Criticity | Città fragile | Vol II | Futuri urbani
INDICE:
Premessa
Introduzione
Pandemia. vulnerabilità e attivazione sociale
Partecipation-washing, altre retoriche e valore della partecipazione conflittuale
Crisi della rappresentanza nei processi di trasformazione e “debolezza partecipativa”
Spunti e indirizzi progettuali per una rifondazione della partecipazione sociale / Un’opportunità da costruire per le culture del progetto
Conclusioni
Note
Premessa
Il testo è stato sviluppato a partire dal lavoro svolto da Emma Zerial, Lorenzo Brunello e Mattia Ventrella nell’ambito della ricerca “La città nuova e i suoi dilemmi” promossa dalla Fondazione Cesifin e coordinata dai docenti Massimo Morisi e Annick Magnier. Questo testo è stato redatto da Lorenzo Brunello ma è il frutto di una riflessione – tutta in divenire – interna al collettivo e condivisa con diversi attivisti, docenti, ricercatori e realtà con cui Criticity ha avuto l’opportunità di collaborare.
Introduzione
Probabilmente ci eravamo sbagliati. Il cinismo sembra che stia battendo la reciprocità nel gioco di forze del fine Pandemia e questo non solo sul piano delle politiche per le città ma in tutto. L’ondata romantico/ottimista dei sostenitori del “da questa pandemia ne usciremo migliori” è stata riassorbita dalle frenesie quotidiane e da quella corsa al recupero di un mondo irrimediabilmente oberante. Oberante per i ritmi incalzanti e frenetici che impone, per la sempre maggiore richiesta di flessibilizzazione delle condizioni di lavoro, per la precarietà esistenziale che genera e alimenta, ma anche e soprattutto per i grandi conflitti che costellano l’attualità. Conflitti per le egemonie locali e globali; conflitti tra potenze economiche, Stati e gruppi di potere che fanno prospettare un futuro prossimo tutt’altro che idilliaco.
A partire da questa considerazione che non può comunque essere generalizzata alla totalità degli avvenimenti del dopo pandemia, proveremo ad avanzare una riflessione calata sull’ambito urbano. In particolare, proveremo a riflettere sull’evoluzione della Partecipazione civica all’interno delle nostre città. Se infatti la pandemia pareva aver affermato la centralità delle reti di mutuo aiuto e dell’attivismo dal basso come risorsa capace di sopperire alle carenze del welfare state, pare che le politiche pubbliche del post pandemia vadano invece in tutt’altra direzione rispetto a quella del riconoscimento e del supporto a questo tipo di esperienze. Ci soffermeremo in particolare sui temi della partecipazione civica, della conflittualità politica in ambito urbano come forma partecipativa e della capacità di Autorganizzazione dei gruppi sociali, nella convinzione che all’interno di un’idea di “qualità dell’Abitare” rientrino a pieno titolo anche le forme dell’innovazione sociale e dell’autorganizzazione urbana.
Pandemia. vulnerabilità e attivazione sociale
L’emergenza Covid ha posto in evidenza due problemi strutturali nella risposta alla crisi sanitaria: un primo aspetto – sostenuto e argomentato inizialmente da quei gruppi sociali che già prima della pandemia avevano osteggiato politiche di riduzione della spesa pubblica come i tagli ad alcuni servizi essenziali (scuola, sanità, ecc.) – di incapacità di risposta adeguata all’emergenza da parte dello Stato-apparato e di “insufficiente attuazione dei diritti sociali”[1]; un secondo aspetto, meno evidente e discusso, relativo invece alle difficoltà nel riconoscere e sostenere le “esperienze collettive solidali” attivatesi su scala locale e iper-locale per arginare le lacune dello Stato Sociale e per fornire risposte immediate nei casi emergenziali dove né Mercato, né Politica e nemmeno il Terzo Settore erano in grado di arrivare. Queste esperienze solidali sono cresciute e si sono sviluppate indistintamente su tutto il territorio nazionale e hanno significato molto – non solo in termini di capacità di reazione. C’è un legame tra la capacità di individuare e denunciare l’inettitudine gestionale delle crisi – avanzata da alcuni gruppi sociali rispetto ai modelli di Governance-azione top-down – e le pratiche del protagonismo sociale: questo legame è la postura critica rispetto al Reale e le consequenziali azioni oppositive, rivendicative, affermative e conflittuali che hanno luogo nelle città.
Alberto Magnaghi descrive queste forze sociali d’attivazione come energie da contraddizione: “Per energie da contraddizione intendo i comportamenti, i conflitti, i movimenti e gli attori sociali, culturali, istituzionali ed economici che promanano dalla reazione alle nuove povertà prodotte dai processi di deterritorializzazione [sintetizzabili] in povertà di qualità ambientale e abitativa (degrado ambientale, precarietà, marginalità prodotte dalla forma metropoli e dai modelli centro-periferici che ne conseguono) e in povertà di identità (prodotte dall’omologazione delle culture, dei modelli di produzione”)[2]. Dalla definizione che Magnaghi offre di “energie da contraddizione” emergono in maniera evidente sia i connotati autogenerativi delle realtà che si originano in opposizione ad un ordine specifico, sia la condizione di povertà di “qualità abitativa” alla quale rispondono e che ne condiziona la stessa esigenza generativa.
Se spesso ci si è trovati costretti all’azione, alle pratiche mutuali spontanee simbolicamente ma anche politicamente in Conflitto con i modelli egemoni, probabilmente è perché la postura sociale della concorrenza, che domina la nostra società neoliberista, “è assolutamente incapace di rappresentare e persino di pensare le nostre interrelazioni e le nostre interdipendenze e quindi le nostre necessità di solidarietà, di legami e di aiuto reciproco”[3]. “Il capitalismo neoliberista ‘mette al lavoro’ tutta la città trasformandola in un sistema complessivo per la produzione di ricchezza, condizionando fortemente i comportamenti personali e sociali, anche attraverso un’influenza crescente sugli immaginari sociali”[4]. Nonostante la visione imprenditoriale tenda a marginalizzare le spinte cooperative, proprio nelle città, e proprio durante il covid, quest’attitudine ha subito una tendenziale inflessione, lasciando spazio a numerose forme di solidarietà reciproca, con particolare attenzione ai bisogni delle componenti più marginali della popolazione urbana. La “stratificazione civica”, dettata dalla compresenza di molteplici circostanze e statuti giuridici, ha caratterizzato in tutto il mondo, durante il covid, una condizione di accesso ineguale a diritti e garanzie[5]. Per far fronte all’esigenza di accesso a beni e servizi da parte della popolazione più fragile, il “distanziamento sociale” si è presto scomposto in “distanziamento spaziale” e “prossimità empatica” proprio grazie a quei gruppi che autonomamente si sono organizzati per far fronte alle diverse necessità (e che già prima dell’emergenza pandemica offrivano servizi e spazi alle comunità nei relativi contesti urbani).
