Pierpaolo Ascari | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani
INDICE:
Recentemente ho fatto qualche importante scoperta sul conto dell’Incredibile Hulk. Sapevo che a trasformare Bruce Banner in un umanoide capace di sbriciolare le montagne era stata l’esposizione a un fascio accidentale di raggi gamma, tanto che avrei presto affidato alla sua disavventura il compito di ristabilire periodicamente in quale ordine si fossero realmente avvicendate alcune circostanze notevoli del dopoguerra. Poco prima erano apparsi i Fantastici Quattro con le loro mutazioni dovute ai raggi cosmici, vale a dire la corsa allo spazio e Jurij Gagarin; quello dopo doveva essere l’anno di Hulk, della Crisi cubana dei missili e del mondo spaventosamente in disequilibrio sul baratro dell’apocalisse termonucleare. Più tardi i Fantastici Quattro avrebbero finalmente raggiunto la Luna in trionfale anticipo rispetto al loro diretto concorrente, lo scienziato russo Ivan Kragoff, che nella gloria della povera cagnetta Laika si sarebbe presentato all’appuntamento con Mister Fantastic in compagnia di tre scimmioni. L’album dell’allunaggio e della vittoria riportata dalla Marvel Comics nello scontro supereroico con la bestiale agenzia aerospaziale dei comunisti si intitolava coerentemente The Red Ghost!, un fantasma che ormai osservava la provincia della vecchia Europa da una malinconica e decoloniale distanza di 384.000 chilometri. Del resto, un’altra caratteristica che non mi era sfuggita di Hulk era come sin dall’inizio i suoi avversari fossero dei tipi molto stravaganti e immaginari che per qualche sensato motivo, però, davano spesso l’impressione di poter appartenere a una medesima divisione di «sovietici mascherati» (Capitanio 2010).
Ciò nonostante, la prima serie del fumetto non ebbe fortuna e terminò dopo soli cinque numeri, ma quando riprese a uscire all’interno della testata antologica The Tales to Astonish, a partire dall’ottobre 1964, i sovietici sarebbero stati sul punto di gettare qualunque maschera. Tra poco il più temibile nemico di Hulk si doveva chiamare Abominio ed era l’esito della solita esposizione ai raggi gamma della spia russo-croata Emil Blonsky, il quale una volta scoperta la tecnologia messa a punto da Bruce Banner e un momento prima di spararsela addosso, si entusiasmava all’idea di quanto la sua impresa sarebbe potuta valere oltre la “cortina di bambù”. Perché intanto si era verificato il cosiddetto incidente nel Golfo del Tonchino, Lyndon Johnson aveva ottenuto dal congresso il via libera ad aggredire il Vietnam del Nord e anche la Repubblica Popolare Cinese era giunta a testare la sua prima bomba.
Il continuo riferimento della Marvel e di Stan Lee alla cronistoria della guerra fredda è abbastanza trasparente, insomma, ma c’è qualcosa dell’Incredibile Hulk che sin dalla prima copertina del primissimo numero (siamo nel maggio del 1962) ci obbliga a fare i conti con l’evidenza di un conflitto che si estende in modo irrituale alla persecuzione di Bruce Banner da parte del suo stesso esercito, quello americano. Così, da un lato l’accanimento delle forze regolari sembra voler garantire per gli apparati che ce la continueranno a mettere tutta nel tentativo di domare le intemperanze dell’atomo, mentre dall’altro è sempre Hulk a riportare le vittorie più rassicuranti contro i nemici storici e galattici che minacciano la nazione. Nemici perfidi come i russi, appunto, che intanto gli contrappongono un campionario non meno distruttivo di congegni nucleari, favorendo l’idea che se anche l’esposizione ai raggi gamma dei cittadini statunitensi finisse fuori controllo, rimarrebbe la sola a intrattenere un rapporto elettivo con l’unica grandezza antropologica veramente in grado di assicurare una sopravvivenza al genere umano: il predestinato.
