Pensare l’urbano con Henri Lefebvre: passato e presente del “diritto alla città”

Sonia Paone e Agostino PetrilloCittà ostile | Vol. I | Futuri urbani


L’obiettivo del contributo è evidenziare l’attualità del concetto di “” del sociologo e filosofo francese Henri Lefebvre per leggere alcune dinamiche che caratterizzano oggi i centri urbani. Nella prima parte del saggio[1] si fa riferimento alla genesi del concetto, mentre la seconda parte si concentra sul recupero del lessico lefebvriano alle soglie del terzo millennio. L’ultima parte del lavoro prova a offrire un’analisi lefebvriana della città nella pandemia.

La genesi del diritto alla città

Le droit à la ville di Henri Lefebvre vede la luce nel 1968, poco prima dell’inizio della contestazione, e proprio per questo diviene un manifesto delle proteste. Ma gli anni Sessanta del Novecento sono innanzitutto quelli in cui l’industrializzazione ha ormai provocato una trasformazione profonda e radicale delle città. Le industrie hanno utilizzato i benefici derivanti dai fattori agglomerativi, poiché concentrando le unità produttive è possibile ridurre i costi di produzione e commercializzazione e aumentare i vantaggi economici. Le città sono divenute così poli di attrazione per gli investimenti di capitale e bacini di manodopera; allo stesso tempo, sono divenute luogo di smistamento della produzione (scambio di merci e presenza di consumatori). L’industria si configura sostanzialmente come un complesso spazialmente compatto appoggiato alle città (Davico, Mela, 2002, p. 50). Le conseguenze sulla forma urbana del nuovo rapporto che si viene a creare fra città e industria sono quindi estremamente significative. Man mano, infatti, si afferma un modello di organizzazione territoriale di tipo gravitazionale, in cui i grandi centri urbani rappresentano l’asse focale, mentre all’esterno si formano le aree di conurbazione, di espansione industriale e residenziale. Dal punto di vista architettonico, il consolidamento della città industriale matura ruota attorno a una nuova concezione dell’, quella proposta dall’architettura moderna. Lo spazio urbano è pensato utilizzando uno schema razionale che si fonda sull’analisi delle funzioni (abitare, lavorare, circolare e ricreare lo spirito) e su una standardizzazione dei bisogni. La pianificazione identifica quindi le aree di espansione attraverso una zonizzazione funzionale. In una fase di crescita e di richiesta sempre maggiore di alloggi nuovi, la quantità sostituisce progressivamente la qualità; l’obiettivo è infatti predisporre alloggi che rispettino gli standard minimi senza preoccuparsi di garantire servizi e spazi di centralità. Il risultato è che le aree attorno ai nuclei storici, ovvero le nuove , divengono quartieri ad alta densità abitativa, caratterizzati da ripetitività e standardizzazione, con una scarsa qualità ambientale e poveri di valenze collettive. L’estrema specializzazione dello spazio segmentato e diviso per funzioni, la creazione di alloggi in cui l’abitare è standardizzato e omologato, la gerarchia che comporta la zonizzazione diventano elementi per identificare nel progetto funzionalista la realizzazione di una città estremamente controllata e alienante. È questo il contesto da cui Henri Lefebvre prende le mosse per tematizzare la questione del diritto alla città. Lo sviluppo delle città francesi in quegli anni è emblematico di quanto appena detto: siamo nella fase di urbanizzazione della banlieue e della realizzazione dei grandi complessi residenziali (grands ensembles). La pianificazione avviene attraverso un nuovo strumento di zonizzazione del territorio, ovvero l’individuazione delle cosiddette zone à urbaniser en priorité (ZUP) – zone speciali per la costruzione di servizi e residenze (Boyer 2000).