“Nel silenzio di comunicazioni rarefatte, di scambi umani impossibili, di relazioni monche, si è messa in moto una solidarietà diffusa e pervasiva che si ritrova a ogni angolo, in particolare con gruppi spontanei nati fuori dalle reti sociali e politiche che conosciamo.”[6] La capacità di contrapporsi all’individualismo dimostrata dai tanti soggetti coinvolti in queste pratiche mutuali autonome, assieme alla ridefinizione collaborativa delle volontà, hanno potenziato la costruzione di una certa forma di Senso civico, di come si vorrebbe che le cose fossero in quanto comunità, non solo in quanto individui. Ezio Manzini descrive il senso civico come la disponibilità individuale delle persone a operare in un quadro di finalità condivise “per la rigenerazione della qualità sociale e fisica del contesto in cui si vive”[7]. Come già Lefebvre aveva potuto osservare nel 1968[8], nei vuoti di una società globale “lacunosa”, – lacune “che talvolta assumono la dimensione di veri e propri abissi” – si aprono le opportunità del “possibile”. Se da una parte l’arretramento – talvolta azzeramento – del welfare state ha amplificato criticità ed emergenze sociali, dall’altra le esigenze condivise hanno determinato la base materiale attorno alla quale cittadini e cittadine hanno dato origine a iniziative autorganizzate capaci di rispondere nell’immediato ai molti bisogni primari e di natura ricreativa. Il “Vuoto” assume una doppia valenza. Ci parla dapprima di un vuoto amministrativo, di welfare, di servizi e opportunità sociali. Il vuoto è però anche la condizione spaziale che permette di organizzare fisicamente le iniziative rivendicative e di solidarietà orizzontale, ridefinendo di volta in volta i confini tra società civile e corpi intermedi. È infatti a partire proprio dai vuoti urbani, dagli spazi di risulta usati provvisoriamente, dalle strutture in stato di abbandono riconvertite, occupate o autogestite, che molte iniziative di solidarietà orizzontale si sono organizzate e si organizzano, trovandovi all’interno gli spazi fisici necessari a operare le pratiche per cui i cittadini si mobilitano. È la stessa società civile che, direttamente, finisce per prendersi Cura di sé stessa. Aldo Bonomi fa presente come il tema della cura durante la pandemia non riguardasse solo il piano socio-sanitario. “La comunità di cura non era ‘solo’ eroica filiera sanitaria ma questione sociale che chiamava in causa la necessità di mettersi in mezzo tra rancore e immunità.”[9] Il tema della cura è un tema che interessa tutti i segmenti del progetto e chiama in causa una rinnovata modalità relazionale tra soggetti, ma anche tra soggetti e contesti.
La cura, quale azione che presuppone una reciprocità nella relazione complementare tra riconoscimento soggettivo e auto-riconoscimento collettivo, condiziona le comunità e le rispettive pratiche. La nozione di “community welfare” afferma un’esigenza di riconoscimento sociale nella qualità della vita e dell’abitare, all’interno di un ben-essere[10] messo in comune, appunto. La gestione diretta da parte dei cittadini nella creazione e promozione delle pratiche orizzontali fa sì che gli stessi soggetti sociali non si concepiscano più come corpi intermedi, ma come spazi d’azione[11], investiti di volta in volta da energie diverse e convergenti proprio per il loro carattere collaborativo. Questa capacità di auto-attivazione, spesso indipendente da qualsiasi vincolo di subordinazione, è stata efficace anche nel proporre – dimostrandone la validità – modelli di gestione alternativa dei processi. “L’obiettivo è che le energie delle comunità, certamente più vicine ai titolari e alle titolari dei bisogni, siano impiegate per la ricerca continua verso un avanzamento della solidarietà e l’immaginazione di nuove istituzioni, liberate dalla necessità di surrogarsi ai compiti che lo Stato lascia inadempiuti.”[12] Questo senso civico non va però confuso come una naturale inclinazione dell’individuo sociale che abita lo spazio urbano. Anzi, come ricorda ancora una volta Ezio Manzini, tali forme di senso civico nascono in completa contrapposizione con le tendenze dominanti, prodotte “da modi di pensare e di fare che hanno in comune la scelta di collaborare per ottenere risultati positivi, per sé, per la comunità e per la società nel suo insieme.”[13] Nella maggior parte dei casi, le forme della spontaneità sociale, anche quando non lo esplicitano, implicano una dimensione conflittuale che le contrappone alle forze egemoni dell’organizzazione sociale e della produzione culturale delle nostre società. Il conflitto è un momento della partecipazione, non un qualcosa che le è incongruo.
Partecipation-washing, altre retoriche e valore della partecipazione conflittuale
Spesso lo storytelling dei processi partecipativi sembra far passare l’inclusione progettuale come una sorta di favore implicito concesso, per il quale “non ci si può certo lamentare”, piuttosto che come volontà e intenzione progettuale. Niente di più lontano da quello che invece dovrebbe voler dire essere cittadini. “La cittadinanza è […] in primo luogo una relazione sociale, cioè l’elemento che lega tra loro i cittadini attorno a ciò che hanno in comune, o alla ‘cosa pubblica’.”[14]
Serve dunque uno sforzo per il riconoscimento delle forme del protagonismo sociale come “strumento di pensiero progettante”. Il coinvolgimento istituzionale parziale e inconsistente della cittadinanza nei processi di trasformazione urbana si somma all’incapacità di riconoscere e valorizzare le esperienze di protagonismo sociale autoaffermate, nonostante si ostenti sempre la narrazione partecipativa. “Se, infatti, nella costruzione di strumenti di progettazione e di governo del territorio le istituzioni fanno sempre più ricorso a meccanismi di coinvolgimento delle comunità locali di natura deliberativa, permane tuttavia, paradossalmente, una certa difficoltà delle stesse a costruire politiche e progetti per il territorio strutturati sulla valorizzazione di questo nuovo protagonismo sociale fondato sulle pratiche e i saperi delle comunità locali.”[15] Spesso è proprio l’iter burocratizzato della formulazione di patti tra amministrazione e cittadini che non abilita e non permette di riconoscere la validità a operare di quei soggetti che vivono in condizioni di precarietà legale (autogestioni, occupazioni, ecc.), e che simultaneamente disincentiva le spinte verso pratiche “più leggere” proprio a causa dell’elevata complessità e dei tempi prolungati degli iter. Così la burocrazia amministrativa assume una doppia faccia a seconda delle contingenze: quella della responsabilità giuridica come espediente per non concedere margini di autonomia alla cittadinanza proattiva, del “sarebbe bello ma come si fa?” o del “e di chi è poi la responsabilità?”, utile in tutte le stagioni a inibire qualsiasi tentativo auto-affermato di protagonismo sociale; e poi quella opposta, della burocrazia come freno al liberal-liberissimissimo mercato immobiliare che non concede la deregolamentazione più spudorata, che limita le volontà dei costruttori di bypassare qualsiasi controllo politico sul mercato, quella per cui “in Italia la burocrazia blocca tutto”, come il mostro arcaico delle soprintendenze che non capiscono le esigenze della contemporaneità e che ogni tanto, all’occorrenza, devono essere ignorate.
Sono molte le retoriche con cui si è cercato di costruire consensi anche attorno al tema della partecipazione. Ad esempio, il concetto di “resilienza”, che alberga anche nel titolo del programma economico più importante del paese dai tempi del Piano Marshall, è quanto di più abusato in questi anni caratterizzati dalla pandemia.