Ma a dettare la linea era stato il presidente in persona. È il 25 luglio 1961 quando John Fitzgerald Kennedy pronuncia ai microfoni dell’emittente radiotelevisiva Voice of America un discorso che a distanza di sessant’anni non ha ancora perso lo smalto di una vera e propria investitura[1]. All’inizio di giugno, lui e Nikita Khrushchev si sono incontrati a Vienna per discutere di Berlino, ma non sarebbe stato giudizioso puntare nemmeno una fiche sugli sviluppi di un vertice che il presidente sovietico aveva abbandonato dicendo: «Ora tocca agli americani decidere se ci sarà la guerra o la pace». Nel frattempo il numero dei cittadini tedeschi che fuggono ogni ventiquattr’ore dalla Germania dell’Est sale a tremila, l’economia della DDR rischia il collasso e nella notte tra il 12 e il 13 agosto, com’è noto, i settori occidentali di Berlino verranno rinchiusi in un recinto di filo spinato. A quel punto pare che Kennedy dicesse ai suoi che un muro andava pur sempre meglio di una guerra, ma le prospettive per il futuro rimanevano quelle che il 30 ottobre si sarebbero palesate con l’esplosione nel Mar Glaciale Artico di una bomba sovietica da cinquanta megatoni, la più potente mai sperimentata prima (Romero 2009, pp. 154-157). Nel rivolgersi alla nazione il 25 luglio, dunque, il presidente comandante in capo non sta affatto agitando dei fantasmi, ma alla luce di quanto poi accadde lo si potrebbe considerare alle prese con la volontà di fare qualcosa come un buon uso della paura. Alcune delle contromisure che oppone alla diplomazia nucleare di Nikita Khrushchev risultano addirittura scontate e vanno dal potenziamento della capacità missilistica degli Stati Uniti fino all’allerta a terra dei B-52 e dei B-47, che d’ora in avanti potranno mettersi in volo con un fulmineo quarto d’ora di preavviso. Ma cosa dobbiamo pensare della sua insistenza nel premettere che i giovani americani dovranno interrompere i loro studi e i padri le carriere, mentre i redditi si abbasseranno e non sarà più il caso di mettersi in agitazione per «ogni singola crisi manifatturiera»?
Proprio nel riflettere sulla piega iettatrice del discorso presidenziale e in riferimento al passaggio in cui evoca gli «oneri dei quali ciascuno si dovrà far carico allo scopo di difendere la libertà», mi è tornata in mente la scena di The Avengers (2012) in cui Loki e Iron Man discutono amabilmente dei destini del pianeta terra sul tetto della Stark Tower. «Ho un esercito» gli fa presente il primo che sta per invadere New York City con delle legioni di nazi-alieni detti Chitauri. «E noi un Hulk» gli risponde il secondo. Perché il presidente terrà senz’altro fede alla promessa di rimpolpare con 30.000 nuove unità i contingenti della marina e con 63.000 quelli dell’aeronautica; sicuramente riuscirà a reperire i 3,6 miliardi di dollari che intende destinare all’acquisto di altre armi, munizioni ed equipaggiamenti; ma anche se il rapporto tra l’arsenale atomico degli Stati Uniti e quello sovietico rimane sempre di 13 a 1, alla fine la vera differenza sembra che la potranno fare soltanto i sacrifici quotidiani dei tanti piccoli Bruce Banner pronti a considerare la rinuncia agli studi, la riduzione del salario o la disoccupazione come conseguenze necessarie della loro eroica esposizione alla minaccia mondiale dei raggi gamma.