La creazione delle ZUP è la risposta razionale alla richiesta pressante di alloggi; i grands ensembles segnano il passaggio dalla scala orizzontale a quella verticale, attraverso la creazione di enormi moduli in cui si realizza l’integrazione fra residenze e servizi. Tuttavia, la formula dei grandi ed enormi moduli abitativi entra in fin da subito. La critica che viene mossa è quella della mancanza di diversificazione, dell’estrema monotonia generata dall’ipertrofia dei moduli abitativi, e soprattutto una pressoché totale mancanza di spazi pubblici e possibilità di partecipazione. Tutto ciò favorisce l’isolamento e il ripiegamento sulla dimensione privata. La sarcellite – termine derivato dal comune di Sarcelles, dove era stato costruito uno dei primi grands ensembles – diviene in Francia una parola di uso corrente per indicare un modo di vita patogeno che si sviluppa in queste aree residenziali (Chaline 1997, Füzessery 2015). Lefebvre, ne Le droit à la ville fa quindi innanzitutto una critica sistematica della forma di organizzazione della città industriale e moderna di cui osservava lo sviluppo. E lo fa riprendendo alcuni temi a lui cari: nella Critica della vita quotidiana aveva evidenziato l’alienazione che caratterizzava la società moderna – non solo nell’ambito del lavoro e della produzione, ma anche in quello della riproduzione, ovvero nel tempo libero e del divertimento (Lefebvre 1977). Nel Diritto alla città riporta questi aspetti all’analisi della città evidenziando gli elementi di alienazione insiti in un processo di urbanizzazione che, attraverso la standardizzazione dei bisogni, aveva codificato e normalizzato gli spazi e l’abitare: «i nuovi complessi saranno segnati da un carattere funzionale e astratto, il concetto di habitat portato fino alla sua forma pura dalla burocrazia di Stato» (Lefebvre 2014, p. 31); e poi sottolinea:

nei nuovi complessi si instaura l’habitat allo stato puro, basato su una serie di vincoli. Il complesso residenziale realizza il concetto di habitat, direbbero alcuni filosofi, escludendo l’abitare, ossia la duttilità dello spazio, la sua modulazione, il controllo, da parte dei gruppi e degli individui, delle loro condizioni di esistenza. In questo modo, è l’intera quotidianità (funzioni, prescrizioni, rigido uso del tempo) a iscriversi e manifestarsi nell’habitat. (Ivi, p. 32)

E ancora:

Questa espansione della città si accompagna a una degradazione dell’architettura e del quadro urbanistico. La gente è costretta alla dispersione, soprattutto i lavoratori, allontanati dai centri urbani. Ciò che ha dominato il processo di espansione delle città, è la segregazione economica, sociale, culturale. […] L’urbanizzazione della società si accompagna a un deterioramento della vita urbana.» (Lefebvre 2018, p. 121)

L’abitare alienato e alienante espropria gli abitanti della capacità creativa (opera) che tradizionalmente la città incarna:

allontanato dalla città, il proletario finirà con il perdere il senso dell’opera. Allontanato dai luoghi di produzione e costretto a muoversi dal luogo di residenza per raggiungere i centri produttivi sparsi sul territorio, il proletario lascerà assopire nella propria coscienza la capacità creativa. La coscienza urbana scompare. (Lefebvre 2014, p. 30)

La critica di Lefebvre non si ferma alla constatazione dell’abitare inferiore che si sperimenta nel contesto della nascente periferia. Nella sua lucida analisi, la condizione di spossessamento dalla città non riguarda solo gli abitanti dei quartieri di edilizia sociale, ma interessa anche le aree residenziali a bassa densità abitativa. Si tratta dei sobborghi composti da case monofamiliari o bifamiliari, poste anch’esse al di fuori dei nuclei storici, in cui le famiglie delle classi medie si rifugiano abbandonando l’ambiente congestionato della città. Secondo Lefebvre, anche questo habitat è deprivato e deprivante:

con la creazione del sobborgo, in Francia nasce un pensiero urbanistico che si accanisce contro la città. Si tratta di un paradosso davvero singolare. Durante la Terza Repubblica, nel giro di alcuni decenni vengono emanate le leggi che autorizzano e regolamentano i sobborghi con case unifamiliari e le lottizzazioni. Intorno alla città si sviluppa una periferia disurbanizzata che dipende comunque dalla città. In realtà, gli abitanti dei sobborghi e delle case unifamiliari continuano ad essere degli ‘urbani’ anche se perdono la consapevolezza, credendosi più vicini alla natura, al sole e al verde. Urbanizzazione disurbanizzante e disurbanizzata, si potrebbe dire per marcare il paradosso. (Ibidem)

Per cui, la coscienza della città come opera collettiva svanisce sia nelle forme di espulsione e segregazione che si realizzano nei grandi progetti di edilizia sociale, sia nelle forme di autosegregazione di chi abbandona la città e sceglie elettivamente il sobborgo. La dispersione delle popolazioni nelle banlieue e nei sobborghi rischia di disintegrare la città come opera collettiva. Partendo dalla disurbanizzazione insita in questi due processi, Lefebvre rivendica un “diritto alla città”, che intende come riappropriazione della capacità progettuale e creativa di tutti coloro che sono stati allontanati dalla città. Lo spazio urbano deve cioè ritornare a essere disegno e progetto di chi lo abita e lo attraversa.

