Alessandro Bezzi, Arianna Camellato, Cristina Setti (Lumen) | Città viva | Vol III | Futuri urbani
Introduzione
Che cos’è la città?
“Città viva” sembra quasi un ossimoro, in un momento in cui anche i non-luoghi faticano a riprendere il loro spazio e il nostro tempo. Per questa ragione, pensare la socialità nel mondo post pandemico significa ripensare anche la città, intesa come spazio di affermazione collettiva e individuale. Rigenerare lo spazio condiviso – e mantenerlo pubblico al netto di processi di speculazione più o meno palesi -– è un’esigenza che in questo momento storico riguarda le amministrazioni pubbliche, il tessuto associativo e i singoli cittadini: processi partecipativi e patti di collaborazione sono solo le forme giuridiche più diffuse e standardizzate di pratiche tanto diversificate quanto diffuse sul territorio.
Dietro una produzione normativa ipertrofica, esistono interessanti possibilità residuali per processi legislativi capaci di creare nuovi spazi. Questi hanno almeno tre macro obiettivi tra loro complementari:
– riqualificare il patrimonio immobiliare degli enti territoriali;
– ricostruire Comunità atomizzate da violenti processi economici;
– restituire al singolo uno spazio di realizzazione sociale e professionale.
In questa breve analisi, proveremo a mettere in luce alcune delle contraddizioni della città post-contemporanea. A problematiche globali si contrappongono infatti risposte inevitabilmente locali: i contesti socio-demografici; il patrimonio culturale, artistico e architettonico; le specificità economiche e logistiche impongono infatti riflessioni particolari. Non esistono formule magiche, tanto più visto il carattere sperimentale di molte di queste prassi: il case study di Lumen è da intendersi quindi come un esperimento che presenta rischi e contraddizioni. Del resto, crediamo che l’errore sia l’elemento chiave di ogni processo evolutivo; ogni progetto che vuole dichiararsi “innovativo” deve quindi contemplare il diritto al fallimento e sostituirlo alla pretesa di farsi dottrina.
Che cos’è una città? E cosa vorremmo che fosse?
Chi sono i suoi abitanti? Ci sentiamo a nostro agio?
Quanto abbiamo vissuto e quanto abbiamo subito un’idea di città?
La città e le istituzioni
Dove sono gli interlocutori?
Gli spazi pubblici sono in via di estinzione: schiacciati tra gentrification e ghettizzazione, tra speculazione e rendita, tra architettura ostile[1] e individualizzazione del tempo libero. Aumentano gli spazi vuoti, quelli non abitati, quelli non vissuti[2]. Un patrimonio che si svaluta ogni giorno, con esternalità negative sulla comunità (aumento del degrado, crollo della sicurezza e del benessere percepito) e sulla capacità di spesa degli enti locali. In alcuni casi, la lungimiranza della classe politica e dell’amministrazione ha promosso sperimentazioni virtuose (es. patti di collaborazione), ma affidarsi a eventuali processi top down non è certo una soluzione sistemica. Da fruitori, cittadini e tessuto associativo devono farsi abilitatori di processi giuridicamente incontestabili che l’amministrazione ha il compito di facilitare, o quantomeno di non ostacolare.
Roberta Franceschinelli parla di “pratiche in cerca di una teoria”[3], evidenziando come sia l’apparato legislativo rigido a doversi plasmare sopra esperienze che incorporano la fluidità nei loro processi trasformativi. Da notare l’assenza di un Testo Unico Nazionale che abiliti queste pratiche: le norme sugli edifici a uso non abitativo vanno a costituire un sistema solo apparentemente “a maglie larghe”, caratterizzato a livello sostanziale da difformità, opacità e inaccessibilità[4].
La soluzione sperimentale che Lumen ha promosso è una concessione trentennale – tramite affido diretto – di uno stabile e del suo verde di pertinenza, in cambio della manutenzione ordinaria e straordinaria degli stessi: un accordo inedito, raggiunto basandosi su garanzie qualitative e non economiche e senza alcuna deroga proprio per essere imitato. Lumen andrà a riqualificare un bene pubblico promuovendo una nuova socialità sottratta alla logica di mercato. Più che un progetto, un processo lungo trent’anni: un laboratorio dal carattere sperimentale, che dovrà necessariamente costruire nuove forme di dialogo con una città in continuo divenire. Se gli errori saranno inevitabili, i principi dovranno essere inderogabili: la trasparenza nei processi decisionali e nell’allocazione di risorse, come pure la promozione di una sostenibilità economica, ecologica e sociale sono le grandi sfide che lo attendono.
La città e la periferia
I margini: vuoti da riempire, spazi di manovra, densità rivoluzionaria
Il capitalismo ha divorato le nostre città. Il centro della polis è stato saccheggiato della sua vivacità sociale: corriamo freneticamente tra involucri vuoti, votati alla stessa logica di sfruttamento che avvolge i nostri corpi. Le analogie proseguono: mentre ci affanniamo in lavori sempre più automatizzati e iper specializzati, le città affinano un’offerta commerciale sempre più targetizzata. Il mercato è l’unico ad avere una visione olistica del lavoro, della comunità, della città: e ne pervade ogni spazio, riempiendolo di merci e svuotandolo di valori.