Il discorso del 25 luglio termina quindi con l’assicurazione che entro qualche mese il presidente farà sapere «a ogni cittadino quali passi può intraprendere per proteggere la sua famiglia in caso di attacco», e il 6 ottobre del 1961 infatti, quando ormai a Berlino le cose sono andate come sono andate, le indicazioni della Casa Bianca giungono per lettera ai membri della commissione per la Protezione Civile nel corso di una conferenza che si tiene presso il Sheraton-Park Hotel di Washington. Quel giorno ogni americano apprende che «il governo federale si sta adoperando per rendere operativo uno spazio di rifugio antiatomico per grandi gruppi di persone in condizioni molto austere», ma che intanto a ciascun proprietario verrà destinato un pacchetto di agevolazioni che gli consentiranno di procurarsi «un ricovero più adeguato e meglio posizionato in rapporto alle proprie esigenze». Gli oneri dei quali ciascuno dovrà farsi carico, evidentemente, si stanno distribuendo sul corpo sociale con una ben orientata e ancor più disinvolta dinamica di classe: da un lato i grandi gruppi opporranno all’eventualità di una catastrofe il gesto eroico della loro rassegnazione a vivere in condizioni di impoverimento e austerità, dall’altro i cittadini meglio combinati potranno contribuire alla difesa della libertà destinando una porzione del proprio giardino alla costruzione di un rifugio antiatomico più adeguato alle loro esigenze. Il problema non sfugge per esempio al premio Pulitzer Arthur Krock, che dopo aver letto l’opuscolo con il quale gli uffici governativi descrivono in modo più accurato come si tratterà di procedere, non esita a definirlo «una guida per i più fortunati».
L’articolo di Krock viene citato da Kenneth D. Rose in un libro del 2001 intitolato One Nation Underground che consente di procurarsi un’opinione meno approssimativa della parte che il presidente Kennedy sta interpretando nel teatro delle misure già adottate nel corso dei precedenti quindici anni dai suoi predecessori. Proprio mentre Bob Dylan registra Let Me Die in My Footsteps e il dibattito sui rifugi antiatomici dilaga sulle riviste femminili come Good Housekeeping o Better Homes and Gardens, infatti, decine e decine di metri sotto le numerosissime suite e i pregevoli campi da golf di un hotel del West Virginia, viene completato il bunker che in caso di attacco dovrà alloggiare i 535 membri del congresso americano. Cinquantamila tonnellate di cemento armato che per corrispondere alle esigenze di deputati, senatori e dei loro più stretti collaboratori, contengono una sala sufficientemente spaziosa da ospitare le assemblee congiunte delle due camere, 110 orinatoi, una centrale elettrica, i locali per il personale di servizio, cibo per due mesi e un mefistofelico forno crematorio (K. Rose 2001, pp. 114-115). Per il presidente e i giudici della Corte Suprema era già stata attrezzata un’altra struttura dotata di un proprio studio televisivo tra i monti Appalachi, cinquanta miglia a nord-ovest di Washington, la stessa in cui le massime autorità del governo sarebbero poi state condotte in elicottero nei minuti immediatamente successivi agli attentati dell’11 settembre. La soluzione individuata per il comando militare, invece, prevedeva il decentramento in un certo numero di tanti “piccoli Pentagoni”, tra i quali si segnalava per notorietà un complesso denominato Site R e situato lungo il confine tra il Maryland e la Pennsylvania (Ivi, pp. 116-117).
Nel frattempo è rinomato il gusto dei nordamericani nel dare nomi infraordinari alle cose dell’Armageddon (basti pensare a Little Boy e Fat Man), per cui sulla carta cominciano a fiorire delle nuove entità come Rodlike City o Doughnut City che grazie alla loro conformazione potranno favorire un più istantaneo ripiegamento della vita in superficie verso il centro della terra (Ivi, p. 124). Al medesimo scopo, nel 1959, gli studenti del corso di specializzazione in architettura della Cornell University hanno destinato il progetto di una cittadina pronta a domiciliare novemila abitanti che attraverso una sofisticata rete di tunnel sarebbero potuti andare e venire dai rifugi suburbani alle stazioni di polizia, gli uffici amministrativi, le cliniche, la biblioteca, le palestre e un auditorium ricavati nelle profondità di un loro ipotetico quartiere finanziario (Ivi, pp. 125-126). Rifugi modello vengono allestiti nei centri commerciali o nelle fiere a titolo di ispirazione, nel senso che non avranno davvero il compito di reggere alla devastazione di un eventuale attacco russo ma restituiranno l’idea di un investimento che nel peggiore dei casi – diciamo così – si sarà rivelato comunque vantaggioso per i figli che potranno riconvertire il bunker in una saletta per le feste, per i padri che ci potranno giocare a poker con gli amici e per le mamme che realizzeranno finalmente il sogno di avere una camera degli ospiti (Ivi, p. 191). Ma di nuovi rifugi effettivamente comunitari, quelli che per intenderci avrebbero dovuto garantire la sopravvivenza dei grandi gruppi di persone in condizioni molto scomode, alla fine non se ne videro molti, mentre la vendita dei bunker da giardino si andò innanzitutto a schiantare sulle prerogative economiche e razziali che ne limitavano aprioristicamente la diffusione (Bishop, 2019, p. 129). Qualcuno, allora, dando forse l’impressione di voler fare lo spiritoso ma indicando una pista che adesso mi piacerebbe provare a prendere molto sul serio, si spinse a sospettare che gli sforzi compiuti da Kennedy tra l’estate e l’autunno del 1961 allo scopo di preallertare i suoi connazionali avessero prodotto «molta più introspezione che scavi» (K. Rose 2001, p. 186).