Nella sua teoria critica dello spazio urbano, in continuità con la tradizione marxista, Lefebvre evidenza un altro aspetto di spossessamento, ovvero l’accelerazione della perdita del valore d’uso della città a favore del valore di scambio. Il valore d’uso si riferisce di nuovo all’idea di una vita urbana condivisa e collettiva, mentre il valore di scambio è quello in cui le logiche del profitto diventano una forza motrice dell’urbano, rendendo la città non più un’opera ma un prodotto vendibile e scambiabile al pari di qualsiasi altra merce.

La redditività e la produttività, tipiche dell’affermarsi della città capitalista, distruggono la creatività e la spontaneità; al contrario, la città deve essere uno spazio appropriato e appropriabile da tutti i suoi abitanti. Reclamare il diritto alla città significa quindi riappropriarsi dello spazio e del tempo in base alle esigenze di chi vive lo spazio e non di chi lo sfrutta attraverso la valorizzazione economica.

Ingiustizia spaziale, diritto alla città e movimenti

Il “diritto alla città” è quindi una critica all’urbanizzazione che periferizza ed espropria gli abitanti e allo stesso tempo crea nuove centralità in cui dominano le logiche del profitto.

La riattualizzazione del pensiero di Lefebvre si ha non a caso negli anni Duemila, in un contesto in cui pienamente si dispiegano gli effetti distruttivi della città capitalista. La globalizzazione ha infatti disegnato nuove geografie della povertà e della ricchezza urbana e ha visto un processo pervasivo di mercificazione e privatizzazione degli spazi urbani. Nello stesso tempo, i tassi di urbanizzazione sono vertiginosamente cresciuti nel cosiddetto global south, creando però metropoli e megalopoli marginali, enormi contenitori di esclusione e povertà (Paone 2018; Neuwirth 2007). Negli ultimi due decenni, l’appello al diritto alla città è quindi riemerso contro l’ingiustizia che ha caratterizzato le dinamiche urbane e lo sviluppo delle città. È divenuto lo slogan di numerosi movimenti urbani nel sud e nel nord del mondo, grazie anche all’impulso dato dai lavori della geografia neo-marxista che, a partire da diverse prospettive, ha riallacciato il legame con la produzione sull’urbano di Lefebvre. Autori come David Harvey (2012, 2013) e Edward Soja (1989, 1996), riprendendo la prospettiva teorica di Lefebvre hanno riaffermato l’importanza dell’idea di città come luogo di rivendicazione e di protagonismo dei soggetti più deboli e spossessati, ponendo una forte critica alla gestione neoliberale dello spazio urbano. Molto interessante è poi l’appropriazione del diritto alla città che si è fatta in alcuni contesti, come ad esempio in Sud Africa. Qui, il movimento Abahlali baseMjondolo si batte per riaffermare il valore d’uso del suolo contro le logiche di valorizzazione economica. Contro le politiche di sgombero e distruzione delle aree informali portate avanti dalle autorità di governo, il movimento rivendica la necessità della sicurezza del possesso collettivo del suolo su cui insistono le aree informali auto-costruite dai poveri. Inoltre, evidenzia l’importanza di una “politica dei poveri”, intendendo con questa definizione sia una maggiore attenzione alle condizioni dei poveri nelle città sia al loro protagonismo e quindi al loro coinvolgimento nel governo del territorio (Desai 2003). Più in generale, in Sud Africa le diverse appropriazioni del concetto lefebvriano del diritto alla città possono essere riferite a due prospettive: il diritto alla città come obiettivo da raggiungere o come metodo di emancipazione politica (Morange, Spire 2019). La differenza fra queste due concettualizzazioni, che aprono a differenti prassi, è la diversa posizione sulla persistenza delle pratiche di occupazione dei suoli. Il diritto alla città come obiettivo apre a prospettive riformiste reclamando la lotta alla povertà in un’ottica sviluppista. La richiesta sono politiche pubbliche in grado di promuovere e garantire i diritti urbani. I movimenti più radicali si concentrano invece sulla strategicità della questione dell’occupazione dei suoli, considerandola come una forma di resistenza popolare, contro gli sgomberi forzati e più in generale contro le politiche che escludono i poveri dalla progettazione della città. L’auto-produzione di informalità urbana, in cui è centrale la socializzazione dei suoli urbani, rappresenta cioè un modo alternativo di produzione di beni urbani, che si oppone alle logiche di profitto tipico delle ricette neoliberali di governo dell’urbano. Le lotte per il riconoscimento del possesso dei suoli occupati rappresentano quindi una tappa verso una piena emancipazione e una presa di parola da parte dei poveri (Huchzermeyer 2011). L’esempio del Sud Africa bene esprime le possibili linee di attualizzazione del diritto alla città e il suo potenziale per un ripensamento del governo del territorio. Nel nord del mondo una forte ripresa del “diritto alla città” si è avuta a partire dalla crisi finanziaria del 2008. La bolla immobiliare prodotta dai mutui subprime ha avuto conseguenze catastrofiche sul terreno dell’urbano: solo negli Stati Uniti oltre trenta milioni di persone hanno perso la casa e molte realtà urbane di successo sono entrate in una crisi profonda. La vicenda dei mutui subprime ha messo in evidenza la fragilità della finanziarizzazione delle politiche urbane riattualizzando ancora una volta le questioni su cui si incentra il cuore del discorso di Lefebvre, ovvero “di chi è la città e chi decide su di essa”.