Il “presentismo”[16], e con esso la riproduzione delle cause dell’attuale disagio sociale e abitativo, è un rischio implicito proprio alla struttura retorica della “resilienza”. Il titolo del piano di investimenti del governo italiano all’interno del programma Next Generation UE, Il PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, vede incluso il concetto di “resilienza”, già inflazionato nelle discipline del progetto, il cui successo è definitivamente esploso con le riflessioni sulla pandemia e, soprattutto, sull’esigenza del recupero di una perduta “normalità”. Ciò a cui la volontà resiliente rischia di condurre, se presa nel suo significato “puro”, è una vera e propria negazione dell’apprendimento dalle varie emergenze che sempre più caratterizzeranno la nostra epoca antropocentrica. Il ripristino di una condizione di partenza, a fronte di uno stress subito, significa ripristinare le condizioni per cui quello stesso stress è avvenuto. Tradotto in termini di organizzazione processuale delle politiche e dei progetti per il dopo-pandemia, è evidente che serva un reale cambio di paradigma per scongiurare la riproduzione di scenari catastrofici, e al tempo stesso per dimostrare di aver appreso qualcosa dagli errori passati. D’altronde, per superare positivamente una crisi attraverso una strategia di cambiamento selettivo, “bisogna innanzitutto riconoscere il proprio stato, accettare la propria responsabilità – cioè la propria capacità di fare qualcosa per affrontare la crisi stessa – e tracciare un confine: identificare e delimitare il problema da risolvere, selezionando quali elementi scartare e quali conservare del proprio vecchio modello di comportamento.”[17] Parlare a-criticamente di resilienza conduce al rischio di negare una forma di apprendimento dal trauma della pandemia. Nel momento che ciò per cui si opera in termini progettuali trasformativi è il ripristino, il recupero, di una condizione di partenza, ovvero di una normalità degenere, ciò da cui ci si immunizza non è più il virus, ma l’apprendimento che dal virus dovrebbe essere tratto[18].
Questa tendenza all’elaborazione di teorie progettuali che non convergono in alcuna volontà di trasformazione sostanziale contaminano quel dibattito sull’innovazione progettuale che aspira davvero ad una radicale trasformazione del rapporto tra soggetti e soggetti e tra soggetti e contesto, ovvero l’abitare. Utilizzando le parole di Manzini, di fronte a una serie di “fragili e retoriche volontà di cambiamento”, è l’idea stessa di cambiamento a dover essere cambiata[19]. E anche nel dibattito sul dopo pandemia questa tendenza alla stabilizzazione dell’incertezza ha trovato ampi margini argomentativi. Proprio come accade per quello che riguarda le retoriche ecologiche di facciata col greenwashing, anche la pandemia ha prodotto linguaggi semplicistici e di parvenza, definiti brillantemente da Pasta e De Cunto come pratiche di “pandemic washing”, dove ciò che viene sostanzialmente detto è che “tutto cambierà per restare com’è”[20].
Arrivati a questo punto, risulta necessario soffermarsi proprio sul rapporto tra teorie architettoniche e urbanistiche post-pandemiche e idea di resilienza. Se da una parte va riconosciuto come ampi settori delle culture del progetto riconoscano nel concetto di resilienza una capacità reattivo/adattiva alle emergenze contingenti (sollevando però un’ulteriore riflessione rispetto alla regolarizzazione dello “stato d’eccezione” e dunque della resilienza in opposizione alla crisi come condizione ontologica) e non unicamente una capacità di ripristino di una condizione antecedente, non è possibile ignorare alcune considerazioni avanzate da celebri archistar. Stefano Boeri, nel suo ultimo libro Urbania, parla dell’anticipazione del rischio destando alcune preoccupazioni: “La verità è che il rischio di un’esacerbazione del conflitto sociale metropolitano, di una diffusa esplosione di rivolte urbane, è una reale possibilità nel futuro delle nostre città. Dovremmo dunque chiederci come anticipare questo rischio, riducendo gli effetti drammatici e imprevisti.”[21] Dalle parole di Boeri emerge una paura di fronte al conflitto sociale anziché un’indignazione verso le iniquità e l’ingiustizia ricorrenti. Si interroga, e interroga il mondo della progettazione, su come anticipare il rischio dell’insorgenza sociale metropolitana, una sorta di preparedness perversa, un’inibizione della rivendicazione emancipativa dei gruppi sociali più fragili. Anziché porre il focus progettuale sul miglioramento delle condizioni di vita nelle città e nelle metropoli, Boeri suggerisce di fatto di progettare preventivamente una strategia di remissività dei gruppi sociali potenzialmente conflittuali, dimostrando come alcune delle intenzioni progettuali proposte tendano più verso l’anestetizzazione delle tensioni sociali piuttosto che sulla produzione di qualità abitativa.
Come per tutti i temi ostaggio del dibattito mediatico, anche la solidarietà ha subìto una sorta di inflazione narrativa. L’aspetto che ha assunto maggior rilievo attorno alle retoriche mediatiche della solidarietà è stata la declinazione in chiave stucchevolmente auto-celebrativa. Anzi, in un certo senso ha consolidato una dinamica già rilevata da alcuni studiosi[22], ovvero quella capacità di auto-promozione e aumento della visibilità mediatica positiva, attraverso lo storytelling delle iniziative a sfondo benefico. In un contesto in cui ogni cosa deve essere ostentata pubblicamente, l’azione solidale viene sempre più spesso esibita e magari corredata da una particolare enfasi narrativa atta a generare un tornaconto simbolico rispetto allo status di chi la pratica. Il tornaconto in termini di status sociale, soprattutto se consapevole, allontana la pratica solidale da qualcosa di sincero e spontaneo, e la trasforma in un vuoto strumento retorico e narcisistico teso ad affermare una presunta bontà e carità d’animo. Laddove le azioni di aiuto e sostegno si trasformano in ornamento etico di pratiche più vicine al marketing che non allo sguardo solidale, viene meno quella componente realmente empatica propria invece delle molte azioni informali e radicate sui territori. In un’ottica di iper-informazione e comunicazione accelerata tramite media e social network, gli atteggiamenti solidali empaticamente puri rischiano di ridursi a una minima parte, e un parametro valutativo potrebbe proprio essere la densità e la ricorrenza delle forme di auto-narrazione e storytelling con cui le esperienze vengono comunicate. Come afferma Salomone, in questi termini, la solidarietà si riconfigura come “bene di consumo, al pari di tanti altri disponibili sul mercato”[23], facile preda di attori che vi intravedono un margine di crescita del proprio status mediatico e sociale.