In questo senso, cinque anni dopo la conferenza della commissione per la Protezione Civile al Sheraton-Park Hotel di Washington, quando la Marvel gli sta concedendo una seconda chance sulle pagine di The Tales to Astonish, l’Incredibile Hulk potrebbe aver ricapitolato l’intera vicenda dei rifugi antiatomici nella serie dei quattro episodi intitolati They Dwell in the Depths!, The Stage is Set!, The Battle Cry of the Boomerang! e Less than Monster, More than Man!, apparsi in successione tra i mesi di giugno e settembre del 1966. All’inizio siamo effettivamente finiti centinaia di leghe sottoterra, nei bunker dai quali Tyrannus e l’Uomo Talpa sembrerebbero contendersi le sorti del pianeta, ma il loro è soltanto uno scontro residuale dal momento che l’ambientazione decisiva alla quale allude il secondo titolo torna a essere a chiare lettere il “mondo di superficie”. Lì, allo scopo di farsi consegnare il missile Orion, una massoneria di paranoici incappucciati guardacaso di rosso sta assoldando un supercriminale di nome Boomerang perché rapisca la figlia del generale Ross, ma l’Impero segreto (così si chiamano i rossi) non ha ancora fatto i conti con l’Incredibile Hulk, che sconfigge Boomerang e porta in salvo la ragazza. L’episodio termina allora con Betty Ross che essendo innamorata di Bruce Banner nonostante la sua inquietante metamorfosi nel mostro che l’ha appena salvata, lo prova a coinvolgere in quello che il critico svizzero Jean Rousset avrebbe sicuramente considerato un rencontre exemplaire, fissando Hulk negli occhi e «cercando di scovare una piccola traccia dell’uomo che ama dietro il loro freddo, duro, impietoso sguardo».
Ma cosa dovrebbe avere a che fare tutto questo con la repentina parabola commerciale del rifugio antiatomico? È presto detto: secondo lo storico della guerra fredda Robert Genter si potrebbero riconsiderare i personaggi creati da Stan Lee all’inizio degli anni Sessanta come un mazzo di possibili risposte allo smarrimento del maschio statunitense nel nuovo contesto del declino industriale, dell’automazione e degli stessi processi che il presidente Kennedy andava incautamente sdrammatizzando con quel suo fastidioso riferimento alla trascurabile importanza di «ogni singola crisi manifatturiera». Il leader dei Fantastici Quattro avrebbe incarnato le ragioni del buon padre di famiglia, Tony Stark le sorti del ricco playboy e l’Incredibile Hulk quelle forse più tortuose e delicate del rapporto tra la furibonda mascolinità del mostro e la coscienza turbata dell’impiegato statale (Genter 2007). Come ha testimoniato Betty Ross, pertanto, in fondo allo sguardo impietoso del primo sarà possibile rintracciare la fragilità del secondo, ma questo significa pure che dentro qualunque colletto bianco se ne potrebbe stare a riposo e in attesa di riconoscimento una bomba di virilità.