Città e pandemia

Trascinati nel vortice della pandemia, nel pieno di una trasformazione improvvisa che siamo ben lungi da poter complessivamente valutare, possiamo per il momento fare per lo meno i conti con alcune evidenze. Nei paesi avanzati, il Covid-19 ha portato a un impoverimento di fasce della popolazione che in precedenza erano al di sopra della soglia di povertà. Sono stati sbalzati in una condizione di indigenza molti di coloro che in precedenza riuscivano a rimanere a galla, in particolare tutti quelli che svolgevano attività temporanee o precarie, i piccoli lavoratori autonomi. È come se la loro collocazione sociale, in bilico, permanentemente esposta al rischio del declassamento sociale, fosse stata risolta in maniera brusca dalla pandemia, che ha operato spostandoli verso il basso. Questo ha voluto dire anche una crescita della periferia, un divenire periferia – ancorché “sociale” – di parti di città che prima non lo erano. Il diventare periferia di parti crescenti di città rischia di rafforzare le divisioni già esistenti, di moltiplicare le frontiere interne, e rende drammatico il dibattito su sicurezza e decoro per le sue evidenti implicazioni sociali e politiche (Petrillo 2021). Altrove è andata anche peggio: nei paesi emergenti e in via di sviluppo la pandemia si è in molti casi trasformata in una strage dei poveri; basterebbe pensare a quanto avvenuto in India o in Brasile, alle fosse comuni scavate in fretta ai margini degli slum. Ma, al di là delle vittime, la diffusione del virus ha comportato come sua conseguenza un più generale e meno visibile riassetto delle città e delle periferie. C’è un evento emblematico che riassume in poche immagini quanto è avvenuto: in India, nel momento più drammatico di primo picco della diffusione del virus, alla fine di marzo 2020, il Primo Ministro indiano Narendra Modri ha imposto un coprifuoco di tre settimane per prevenire un’ulteriore diffusione. A partire da quel momento, decine di migliaia di lavoratori migranti, che in precedenza prestavano servizio come manodopera a basso costo nelle case dei ricchi o nei cantieri delle metropoli in rapida crescita del paese, hanno dovuto fare ritorno alle loro regioni di origine nelle zone rurali. Per i moltissimi lavoratori che spesso erano impiegati a giornata o con contratti a breve scadenza, il coprifuoco ha significato perdere il lavoro – e spesso anche la casa – e rinunciare a ogni sicurezza di tipo finanziario e sociale, mentre anche la dimensione del villaggio di origine si rivelava tutt’altro che rassicurante: spesso respingente e piena di incognite nonostante i legami parentali e di conoscenza (Dick 2020). Quella dei lavoratori migranti in India, respinti in una sorta di limbo tra le campagne e la città, è una vicenda tragica ma anche estremamente esplicativa di come il Covid-19 abbia rappresentato in alcuni casi una vera e propria catastrofe, ma più in generale abbia significato in linea di massima un’accresciuta vulnerabilità per molti degli abitanti delle metropoli del Global South. Il virus è stato una sorta di amplificatore sociale della disuguaglianza, andando a colpire la popolazione più fragile, gli abitanti degli slums, i residenti nelle sterminate periferie urbane. Ha infierito su realtà di spaventosa concentrazione abitativa, senza servizi, senza possibilità di accesso a cure mediche e vaccini. Così la pandemia ha messo in luce senza pietà l’altra faccia del “millennio urbano”, la materia oscura che sta dietro la urban age e che costituisce una parte sempre più consistente dell’urbanizzazione del mondo. Il destino di molti abitanti delle città del sud del mondo durante l’infezione la dice lunga su quanto sia disatteso il diritto alla città di Henri Lefebvre. Sono diventati abitanti “senza città”: persone che vivono in luoghi in cui è sempre stato problematico ottenere beni e servizi fondamentali, la cui sopravvivenza nell’ambito della città è diventata ancor di più una scommessa. E questo con buona pace delle chiacchiere sull’estensione e sull’inveramento del diritto alla città anche nei paesi poveri che erano state al centro della sessione di UN-Habitat III a Quito nel 2016 (UN-Habitat 2016)[2]. Il nobile intento di uscire dalla mera governance dell’informale e della povertà urbana che era stato formulato nell’agenda di Quito si è mostrato in tutta la sua inconsistenza di fronte all’incalzare della pandemia. Lo mostrano non solo le fosse comuni scavate in fretta fuori dalle favelas per seppellire morti senza tomba e senza nome, ma anche il destino di coloro che in un modo o nell’altro sono stati allontanati ed espulsi dalle città.