Vi è dunque un chiaro e netto scarto tra le forme mutualistiche di partecipazione solidale e chi invece nella solidarietà vi vede un tornaconto in termini di visibilità. La contrapposizione tra queste dinamiche vive spesso anche su un altro piano simbolico, quello della conflittualità. Infatti, le realtà che promuovono e sostengono le forme mutualistiche dal basso, sono in larga parte veri e propri progetti sociali e politici, che oltre a offrire servizi alle comunità dei propri territori portano avanti anche lotte rivendicative e oppositive che sussumono una diversa concezione dell’urbano e delle relative forme di immaginazione e gestione. “La forza di quella che Blas & Ibarra (2006) chiamano la partecipazione per irruzione si è fatta visibile non solo per reagire ad attacchi in grado di indebolire istituzioni e pratiche consolidate di coinvolgimento degli abitanti nelle politiche pubbliche, ma anche per rivendicare ‘altri modi’ per cominciare a pensare il futuro post-pandemia in una forma diversa dalla mera ripresa dello status pregresso.”[24] Il piano della conflittualità politica costituisce la nervatura della partecipazione per irruzione, ma non di meno l’efficacia delle reti informali copre le diverse esigenze e aiuta quei soggetti che necessitano di sostegno senza però che questi debbano necessariamente partecipare ad alcun progetto politico. Si tratta perciò di azioni localizzate e spurie da logiche di tornaconto, che rientrano però in progetti di più ampio respiro tesi a una trasformazione politica. La rigenerazione urbana, tema che fa da serbatoio per la legittimazione dei più disparati progetti, rischia di diventare equivoca quando enunciata come progetto di Pianificazione per la “salvezza” dei territori fragili, degradati e marginali. Spesso infatti il potere urbano, economico e politico, interviene nei contesti della “rigenerazione” attraverso regie eterodirette, che sistematicamente ignorano le energie radicate nei territori e che già vi operano per contribuire all’organizzazione di una città più vivibile. Questi attori sono comunque riconosciuti nei diversi contesti, anche bypassando il piano della visibilità mediatica, poiché fanno della loro presenza sui territori e del loro costante lavoro il reale piano d’azione e legittimazione sociale. Usufruiscono di canali informativi secondari e di reti informali di trasmissione di conoscenze, il tutto con la capacità di mantenere una dialettica empatica e confidenziale col contesto. “La loro [dei pionieri della rigenerazione urbana radicati nelle periferie] non è solo un’attività di storytelling: fanno comunicazione strategica e operano sul campo, facendosi prossimi; sono capaci di esercitare distanza critica rispetto ai processi in cui sono immersi e, al contempo, spillano birre.”[25]
Queste esperienze contribuiscono alla spinta verso forme di aggiornamento sul piano giuridico e amministrativo, per cui va affermandosi una tendenza a tutelare questi attori collettivi come corpus di risorse da riconoscere, sostenere e potenziare, tanto nei contesti urbani quanto nelle aree interne. Riccardo Troisi parla dell’incisività delle esperienze collaborative e di economia trasformativa sia sul piano dell’aggiornamento giuridico che del riconoscimento culturale come di “palestre di lobby positiva e di contrattacco nella cornice istituzionale data”[26]. Analogamente a quanto accade in ecologia con l’impossibilità di adattamento dei sistemi naturali ai modelli interpretativi, anche nell’esperienza urbana si contrappongono alcuni usi dello spazio da parte dei cittadini rispetto alle intenzioni di modelli urbani e architettonici prescrittivi. Per quanto riguarda le forme conflittuali di organizzazione e manifestazione sociale, descritte altrimenti come momenti di “disobbedienza civile” (Thoreau, 1849), il loro semplice verificarsi testimonia che “fuori dai corridoi del potere ci sono uomini e donne in grado di farsi un’opinione, di avere coraggio, di dare forma alle intenzioni.”[27] Queste capacità manifeste e latenti di reazione agli shock, alle emergenze, ai bisogni non necessariamente primari, ci raccontano di un’alternativa realmente possibile a patto che si ascoltino le ragioni e le istanze di chi, ai problemi e alle difficoltà, contrappone i propri corpi, il proprio impegno, la propria sensibilità, per una vita equamente dignitosa e accessibile dentro e fuori le città.
“Le pratiche disegnano la città, intessono di relazioni (prima di tutto sociali) la fisicità della città, creano valori simbolici, danno senso ai luoghi, costituiscono tattiche di risposta alle dinamiche e alle politiche urbane, esprimendo spesso il tentativo di determinare uno ‘scarto’ rispetto ai comportamenti e agli usi predefiniti”[28]. Finché il protagonismo sociale che vive nelle forme del conflitto e dell’alternativa politica non sarà riconosciuto come forma di partecipazione da abilitare e con la quale fare i conti, i processi urbani che inventano interlocuzioni presunte “partecipative” con la cittadinanza, continueranno a essere biechi tentativi di una nemmeno troppo consapevole pedagogia del consenso.
Il conflitto non vive semplicemente nei luoghi dell’antagonismo e della militanza politica. Il conflitto col Reale[29], con città fatte di relazioni atomizzate, vive anche nelle pratiche minime a cui talvolta non si dà il giusto peso: la cura di un’aiuola o di un giardino pubblico da parte di un residente volenteroso; la sottrazione di spazi di risulta a usi privati per crearne uno spazio comune; la pulizia di una strada dopo una festa di quartiere. Non dobbiamo temere di individuare anche nella cura e nell’attenzione agli altri un atteggiamento conflittuale verso un mondo che pretende che ci si calpesti a vicenda. In risposta alla competitività sfrenata che viene insufflata a tutti i livelli dello stare al mondo, la reciprocità così come la condivisione sono gesti a “conflittualità positiva” della quale non va sottovalutata la portata radicale. Una conflittualità che osteggia, a prescindere dalla consapevolezza di chi la pratica, un dato ordine ideologico sempre più valorizzato, metabolizzato e riprodotto. Ciò avviene in situazioni che sono spesso caratterizzate da una libertà resa forse più tangibile, più percepibile. Sono situazioni conviviali, danzerecce, informali, ma anche caotiche talvolta, e forse proprio per questo quel senso di libertà acquisisce sostanza, prende corpo. Forse questa libertà emerge perché, come ricordava De Carlo, nell’ordine risiede “la noia frustrante dell’imposizione, mentre nel disordine c’è la fantasia esaltante della partecipazione”[30]. Non vogliamo affermare con questo che un’area cani autogestita possa costituire di per sé un tentativo rivoluzionario, ma è comunque una forma di riappropriazione e di messa in condivisione di un bene che confluisce in quel corpus di pratiche virtuose, e spesso sottaciute, che tentano di strappare al Realismo urbano l’egemonia sui luoghi e sulle relazioni.