A rendere plausibile questo genere di alchimie, nel corso degli anni Cinquanta avevano già provveduto le connotazioni vagamente paleolitiche e le forme sempre più aerospaziali dei barbecue, ormai presenti ovunque nel paesaggio suburbano (Bishop 2019, p. 130), oltre al boom non meno imponente del fai-da-te. Forse il maschio americano stava vivendo un brutto momento, ma intanto cuoceva la carne come i bucanieri sull’isola di Tortuga e regolava le combustioni di uno Sputnik, e con le scandole d’asfalto che aveva posato nei week-end del solo 1953 ci si sarebbe potuto ricoprire tutto intero lo stato dell’Oregon (Lichtman 2006, p. 42). Ecco qual è allora la cornice in cui le indicazioni del presidente, tra il 1961 e il 1962, si tradurranno nell’acquisto di circa 200.000 kit per il montaggio dei bunker domestici con i quali anche la famiglia consumatrice, adesso, avrebbe potuto fare la propria parte nella guerra dei mondi (Bishop 2019, p. 129). Ma se anche la motivazione profonda dei kit sembra effettivamente rinviare allo slogan di un’azienda di produttori della Florida per cui «A family needs a survival shelter to remain a family», la loro diffusione si sarebbe inserita in una tendenza meno occasionale di riproduzione e manutenzione delle gerarchie di classe (non riguardava appunto i grandi gruppi di persone), di razza (gli afroamericani non possedevano case con giardino) e di genere (perché il rifugio assegnava a ciascuno un ruolo ben definito) che ricavava dall’incombenza dell’apocalisse un rinnovato e notevole slancio.
Prendiamo il caso di un’ipotetica famiglia Carlson, lo stesso descritto e illustrato dal settimanale Life all’epoca dei fatti. Prima di tutto Art Carlson e suo figlio Claude hanno costruito il rifugio senza il minimo bisogno di aiuto, ora il loro rapporto è alle stelle e la condivisione di un’attività veramente super-virile come quella del fai-da-te ha pure contribuito a tenere il ragazzo alla larga dalla delinquenza e dalla confusione sessuale (Lichtman 2006, p. 47). Dopodiché, una volta entrati nel rifugio, la signora Carlson si sarebbe occupata della dispensa e dell’approvvigionamento idrico, la figlia Charlene avrebbe tenuto in ordine e pulita la biancheria mentre Judy, sua sorella, era già stata nominata bibliotecaria. Ed è proprio la dispensa ben fornita a diventare presto lo stemma araldico della preparazione al fallout, con la «casalinga atomica» intenta a spuntare la lista della spesa accanto a un presentatarm di cibi in scatola ben allineati e impilati sugli scaffali (Ivi, p. 49). L’ultimo problema da risolvere rimaneva eventualmente quello della solita e spregevole cicala di Esopo, il vicino sprovvisto di bunker che in caso di attacco non ci avrebbe sicuramente pensato due volte prima di avanzare delle pretese e che diede vita a un intenso dibattito sulla shelter morality (K. Rose, 2001, 93). Che cosa bisognava fare se avesse provato a entrare? Gli si poteva sparare, sì? Uno degli spettacoli di cabaret più popolari dell’epoca, quindi, si sarebbe intitolato The Fallout Shelter Salesman e avrebbe celebrato l’abilità di un aspirante venditore porta a porta che non solo prometteva ai propri clienti di essere rimborsati qualora il bunker non avesse retto alla fine del mondo, ma aggiungeva al pacchetto una mitragliatrice in omaggio(Bishop 2019, pp. 137-138).
In un memorandum consegnato alla Casa Bianca il 13 ottobre 1961, una settimana esatta dopo la comunicazione di Kennedy alla conferenza della Protezione Civile, il consigliere alla Sicurezza Marcus G. Ruskin lo aveva scritto con estrema chiarezza: gli incentivi alla costruzione dei rifugi sarebbero probabilmente degenerati in una guerra di tutti contro tutti. Più o meno sulla stessa linea Erich Fromm e Michael Maccoby avrebbero citato il parere di un pastore favorevole alla neutralizzazione “cristiana” del vicino per concludere che alla luce del precedente storico e ben documentato della Peste Nera, nello scenario formulato dalle indicazioni presidenziali si sarebbe affermata «l’etica della giungla» (Kahn, Fromm & Maccoby 1962, p. 62). Ma gli acquisti e soprattutto le autocostruzioni dei bunker che non filavano affatto via lisce come nell’idillio della famiglia Carlson, si ridussero davvero a poca cosa e per dare la misura della vita brevissima che ebbe il loro business, in letteratura vengono spesso citate due esternazioni di Frank F. Norton, presidente della National Shelter Association. Il quale, dopo aver dichiarato «I miei migliori venditori sono Khrushchev e Kennedy» all’inizio del 1962, non dovette neppure attendere la fine dell’anno per constatare pubblicamente che il mercato dei rifugi antiatomici era già morto.