Anche nelle città dei paesi ricchi ci sono stati più morti nelle periferie che nei centri. La sola concentrazione di popolazione non è di per sé un fattore di maggiore incidenza del virus, e il “demone della densità” – come dimostra un recente volume – non ha costituito un fattore di accresciuta mortalità. A New York i poveri sono morti più dei ricchi nonostante fossero periferici – e quindi meno “concentrati” – non solo a causa della promiscuità abitativa e del più difficile accesso alle cure, ma soprattutto perché svolgevano attività lavorative materiali, che implicavano spostamenti e presenza e non potevano essere svolti in remoto (Glaeser, Cutler 2021). In fondo c’era da aspettarselo: quando Henri Lefebvre insegnava che le dinamiche degli spazi sono il risultato della proiezione sul territorio dei rapporti sociali e della loro riproduzione, aveva ben chiaro che le potenze in grado di mettere in discussione questo ordine di relazioni avevano una loro immediata visibilità. Le conseguenze di un brusco mutamento divenivano immediatamente tangibili nella stessa strutturazione degli spazi e nel destino dei singoli (Lefebvre 1974).

È proprio quello a cui abbiamo assistito in questi anni di pandemia, in cui siamo stati testimoni di una “perdita di urbanità” intesa non solo come un arretramento che colpisce i vulnerabili, ma anche come una nuova configurazione complessiva che l’assetto urbano va assumendo. Le dinamiche di produzione di periferia accelerano sotto l’impatto di una forza apparentemente esterna all’economico, ma in grado di modificare profondamente gli assetti esistenti. Con il termine ormai polisemico “periferia” si intende sempre più una categoria ambigua, in cui confluiscono aspetti materiali e simbolici, che parla di processi di oppressione e di marginalizzazione (Petrillo 2018). La riorganizzazione dei centri, anche solo in funzione anti-pandemica, innesca nuovi meccanismi di esclusione relegando in una condizione periferica tutti quelli che perdono terreno, che non riescono a stare al passo con la trasformazione del funzionamento dei rapporti di produzione, con la nuova strutturazione della città.