“A volte le forze che modellano le nostre città sembrano schiaccianti. È facile sentirsi marginali di fronte al potere del settore immobiliare, alla tirannia dei codici di zonizzazione, all’insipienza dei ceti politici, all’inerzia delle burocrazie e alla pura persistenza delle cose che sono già state costruite. […] Eppure, […] i residenti di singole città, in ogni parte del pianeta, sono stati in grado di avviare ristrutturazioni radicali delle relazioni sociali, politiche ed economiche.”[31]
Il tema della partecipazione, come ricorda Anna Casaglia nella prefazione all’edizione di Il diritto alla città di Henri Lefebvre, è una di quelle ossessioni simulacrali della società urbana che “nasconde una crescente passività dei cittadini verso la vita pubblica”[32]. La già menzionata partecipazione per irruzione[33], classificabile come rivendicativa per quei percorsi che affermano una volontà d’uso e d’esperienza sociale in conflitto con le logiche egemoni, o come oppositiva, che si contrappone invece a progetti urbani, territoriali e di policy trasformativi[34], è una forma di partecipazione civica da considerarsi “schietta”, “per vocazione”. Esistono poi molte altre forme di partecipazione sociale, incentivate, promosse o costruite invece attraverso dinamiche top-down e che lavorano su contesti e livelli di partecipazione differenti rispetto alle pratiche e alle politiche bottom-up. Le pratiche bottom-up non cercano di riprodurre gli schemi della democrazia rappresentativa[35], ma lavorando su un contesto locale possono direttamente sperimentare forme collaborative di governance innovativa di spazi e progetti a democrazia diretta, o meglio, a democrazia immediata, che non ha bisogno di mediazioni ed è immediatamente messa in atto. L’intermediazione delle istanze, carattere tipico delle strutture a democrazia rappresentativa e quindi anche delle forme di governo urbano e territoriale, consente la possibilità di sviluppare margini interpretativi delle istanze e delle volontà dei cittadini, e dunque di selezionare le istanze cui rispondere, ridefinendo di volta in volta le priorità, in base alle diverse agende amministrative. Tali forme di intervento che sempre più spesso integrano la partecipazione come condizione irrinunciabile – almeno formalmente – di progetto, non sempre sono sviluppate e concepite all’interno dei contesti dove si interviene. Quest’azione eterodiretta sui territori genera in molti casi tensioni e conflitti interscalari tra locale e globale, tra i cittadini investiti direttamente dai progetti trasformativi e gli attori esterni che vanno a operare sui territori. Progetti che appunto, nonostante siano eterodiretti e dunque “estranei” ai territori in cui operano, hanno comunque la necessità di trovare una legittimazione sul piano sociale. In questi casi ha origine una corsa ai progetti “partecipativi” e al co-design nel tentativo di attrarre portatori d’interesse e cittadini nel processo di concezione dello spazio in cui si interviene. Il limite e il problema di molti progetti, sia pubblici che privati, che invocano la partecipazione sociale, è proprio il fatto che viene applicato un filtro nella selezione del “partecipatore”, poiché i progetti per i quali si organizzano tavoli di discussione e co-progettazione quasi sempre coinvolgono porzioni ridotte di cittadinanza e lavorano su parti decisamente minoritarie degli interventi complessivi, limitandosi peraltro ad aspetti che vanno poco oltre l’azione deliberativa per l’indicazione di preferenze tra alternative già identificate.
Crisi della rappresentanza nei processi di trasformazione e “debolezza partecipativa”
La tutela dell’interesse dei cittadini è limitata nella gran parte dei processi alla rappresentanza politica condensata nel meccanismo della delega elettorale, per cui le amministrazioni sono spesso gli unici soggetti che si trovano a mediare nei processi di transizione e trasformazione con i detrattori privati orientati alla massimizzazione della rendita urbana. “Un approccio il cui obiettivo dovrebbe essere la riduzione di asimmetrie nei percorsi decisionali ha dunque finito per incrementarle.”[36]
Alla richiesta crescente di autonomia da parte dei gruppi che portano avanti progetti territoriali centrati su mutualismo e reciprocità reale, e dunque estranei alle logiche di mercato – anche quelle che governano le dinamiche del Terzo Settore – si contrappongono una serie di criticità riconducibili alla delega del Pubblico nei confronti di queste avanguardie civiche per ciò che riguarda una serie di servizi spesso anche essenziali. Si tratta di servizi di diversa natura, come l’assistenza legale, i servizi alla residenza, ma anche forme di accessibilità a spazi liberi come aule studio gratuite, biblioteche, palestre popolari, fablab o aree di verde urbano curate proprio dai gruppi di cittadini. Quindi, se da una parte viene avanzata una richiesta di autonomia da parte dei gruppi sociali che si attivano a livello locale, dall’altra si incorre nel rischio che alcune funzioni pubbliche essenziali siano integralmente delegate alla capacità organizzativa e gestionale dei cittadini che si attivano nei ritagli di tempo, proprio perché queste attività non possono, e in qualche modo nemmeno vogliono, generare reddito. Cellamare pone in evidenza questo aspetto invitando a riflettere sui rischi insiti “in tale ruolo ‘supplente’ [delle realtà autorganizzate], proprio perché tenderebbe a coprire le carenze e le mancanze dell’amministrazione pubblica, agevolando, se non favorendo, l’arretramento della presenza del soggetto pubblico dai territori e dalle proprie responsabilità.”[37]
L’inquadramento critico dell’idea di progettazione partecipata permette di distinguere tra una partecipazione civica sincera e spontanea, fondata su esigenze effettive e condivise, che si contrappone a una sorta di partecipazione selettiva, in cui l’inclusione decisionale del cittadino è stabilita a partire da un’affinità di intenti e diventa presto corredo legittimante per l’imposizione di policy e progetti di trasformazione urbana. Francesca Bria e Evgeny Morozov, nella loro critica alla concezione corrente di “Smart City”, individuano una preoccupante conciliazione del “cittadino intelligente” col pacchetto ideologico neoliberista[38]. L’esigenza di riconoscere nelle forme di innovazione e partecipazione spontanea bottom-up un fattore qualificante e strategico per l’organizzazione urbana, si scontra con la volontà di mantenere un controllo egemonico sulla città da parte delle forme di potere tradizionale. Le forme di innovazione sociale spontanea, per via del proprio carattere autogenerativo, da una parte catalizzano interessi e attenzioni da parte della Ricerca, dall’altra intimoriscono le forme istituzionali ed economiche del potere centralizzato, che da sempre stabilisce le modalità di governo dell’urbano. Non a caso, nel valutare l’interruzione dei percorsi partecipativi durante l’emergenza, Giovanni Allegretti ha parlato di “paralisi partecipativa”, affermando che è “legittimo sospettare che molte istituzioni abbiano ‘approfittato’ dell’emergenza per ridurre i margini di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte, in linea con la ridotta simpatia che le strutture di potere della democrazia rappresentativa sovente nutrono per ogni forma di democrazia diretta e partecipativa, che attui come un ‘competitor’”[39]. Questa sorta di diffidenza amministrativa nei confronti delle spinte autonome all’interno delle città, confermata anche nella parentesi pandemica, rischia non solo di soffocare nella burocrazia e nei vincoli normativi le stesse iniziative, ma di disincentivare anche altri tentativi di attivazione sociale. Il contrasto tra politiche top-down e progettualità bottom-up, le quali anche indirettamente rappresentano un tentativo di trasmissione di esigenze diffuse a un potere decisionale, viene accentuato da entrambe le parti. Da parte dei soggetti che agiscono all’interno dei percorsi dell’attivismo politico e sociale, spesso il conflitto si esplicita proprio nell’avversione ai modelli ideologici tra sé incompatibili, per cui si individua la controparte politica proprio nelle forme del governo locale. Da parte invece delle amministrazioni locali, la diffidenza rispetto a queste realtà che simbolicamente mettono in discussione le forme del potere centralizzato, attiva una serie di dispositivi giuridici e burocratici tesi all’interdizione dell’illecito, condizione nella quale spesso molte realtà inevitabilmente si trovano. Ma la risorsa che tali realtà costituiscono è duplice, poiché rappresentano sia l’espressione di una domanda da non lasciare inascoltata, sia l’interlocutore adatto a organizzare le risposte attraverso metodologie collaborative. D’altronde, se così non fosse, bisognerebbe credere ancora oggi che “contraddizioni e conflitti siano la manifestazione patologica di individui e classi sociali disadattati, che occorre rieducare o costringere al rispetto delle Istituzioni, sagge e giuste e sane, per definizione.”