Con il senno di poi, nemmeno le opinioni degli esperti potevano davvero diffondere la sensazione che fosse giunta finalmente l’ora di dormire tra i due famosi guanciali. A tutela dei più piccoli, gli psicologi esortavano le madri a non contraddire i mariti che intendevano acquistare un bunker (Korsch Escalona 1962, p. 15), mentre sul Bulletin of the Atomic Scientists appaiono degli articoli che incoraggiano il lettore ad affrontare comunque l’investimento con uno spirito che diremo quasi pascaliano, dal momento che male non avrebbe fatto (Chapman 1963, p. 24). Ancora più tremendo, forse, sarebbe stato scoprire che sul Journal of American Institute of Planners, il grande suggerimento che i tecnici si sentivano di prodigare in materia di rifugi fosse quello di inumarli il più lontano possibile da strade, marciapiedi, cortili e tetti o in generale da qualunque altra superficie sulla quale si sarebbero potute adagiare le radiazioni (Griselle 1960, p. 246). Alla luce di questi e molti altri piccoli segnali, allora, anche un temperamento per nulla saturnino avrebbe potuto cominciare a sospettare la terribile verità che Jonathan Schell doveva rendere esplicita soltanto molti anni dopo, nel 1982, all’epoca di Ronald Reagan e del riarmo, quando definirà i programmi di evacuazione in caso di attacco «un esercizio per il trasporto della gente da una morte all’altra» (Schell 2004, p. 77). L’idea stessa di fronteggiare l’Armageddon con un genere di consumo assimilabile ai preparati per le torte o a una libreria montabile dell’Ikea, non solo tradiva una buona dose di superstizione ma restituiva l’immagine di un paese in profondo cambiamento che da qualche tempo stava delegando alle merci tutte le conoscenze vernacolari delle quali sarebbe stato effettivamente utile poter disporre all’alba del giorno zero. Da questo punto di vista non può sorprendere che nel mondo postatomico immaginato da Philip K. Dick in Cronache del dopobomba, terminato nel 1963 e dunque a ridosso dei fatti, la figura più contesa dalle piccole comunità di sopravvissuti che un momento prima dovevano aver pur condiviso l’epopea del fai-da-te [do-it-yourself] sia quella del tuttofare [handyman], al quale nel romanzo viene addirittura tributata una Settimana Internazionale di concelebrazione (Dick 2020, p. 94). Tuttofare umanoide, anche qui, un focomelico che se ne va in giro con una focomobile connessa direttamente alla corteccia motoria del suo cervello: Less than Monster, More than Man, come forse avrebbe sperato di poter concludere la nostra Betty Ross fissandolo negli occhi.