Lefebvre affermava che ogni ordine sociale produce le sue proprie forme di rapporti di potere sotto il profilo sia economico che politico e sociale. La centralità è in fondo una forma vuota che richiede però continuamente di essere riempita di contenuti, ed è continuamente modificabile nella sua astrattezza. C’è stato addirittura chi, sulla scorta di queste considerazioni, ha visto delinearsi come conseguenza di questa riorganizzazione del capitalismo in tempi di pandemia un momento di crisi dell’urbano come modello più generale di concentrazione del potere. Sono infatti riapparse le ormai cicliche considerazioni sulla fine della città, rafforzate questa volta da considerazioni di tipo sanitario e ambientalista. Come dire che la stessa “forma città” è apparsa vacillante e sotto attacco, mentre hanno ripreso forza antiche posizioni antiurbane e disurbane.

Ma c’è un ulteriore aspetto della diffusione del virus come fattore di arretramento del diritto alla città, ed è la limitazione – e in alcuni casi la scomparsa – dello spazio pubblico. Il lungo isolamento a cui la pandemia ha obbligato è la negazione della città come luogo dell’interazione forte, dell’urbano come lo intendeva appunto Lefebvre. E questo ha significato un “rimpicciolirsi del mondo” fino alla dimensione della casa e della stanza. È intervenuto uno Stimmungswechsel, una trasformazione radicale dell’atmosfera del tempo, del clima sociale e delle relazioni interpersonali di cui facciamo tutti esperienza, in particolare per quanto riguarda le generazioni più giovani. L’azione del Covid-19 e delle misure introdotte per contenerlo ha visto all’opera due forze: una centrifuga ed espulsiva, l’altra centripeta e isolante. Ne è risultato in alcuni casi un tra diverse logiche operanti nella riconfigurazione degli spazi, tra apertura e chiusura. Da un lato abbiamo avuto l’isolamento e la chiusura: quartieri, città, interi paesi vengono chiusi, diventano contenitori di corpi infetti; torna quella condizione che Michel Foucault spiegava ricorrendo al modello storico della città appestata, tutti a casa e controllo poliziesco della stanzialità (Foucault 1976). Per altro verso si è assistito al trionfo del remoto, della distanza, celebrato dalla comunicazione divenuta interamente virtuale. Il distanziamento fisico che si fa distanza sociale rivoluziona la città, interrompe quella rete di interazioni forti che Henri Lefebvre chiamava urbanità (Lefebvre 1974) e rischia di risolvere la maglia urbana in mero luogo di consumo e produzione indispensabile. Le attività di prima necessità diventano la sola priorità e i luoghi in cui queste vengono espletate rappresentano gli unici spazi reali dell’incontro. Tutto gravita ormai intorno al privato, mentre dilegua la dimensione collettiva della città, e rischia di offuscarsi lo stesso power of the cities su cui si è tanto insistito negli ultimi anni (Therborn, 2017).

Lo spazio pubblico viene appropriato dalle grandi piattaforme della distribuzione e della logistica, la città diviene meno pubblica e più privata. E a questo proposito ancora Lefebvre ci insegna che non c’è urbanità senza centro, che la città va pensata globalmente, e le periferie vanno sempre pensate e ri-pensate seguendo il mutare della città (Lefebvre, 1972). In questo senso occorre ri-comprendere la realtà urbana a partire da una considerazione delle sue modificazioni nel tempo e nello spazio, evitando di utilizzare strumenti concettuali non più adeguati. E non si tratta unicamente delle necessità di forgiare interpretazioni e teorie, ma anche di riaprire il discorso della prassi.

Nelle condizioni che abbiamo descritto, riproporre una prassi politica che metta al centro il diritto alla città appare possibile solo partendo dagli elementi di solidarietà e di mutuo appoggio che comunque nella pandemia si sono timidamente espressi, ripartendo da una città “dal basso” che nonostante tutto ha continuato caparbiamente la sua attività e continua a esistere (Cellamare 2019). Questo ci appare oggi il solo modo di evitare che – complice la temperie politico-sanitaria – il diritto alla città si trasformi per molti in una condanna alla periferia, forse di lungo periodo.

Bibliografia

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Note

  1. La prima parte del saggio riprende una parte contenuti dell’articolo S. Paone, Il diritto alla città. Storia e genesi di un concetto, in «The Labs Quarterly» n. 3, 2019.

  2. Ricordiamo che oltre al recupero nell’ambito degli studi urbani critici, il dibattito sul diritto alla città è presente anche in ambiti istituzionali governativi e non. Ad esempio, è confluito nella World Charter for the right to the city del World Social Forum del 2004 e nella Carta europea dei diritti dell’uomo e della città del 2000.


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