[40] Nonostante la fragilità del confine tra manipolazione del consenso e autentica partecipazione nei processi decisionali sia un tema ben noto da tempo[41], la relazione tra cittadini attivi e policy makers non è ancora stata realmente reinterpretata. Occorre individuare nei singoli cittadini e nei soggetti collettivi, anziché i soli destinatari delle politiche, anche il ruolo di co-agenti[42] capaci di interpretare e dare forma al contesto che si trovano ad abitare. Dare in sostanza alle persone il potere di assumere un ruolo attivo nel loro ambiente di vita, nei luoghi che abitano. D’altronde, ci ricorda Janes Jacobs, gli urbanisti non saranno sempre in grado di “creare una comunità che funzioni, mentre una comunità funzionante può, nei suoi limiti, migliorare la propria condizione.”[43]
Nonostante la consapevolezza diffusa e il valore strategico di un’interlocuzione funzionale tra politica e cittadinanza attiva, le operazioni in questa direzione sono state fatte di “timidi programmi riabilitativi, rigenerazioni posticce, progetti sbrigativi di building improvvisata, ricorso a vecchie strategie terzomondiali, empowerment di seconda mano e partecipazionismo pilotato”[44]. Proprio perché queste organizzazioni sociali si esprimono spesso attraverso forme di militanza rivendicativa, l’interlocuzione con esse da parte delle amministrazioni può rappresentare un’occasione per apprendere l’effetto localizzato delle crisi dell’economia globale e delle politiche nazionali. Riconoscere, tutelare, abilitare e potenziare i progetti spontanei territoriali serve per non disperdere quelle “risorse materiali e immateriali che concorrono a mitigare gli effetti della riduzione dell’intervento dello Stato; a queste si affianca l’attivazione di energie sociali che non solo esprimono domande, ma che soprattutto organizzano e identificano le risposte dal basso”[45]. In sostanza la pandemia ci ha consegnato un complesso quadro sociale fatto di posizioni conflittuali, e sotto un certo aspetto anche concorrenziali, dove si sommano e si condizionano reciprocamente diversi aspetti: la ricerca di accondiscendenza nella costruzione dei progetti top-down; la mancanza di sostenibilità dei progetti rivendicativi bottom-up; l’impatto dei processi eterodiretti sui territori; l’azione informale su microscala; la difficoltà d’azione della macchina amministrativa nell’intervento Pubblico; la riproduzione impropria delle gerarchie organizzative nelle realtà nate informalmente, ecc. Ancora Giovanni Allegretti sostiene che sia necessario guardare alla partecipazione “da una prospettiva più “olistica”, basata sulla valorizzazione congiunta delle diverse forme di protagonismo civico, ossia capace di smussare la nettezza dell’opposizione (che prima era vista, sovente, in modo piuttosto conflittuale) tra forme di partecipazione “per invito” e forme “reattive” dal basso “per irruzione”[46]. In sostanza, ciò che può facilitare la convergenza tra le molteplici spinte verso un reale interesse nel vivere in collettività sostenibili e solidali, è la produzione di nuove e specifiche competenze capaci di equilibrare lo spontaneismo con la necessità di regia complessiva. In questo senso, la qualità dell’abitare che si può ottenere attraverso forme partecipative spontanee – e se necessario in conflitto con i modelli egemoni – può essere un segmento disciplinare tutto da costituire, per cui formare attraverso le discipline del progetto nuove figure di mediazione e gestione della complessità. Anche di questo parleremo nell’ultimo paragrafo.
Rispetto agli attuali processi partecipativi, che comunque in parte già esistono e che hanno da qualche anno inaugurato un nuovo approccio virtuoso all’inclusione progettuale e alle forme di co-governance in ambito urbano, è necessario riflettere su una criticità in particolare. La logica dominante per quanto riguarda l’innovazione sociale è quella del bando. Dalla modalità del bando derivano poi una serie di forme ibride di ingaggio e assegnazione di oneri e onori per quello che riguarda i più svariati ambiti: l’offerta culturale, lo spazio pubblico, alcuni servizi (essenziali o meno), ecc. Questo approccio, anche laddove virtuoso nelle intenzioni, rischia di produrre alcune forme di iniquità. In primo luogo, va segnalato come spesso si abbia a che fare con forme di finanziamento pubblico per programmi di rigenerazione urbana che tendono a privilegiare “l’aspetto fisico ed estetico invece di incidere sui processi socio-economici, producendo barriere fisiche, sociali e culturali, la frammentazione del tessuto socio spaziale e la formazione di isole di segregazione urbana”[47]. Quando gli interventi non sono sbilanciati sul solo aspetto fisico-spaziale, invece, nei processi di attivazione di sistemi-servizio su scala locale, si annida il rischio di una sorta di iniquità allocativa delle risorse. Se infatti l’attivazione sociale, e dunque la disponibilità a aderire ai progetti locali da parte delle persone, è anche il prodotto di un ecosistema sociale attivo, recettivo e propositivo, laddove si ha una carenza di protagonismo sociale è anche più difficile attivare determinati percorsi, col rischio di aumentare la forbice dell’esclusione sociale. La ricchezza sociale dei territori è giustappunto fatta di “risorse relazionali e organizzative diffuse nell’ambito della società civile (come forma di capitale sociale presente nella società) che prendono forma da energie individuali (singoli cittadini) ma soprattutto collettive o associative.”[48] Le comunità locali non sono dunque solo strategiche nell’individuazione delle criticità e nella definizione delle soluzioni da mettere in atto, ma sono anche e soprattutto decisive per la possibilità stessa di attivazione di tali processi. Ciò comporta una sorta di iniquità delle politiche urbane, contribuendo ad alimentare forme di squilibrio socio-urbano laddove tali risorse non sono presenti, escluse o mal organizzate. “È la definizione stessa delle priorità che risulta discutibile e controversa, nell’ambito di un processo che tende a lasciare ai margini quei contesti e quella parte della popolazione che sono privi di capacità necessaria ad attivarsi/essere parte attiva nelle politiche che li riguardano.”[49] E ancora, “‘a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha’; ossia il principio di attivazione quale logica di allocazione delle risorse tende a escludere in modo significativo soggetti e luoghi che sono privi delle capacità/capability/capitale sociale/energie sociali necessarie all’attivazione stessa.”[50]
Spunti e indirizzi progettuali per una rifondazione della partecipazione sociale
Un’opportunità da costruire per le culture del progetto
I settori del design e della progettazione in senso lato, se quanto appreso durante queste fasi emergenziali potrà comportare un reale apprendimento e non una sterile corsa al recupero delle condizioni pre-pandemiche, saranno investiti da inedite occasioni progettuali. Si dovrà provvedere infatti a un celere programma di infrastrutturazione delle diverse forme di sussidiarietà orizzontale, sia sul piano dell’aggiornamento giuridico e normativo, sia soprattutto attraverso la dotazione di nuove competenze di mediazione, piattaforme organizzative e divulgative e spazi di co-gestione dei processi. Quest’inedita occasione progettuale – parzialmente sperimentata in alcuni interventi pionieri – dovrà svilupparsi però di pari passo con il riconoscimento e l’abilitazione a operare di quelle forme sociali che si sono attivate e che hanno dimostrato profonda capacità e conoscenza localizzata, essenziale nella mitigazione dei danni sociali durante la pandemia.