I legami non salvano, insomma, perché l’unica possibilità di salvare gli Stati Uniti d’America mantiene un profilo rigorosamente individuale e tendenzialmente numinoso. Basti pensare agli stessi esperimenti di salvezza che Timothy Leary e Richard Alpert stanno conducendo presso l’università di Harvard proprio nei mesi in cui Stan Lee foggia l’Incredibile Hulk e il presidente Kennedy parla alla nazione. Come lo stesso Leary avrebbe poi raccontato, infatti, sulla scorta di un certo «credo gnostico, ermetico, neoplatonico, alchemico, faustiano, jeffersoniano» e un corrispettivo sovradosaggio di LSD, la verità che allora si stava annunciando alla generazione dei ricercatori nati dopo Hiroshima, era quella della società intesa come «paranoia consensuale» (Leary 2007, p. 200). Bisognerà quindi attendere le analisi del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham per porre la domanda senza più angoscianti sensi di colpa, ma fino a che punto la proposta controculturale di Leary poteva inavvertitamente contribuire a gettare benzina nei motori di un’altra società inesistente, quella di Margaret Thatcher e del mondo in cui viviamo? E fino a che punto lo stesso presidente Kennedy non sarebbe stato ben lieto di riconoscere che in effetti sì, solo un paranoico poteva sospettare che fosse la società a riprodursi come un alieno nel modo in cui aveva provveduto a proteggere la popolazione? Pensare l’impensabile, allora: è questo il lato che il mito e la fantascienza condividono con il pensiero magico al quale mi pare doveroso ricondurre l’idea piuttosto scaramantica di reggere allo sprigionamento di cinquanta megatoni con una specie di capanno per gli attrezzi interrato là fuori in giardino. Non per niente, a dichiararsi molto interessati all’acquisto di un rifugio privato nel corso di una ricerca condotta tra il 1961 e il 1962 a Northampton, Massachusset, sono soprattutto gli intervistati ferventemente religiosi, forse in virtù dell’ingiunzione ad aiutare se stessi perché anche Dio, in un secondo momento, faccia la propria parte (P. Rose 1963, pp. 68-70). Ma la domanda relativa a ciò che avviene nel pensare l’impensabile (in termini di potenza o di numero, per esempio) rientra nell’ambito dei problemi ai quali la riflessione Estetica ha fatto da sempre corrispondere la categoria del sublime, la cui pertinenza in materia di guerra nucleare, secondo Frances Ferguson, verrebbe comprovata dalla frequenza con la quale a soccorrere l’impossibilità di pensare il day after, nei dibattiti dell’epoca, sia l’immaginazione di un mondo finalmente libero dalle incombenze dell’intersoggettività (Ferguson 1984, p. 9). In tandem con gli esiti non meno spaventosi del dibattito sulla shelter morality, questa sparizione magica e liberatoria degli altri si può allora interpretare nella prospettiva di quella che il futurologo berlinese Robert Jungk, quando nello stesso 1961 dovette introdurre l’edizione tedesca di L’ultima vittima di Hiroshima, vale a dire il carteggio tra Günther Anders e l’uomo che a 27 anni aveva il compito di stabilire quale fosse il momento migliore per sganciare Little Boy, definì una «reazione della bomba atomica sui suoi detentori» (Jungk 2016, p. 13). Un ulteriore modo per rendere conto dei medesimi intrighi, lo può fornire proprio il caso del bunker, una tipologia di spazio che secondo Paul Virilio manda in soffitta le funzioni geofisiche della vecchia fortificazione per capovolgersi nel mito di una «macchina per sopravvivere» in viaggio attraverso il tempo, un «sistema di contromisure elettromagnetiche istantanee» tipo teletrasporto che come la cripta conduce dritto dritto alla resurrezione o come l’arca di Noè preserva ogni specie vivente portandone in salvo soltanto una singola e privilegiata coppia di esemplari (Virilio 1991, p. 46).
Qualcosa di analogo avvenne con i rifugi antiatomici, che una volta intesi come macchine mitologiche per viaggiare nel tempo sembrano insistentemente diretti verso un passato molto preciso. Già negli anni Cinquanta una vignetta disegnata dal fumettista Al Capp raffigurava un carro assaltato dai pellerossa che il protagonista della serie, Mr. Civil Defense, indicava dicendo: «La gente in America ha sempre fatto uso della Protezione Civile». Nel discorso alla nazione del 25 luglio, allora, quello che conclude assumendosi l’impegno di indicare a ciascun cittadino quali saranno le misure che dovrà adottare per continuare ad avere una famiglia, è addirittura possibile che lo stesso presidente avesse in mente Mr. Civil Defense quando descrive la situazione in questi termini: «Come gli americani sanno dalla nostra storia sulla vecchia frontiera, gli scontri a fuoco sono causati dai fuorilegge e non dagli ufficiali di pace». Qualche mese dopo, così, il direttore esecutivo dell’American Institute of Architects può replicare a chi definisce i rifugi un’anti-architettura che anche i «coloni americani costruivano palizzate quando vivevano tra gli indiani ostili» (citato in Montayne 2011, p. 133), tanto più che all’epoca qualcuno ha già progettato un parossistico modello di Family Fallout Shelter of Wood che con le sue pareti di legno laminato non sfigurerebbe tra le casette di Walnut Grove, il piccolo paese della vecchia frontiera in cui è ambientato il telefilm La casa nella prateria (Ivi, p. 162).
