio de la Plata, il Rio delle Amazzoni, il Mississippi, il Gange, il Tigri, l’Eufrate, il Giordano, il Nilo.[16]
L’uomo moderno intende dominare la natura per farne magari proprietà privata. Alla fine della modernità, forse è arrivato il momento di comprendere che l’uomo stesso non è altro che natura – umana, certo, ma pur sempre natura. Ciò che va capito fino in fondo è che vi è qualcosa a questo mondo che non può essere venduto, né tantomeno comprato – realtà cioè che non possono appartenere a nessuno ma soltanto alla natura, e agli uomini in quanto enti naturali.
Note
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Su questi temi, mi permetto di rinviare al mio Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni, Mimesis, Milano-Udine 2011. ↑
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J. J. Rousseau, Il contratto sociale, Laterza, Roma-Bari 2010, ebook. ↑
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P. Rosanvallon, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2014, ebook. ↑
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G. Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, Roma – Bari 2021, ebook. ↑
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«Periferia oggi nelle città europee è una condizione mobile, un’etichetta per paesaggi plurali, eterogenei. La
conquista del centro, il “quarto stato” in marcia verso i quartieri borghesi lasciamoli agli incubi di chi crede ancora al mito di un Centro antico e ricco contrapposto a una Periferia recente e abbandonata a se stessa. A chi pensa che la storia corrisponda perfettamente alla geografia», S. Boeri, L’Anticittà, Laterza, Roma – Bari 2011, ebook. ↑
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D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, ombre corte, Verona 2016, ebook. ↑
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Ho sviluppato questo punto nel saggio Verso il centro. La città globale, in «La società degli individui», 66, 3/2019, pp. 44-51. ↑
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Citato in David Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011, p. 261. ↑
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«Quella città che un tempo era un organismo vivente costitutivamente aperto e poroso. Quella città dove confluivano persone, dove si compartecipava alla messa in comune dei modi di vita, dove si annodavano relazioni e scambi. Quella città che aveva costruito miti e simboli, che aveva ritualizzato il dolore e il conflitto. Quella città operosa che produceva, trasformava e generava vita in un rapporto coevolutivo con il territorio circostante. Quell’idea di città decade», G. Attili, Le macerie dell’ipersfruttamento turistico, in E. Scandurra, I. Agostini, G. Attili, La biosfera. L’ambiente che abitiamo, DeriveApprodi, Roma 2020, ebook. ↑
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Ho sviluppato genealogicamente e fenomenologicamente il senso di questa contrapposizione categoriale in ECity. Antropologia della tecnica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018 e in NoCity. Paura e democrazia nell’età globale, Castelvecchi, Roma 2021. ↑
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Un esempio, delle possibili “resistenze”, inevitabilmente contingenti e non di sistema, si trovano in P. Saitta, Resistenze, pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, ombre corte, Verona 2015; cfr. in particolare pp. 90 e sgg. ↑
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S. Zukin, Introduzione a G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna 2015, ebook. ↑
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«In prospettiva giuridica, far rinascere i beni comuni significa anzitutto respingere l’equazione fra Stato e diritto, e ancor più quella fra diritto e repressione del conflitto, dall’altro respingere pure le barriere artificiali che separano il diritto dalla politica e dall’etica, trasformandolo in una tecnologia nota soltanto ai professionisti e inaccessibile
alle persone comuni», U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma – Bari 2011, ebook. ↑
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«Da ciò deriva la necessità – e questa è la qualità psicologica fondamentale dell’uomo politico – della lungimiranza, vale a dire della capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: dunque, la distanza tra le cose e gli uomini», M. Weber, La scienza come professione – La politica come professione, Einaudi, Torino 2004, ebook. ↑
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«Essa ci mostra che il potere collettivo dei corpi nello spazio pubblico è ancora lo strumento più efficace di opposizione, quando tutti gli altri mezzi sono bloccati. Ciò che piazza Tahrir ha mostrato al mondo è stata una verità evidente: che sono i corpi sulle strade e nelle piazze, non la babele di sentimenti su Twitter o Facebook, a contare davvero.» D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013, ebook. ↑
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D. Zolo, Tramonto globale. La fame, il patibolo, la guerra, Firenze University Press 2015, ebook. ↑
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