Romea Farinella, a proposito della banalizzazione di alcune soluzioni progettuali, ha notato come durante la pandemia sia emersa la difficoltà a ragionare in termini di complessità. “La semplificazione nei processi di governo e la sua associazione con immagini-faro serve per rassicurare o per rappresentare un mondo che non si misura con la difficoltà dei processi.”[51] Se, come osserva Corrado Petrocelli, “non si può ridurre la complessità del mondo a un kit di formule, né il sapere a un algoritmo”[52], è vero anche che nuovi strumenti possono fornire innovative modalità di gestione della complessità. Un esempio sono le piattaforme partecipative di cui sempre più municipalità si stanno dotando e che segnano, se non un punto d’arrivo, quantomeno una direzione verso cui far procedere l’innovazione delle forme verticali tradizionali di governance. Anche in questo senso le culture del progetto possono essere capaci di fornire competenze specifiche sia in termini di concezione organizzativa dei contenuti, sia in termini di accessibilità comunicativa. Se a ciò si aggiunge il fatto che simili strumenti contribuiscono a favorire lo spontaneismo sociale, da non considerarsi solo come una “buona notizia” ma bensì come un intelletto collettivo di nuovi corpi intermedi[53], è evidente come la relazione tra progetto e innovazione sociale si saldi in una prospettiva disciplinare fondamentale ma ancora tutta da costruire. “Le nuove consapevolezze sulla complessità e la non linearità dei fenomeni e dei sistemi scientifici, economici e culturali con cui la conoscenza si deve interfacciare, piuttosto che dare nuove sicurezze, invitano alla continua riflessione sulle responsabilità sociali e collettive, come ambientali ed ecologiche di ogni singola azione umana.”[54] Daniela Ciaffi ed Emanuela Saporito indicano tre suggestioni per la crescita collaborativa delle città, e identificano quali asset di intervento per l’innovazione sociale le esperienze di co-progettazione alternative alle routine amministrative, le forme di amministrazione condivisa dei beni comuni e soprattutto il riconoscimento nel cittadino di un capitale sociale agente.[55] Analogamente all’esigenza di collaborazione della società urbana, anche per quanto riguarda lo spazio abitativo e le competenze che lo determinano, la pandemia ha evidenziato la necessità di un approccio olistico e multisettoriale, capace di superare definitivamente i vecchi confini disciplinari con cui si è a lungo indagato il tema dell’abitare.[56] “L’orizzonte è quello di un sistema composito di spazi già consolidati”, a fronte di una “domanda sociale che si è fatta composita, variabile, discontinua e a volte imprevedibile”[57] ribadiscono Roberto Bobbio e Massimo Bricocoli.
Sempre Allegretti individua cinque questioni[58] centrali per la rifondazione di un approccio alla partecipazione civica, delle quali riteniamo di dover tener conto e che comprendono quei nuovi orizzonti per le discipline del progetto. I cinque aspetti riguardano: i programmi di investimenti per l’introduzione di figure di facilitazione e mediazione, ma anche per dotarsi di piattaforme logistico-organizzative; la ristrutturazione dei modelli organizzativi dei processi di co-progettazione; la re-immaginazione/invenzione di temi e obiettivi per stabilire nuove finalità e priorità dei processi democratici di partecipazione sociale (sense making-problem setting); una risposta all’aumento del grado di esigenza dei cittadini e la relativa indisponibilità a lavorare su progetti minoritari/secondari; una definitiva ed efficace forma di trasparenza informativa multilivello. Le questioni sollevate da Allegretti permettono di riportare la partecipazione civica sul piano della costruzione di immaginari possibili e della sperimentazione di pratiche sociali alternative, anziché relegare l’attivismo alla condizione di “tappabuchi” delle carenze che dovrebbero fare capo al soggetto Pubblico. “Non si tratta di svolgere un ruolo ‘supplente’ – specifica ancora Cellamare – rispetto alle carenze della pubblica amministrazione, ma di dare seguito a capacità progettuali e a risorse sociali costruttive che, oltre a risolvere problemi concreti, attivano solidarietà e collaborazioni sociali, forme di appropriazione dello spazio e della città, recupero e restituzione alla città e all’uso pubblico di patrimoni edilizi (e non) abbandonati ecc., e con questo mettono a lavoro una diversa idea di città”[59].
Inoltre, ciò che vale per la costruzione di strategie di superamento della condizione di precarietà esistenziale, argomentate in maniera brillante da Silvio Lorusso nel suo lavoro “Entreprecariat”, vale anche per quanto riguarda la società urbana, ed è necessario porre la collaborazione e la reciprocità come punto di partenza nella costruzione di risposte e possibilità trasformative. “Ogni soluzione individuale sfocia nell’auto-aiuto e dunque nel mero vantaggio competitivo. […] Ogni proposta volta a esorcizzare gli spiriti imprendicari deve avere un respiro collettivo e un’ambizione cooperativa.”[60] Mentre i processi top-down operano per sintesi, semplificazione, quindi eludendo in qualche modo la complessità, le esperienze bottom-up lavorano per aggregazione e fanno della complessità un elemento costituente. “L’approccio top-down parte da una visione generale e universale, che viene in seguito scomposta sistematicamente sempre più in dettaglio. Al contrario l’approccio bottom-up parte dall’elemento più atomizzato per costruire un sistema di crescente complessità.”[61]
Ma la differenza tra i modi della partecipazione è ciò che in ultima analisi conta, ed è ciò su cui appunto è necessario costruire una nuova concezione di “abitare”. Attingendo dal concetto dell’Ubuntu, pratica progettuale comunitaria che consiste nel bilanciare le esigenze personali e trovare convergenza nei progetti collettivi, quello che può e deve essere distinto nitidamente al fine di evitare equivoci metodologici, è un’idea di partecipazione quale mezzo o di partecipazione come obiettivo. Serve uno sforzo culturale ancor prima che metodologico per andare oltre “il mero empowerment, che è, di fatto, la rigenerazione degli squilibri di potere esistenti”[62]. Serve lavorare sull’innovazione delle forme del dialogo, poiché solo il “Dialogo” tra saperi e soggetti coinvolti appare come naturale esito della risposta matura all’emergenza dello shock pandemico. Poiché si è trattato di una crisi globale, l’organizzazione post-pandemica dovrà agire su scale differenti, complementari e correlate. Da quella della massima prossimità a quella del “giardino planetario”. L’approccio e le metodologia dovranno attingere e imparare dai tentativi di riorientamento radicale dell’agire, piuttosto che perseverare in tentativi di variazione incrementale nell’ambito dei contesti predefiniti.[63]
L’innovazione delle pratiche di coinvolgimento progettuale delle persone passa sia per il ripensamento delle tradizionali forme partecipative e d’ingaggio, al fine di aumentare inclusività ed efficacia dei processi, sia per l’attuazione – anche sperimentale – di iniziative pioniere su scala locale e iper-locale. Questo proprio per poter includere nei processi non solo quei soggetti predisposti (culturalmente, socialmente ed economicamente) alla partecipazione, ma anche quelle categorie più vulnerabili che caratterizzano alcuni gruppi sociali periferici, le cui fragilità sono emerse nitidamente durante la crisi pandemica, e che con essa sono anche aumentate[64].