Ma il vero problema dell’immaginario che finiva con l’associare gli acquirenti di un kit per la costruzione dei rifugi antiatomici ai pionieri di una terra ostile è che non rinviava soltanto al passato, dal momento che a nutrirlo erano i desideri e le paure di una nazione che avrebbe continuato a esercitare un’influenza decisiva sul futuro globale dei rapporti tra design, ambiente e sicurezza. Galvanizzati dalle circostanze che li facevano finalmente ricevere al Pentagono, a partire dal settembre del 1961 gli architetti statunitensi avrebbero cominciato a fare un uso sempre più liberale delle caratteristiche etiche ed estetiche del bunker (Ivi, p. 158). Così, alla profusione di vetro e vetrate che nel corso degli anni Cinquanta avevano simboleggiato la presunta trasparenza della democrazia americana, adesso subentravano i volumi più solidi e protettivi del calcestruzzo (Ivi, p. 165). Il Municipio di Boston progettato da Gerhard Kallmann e Michael McKinnell non solo fornisce una forma monumentale alla sensibilità dei tempi, in questo senso, ma si potrebbe considerare il paradigma di una tendenza tuttora in corso alla guarnigione dell’ambiente umano (Ivi, p. 269), che come avrebbe sostenuto di lì a poco la teoria dei defensible space sulle macerie del complesso di edilizia popolare di Pruitt-Igoe, a Saint Louis, ha soprattutto il grave difetto di risultare talvolta uno spazio non proprietario (Newman 1996, p. 10).
Nell’aprile del 1962, sul bollettino dell’Internazionale Situazionista, qualcuno lo aveva addirittura profetizzato, definendo i rifugi antiatomici «la svolta decisiva della guerra fredda, un salto qualitativo del quale più tardi si distinguerà l’immensa importanza nel processo di formazione di una società totalitaria cibernetizzata su scala planetaria» (Geopolitica dell’ibernazione). Al netto della prosa, quello che effettivamente sarebbe rimasto sul campo all’indomani delle pochissime fatture emesse dalla Peace O’Mind Shelter Company del Texas, l’American Survival Products Corporation del Maryland, la Fox Hole Shelter Inc. della California, la Bee Safe Manufacturing Company dell’Ohio e chissà quante altre ancora, non era un paesaggio di vecchi sommergibili spiaggiati come quello descritto da Paul Virilio in riferimento ai bunker della Seconda Guerra Mondiale, ma una città sempre più sfigurata dall’incredibile sforzo di contenere gli assalti di un nemico implicito. Estate del 1965: il presidente Johnson combatte finalmente i comunisti dall’altra parte del mondo laggiù in Vietnam, con un arsenale nuovamente innocuo per i destini della metropoli americana; ma in seguito ai fatti di Watts, come bisognerà regolarsi con le minoranze che stanno smettendo di stare al loro posto? Le si potrà prendere a fucilate? Pare proprio di sì, perché al rientro da quei loro andirivieni nella contemporaneità dell’anacronismo, attraverso le mitologie della vecchia frontiera o dei pirati spaziali, il rifugio antiatomico e il barbecue sarebbero dovuti finalmente atterrare nell’era della «guerra fredda urbana» (Davis 1999, p. 224). «Correte! Lasciate le strade» urla quindi un uomo che ha appena avvistato l’Incredibile Hulk sulle strade di New York nell’episodio immediatamente successivo a Less than Monster, More than Man!, intitolato Rampage in the City!
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Note
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Il discorso del 25 luglio è integralmente scaricabile dal sito web del John F. Kennedy Presidential Library and Museum, come pure la lettera del 6 ottobre e il memorandum di Marcus G. Ruskin al quale mi riferirò in seguito. I codici identificativi dei rispettivi faldoni sono JFKPOF-035-031 e JFKNSF-295-006. ↑