“La molteplicità dei casi studiati ha fatto emergere che i processi di maggiore successo sono stati centrati su una visione strategica, che comprendesse l’adozione di modalità partecipative del processo. Infatti, le esperienze di ricostruzione analizzate che hanno conseguito migliori risultati, sia dal punto di vista materiale ed economico sia dal punto di vista della coesione sociale, sono state quelle che hanno adottato un percorso di condivisione di problemi, aspettative, richieste, conoscenza di strumenti e risorse a disposizione con la popolazione […] quanto più le comunità comprendono la complessità dell’insieme delle decisioni, anche amministrative, da adottare; quanto più sono messe in condizione di auto-organizzarsi per individuare e porre in essere soluzioni pratiche e percorribili; quanto più, ancora, sono incluse nel processo decisionale, tanto più la concretezza di visione e la praticabilità delle decisioni adottate saranno maggiori e di successo.”[65]
Conclusioni
Abbiamo riflettuto su cosa la pandemia abbia fatto emergere sul piano della partecipazione sociale; abbiamo criticizzato le costruzioni retoriche attorno al tema della partecipazione e l’uso speculativo che se ne fa all’interno dei processi di trasformazione urbana; è stata ribadita la centralità del conflitto come momento partecipativo in ambito urbano e cosa vuol dire immaginare e generare città altre; infine abbiamo individuato una serie di indirizzi e spunti progettuali per il potenziamento delle culture del Progetto rispetto alla capacità di mediare e organizzare i processi progettuali per cui la partecipazione costituisca sia una pre-condizione che un fine. Per noi, come collettivo, parlare di città e partecipazione civica non vuol dire altro che parlare della stessa cosa. Infatti, a fronte di una negazione delle opportunità urbane che risiede in certe logiche di dominio e gestione del potere, riteniamo che la costruzione di un modello di città-critica[66] non possa che passare per la rinegoziazione del potere urbano, e di una sua inevitabile redistribuzione (tutta ancora da inventare). “Si ha partecipazione infatti quando tutti intervengono in egual misura nella gestione del potere, oppure – forse così è più chiaro – quando non esiste più il potere perché tutti sono direttamente ed egualmente coinvolti nel processo delle decisioni.”[67] Una partecipazione come quella descritta da De Carlo passa per la destrutturazione della pesante eredità storica della città, ovvero per il superamento di quei sistemi di governo impositivo ereditati dalla città-macchina modernista come infrastruttura prescrittiva, e che oggi, nella post-modernità, nega addirittura anche quei minimi ideali collettivistici di diffusione dei vantaggi ai quali per lo meno aspirava (stagione del capitalismo liberale e del welfare state). La città neoliberista, svuotata sempre più da una visione di abilitazione e sostegno sociale tende ad allinearsi e ad appiattirsi verso la sola “competitivizzazione” delle esistenze e delle relazioni, qualsiasi esse siano. Lo fa replicando e diffondendo le caratteristiche dell’atomismo sociale alla scala urbana e tra sistemi urbani (es. bandi, logiche di assegnazione di fondi regionali, statali, europei, ecc.). In tutto ciò aumenta il grado di repressione rispetto alle forze sociali d’attivazione dal basso che rivendicano diversi modi di vivere l’urbano e la socialità al suo interno. Aumenta anche la normatizzazione e il disciplinamento dello spazio pubblico delle città, che sempre più “smart”, appaiono sempre più invivibili e distopiche. Per tutti questi motivi intendiamo il Conflitto come momento iniziatico della partecipazione civica e del protagonismo sociale. Conflitto che deve essere in grado di mettere in discussione la contemporaneità e ri-orientare aspirazioni e obiettivi della collettività, per immaginare e praticare Futuri Urbani possibili.
Note
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Con “presentismo” si intende quella dimensione dispotica e totalizzante che, <<un po’ per via di una sorta di autoreferenzialità patologica, un po’ a causa di regimi di convenienza individualizzata, non è in grado di riconoscere “altro da sé”>>. In Anna Marson, Antonella Tarpino, “Dalla crisi pandemica il ritorno ai territori”, p. 8 in SCIENZE DEL TERRITORIO. ISSN 2284-242X. special issue “ABITARE IL TERRITORIO AL TEMPO DEL COVID”. pp. 6-12, DOI: 10.13128/sdt-12369. © 2020 Author(s) ↑
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Si vedano a tal proposito testi come “Privati del patrimonio”, di Tomaso Montanari (Einaudi, 2015); “Ricchi e buoni. Le trame oscure del filantrocapitalismo”, di Nicoletta Dentico (Emi, 2020); ma anche l’articolo “Solidarietà debole”, Adam Arvidsson < https://www.doppiozero.com/materiali/lavoro-freelance/la-solidarieta-debole > sul tema dell’inganno della sharing economy ↑
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Carlo Cellamare, “Città-fai-da-te”, p. 11, Donzelli Editore, Roma 2019 ↑
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Con “Reale” e “Realismo” ci si riferisce a quell’ordine ideologico implicito e accettato. Mark Fischer spiega brillantemente in “Realismo Capitalista” (2009, Nero edizioni) “come sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Con quest’opera letteraria l’autore permette di comprendere come la logica predatoria del Mercato capitalistico non solo sia accettata diffusamente come unico modello di sviluppo possibile, ma come essa sia anche metabolizzata e riprodotta nelle relazioni sociali non necessariamente economiche. Con “Realismo” intendiamo dunque quella base psicologica condivisa per cui il capitalismo (e le forme relazionali che questo prescrive e determina) si presenta come unico e irrinunciabile modello socio-economico, per cui risulta impossibile immaginare “altro da sé”. ↑
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Giancarlo De Carlo, “L’architettura della partecipazione”, (a cura di) Sara Marini, p. 73 Quoodlibet, Macerata 2013 ↑
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Niccolò Bellanca, “Homo homini virus? Spazio urbano e disuguaglianze in tempo di pandemia”, in MicroMega online Luglio 2020 ↑
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Anna Casaglia, Prefazione a H. Lefebvre; “Il diritto alla città”; Ombre corte / culture 127, Verona 2014, p. 10 ↑
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