Eppure, esistono interstizi: spazi fisici e onirici ancora liberi di essere popolati dai desideri e dalle aspettative sopite: il margine di manovra è nella loro non definizione, nella contaminazione, nell’ibridazione tra centro e periferia, memoria storica e possibilità, comunità e singoli individui. Sul margine si intersecano complessità molteplici; si sovrappongono reti relazionali, economiche e culturali che creano nuovi nodi; combatte l’unicità di città sempre più omologate (“La cosa più bella di Firenze è McDonald’s”, cit. Andy Warhol) e destinate al consumo compulsivo più che alla fruizione quotidiana.
L’inverso della marginalità non è la centralità, bensì l’integrazione sociale[5]: ed è solo nel margine che si combatte la marginalità. Forme di welfare spontaneo e reti informali sconosciute o tacitamente tollerate dalle istituzioni sono l’ultima frontiera prima che generazioni intere cedano alla digitalizzazione totale delle loro vite, inseguendo narrazioni tossiche e stili di vita irreali e insostenibili.
“È dalla tensione verso il fuori – e tutti i rischi che questa comporta – che si strutturano i desideri, le passioni e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per essere più dei nostri corpi, per non essere prigionieri delle nostre contingenze.”[6]
Il margine è quello spazio – fisico, psicologico e digitale – che può essere abitato e diventare abilitante. Lavorare sul margine, terra di mezzo delle nostre città e delle nostre vite, ha un significato metafisico: significa aumentare e riunire la complessità; significa muoversi sopra un Vuoto normativo[7] per immaginare soluzioni che la macchina amministrativa non prevede, ma che nemmeno vieta; significa riempire la zona grigia dell’incompletezza trasformando lo spazio di nessuno nel luogo di tutti.
Lumen nasce al margine, nella consistente linea d’ombra tra città e periferia, tra edilizia popolare e quartieri residenziali. È un margine giuridico, tra la rigidità burocratica e la socialità come bisogno fisiologico. È margine generazionale, vista l’età dei promotori dello spazio, schiacciati nell’infinita post adolescenza da un mercato del lavoro ripiegato su se stesso, in un “eterno presente che capire non sai”[8]. Da questa somma di marginalità intersecate nasce un’esperienza che ricorda le antiche Società di Mutuo Soccorso, ma che è figlia di un mondo dove l’esperienza virtuale non dialoga ma integra la vita analogica. Le esperienze innovative nascono sempre distanti dal centro del potere: ed è la distanza dal sistema di riferimento a definire la carica eversiva[9]. Lumen è quindi fisiologicamente marginale, ma rivendica e aspira una nuova centralità diffusa.
La città e le comunità
Una Prossimità dilatata: come sopravvivere?
La realtà si fa ogni giorno più complessa e veloce, tanto che non sappiamo più leggerla. Ansiosi di schierarci su ogni trending topic, pretendiamo di avere un’opinione su tutto senza saperne niente; qualsiasi sfumatura è sacrificata sull’altare della semplificazione, in un dibattito sempre più polarizzato e autoreferenziale: chiuso in una confortante bolla virtuale, ognuno è l’eroe di un’autonarrazione manichea. Non sappiamo più gestire il confronto, temiamo il conflitto, fuggiamo le responsabilità individuali e non ne sappiamo immaginare di collettive: logico che i commons siano in crisi. Lo smantellamento del welfare e dei beni comuni tangibili è solo parte del problema: dietro roboanti annunci[10] ecco che cultura, paesaggio, salute, fruizione degli spazi comuni diventano prerogativa di chi può permetterseli. E i diritti di tutti si fanno, ancora una volta, privilegi di pochi.
Se la crisi dei commons è un sintomo del malessere contemporaneo, uno spazio comunitario è la rappresentazione plastica della Cura. La sopravvivenza è nella complessità che fuggiamo; nel confronto costruttivo che ci impaurisce; nell’andare oltre la fisiologica fragilità individuale.
La presa in carico dei beni comuni da parte dei cittadini diventa quindi urgenza non derogabile e non delegabile; la salute, l’ambiente, la memoria collettiva dei luoghi e delle comunità sono commons che l’ente pubblico, da solo, ha dimostrato di non saper tutelare. D’altronde, se i Governi nazionali non hanno difeso beni pubblici tangibili nonostante le richieste di milioni di cittadini[11], come pretendere che gli enti locali possano ergersi a tutori di beni più astratti davanti agli stessi macroprocessi economici di privatizzazione e finanziarizzazione della res pubblica?
Alle comunità spetta quindi un ruolo proattivo nella difesa, nella riappropriazione e nell’estensione dei commons. Le stesse comunità, del resto, appaiono come bene comune lacerato da quarant’anni di rampantismo sociale in cui la profezia thatcheriana si è fatta realtà. “Esistono solo gli individui”, ma siamo più fragili, più soli e più infelici di quanto ci aspettassimo. Riunirci sui beni comuni significa difendere e ravvivare il bene comune più importante: quella coscienza frattale che ci permette di essere al tempo stesso humus e fiore, cornice e soggetto di un quadro sociale dove siamo finalmente protagonisti delle nostre vite, e non più tifosi di narrazioni stereotipate e polarizzate che ci vedono comunque perdenti. Una comunità coesa è l’unica ricetta per curare una città che ha smarrito – o colpevolmente accantonato – la sua dimensione umana
Lumen è uno spazio sottratto alla logica di consumo; può quindi diventare l’occasione per essere più che consumatori, e diventare cittadini[12] di una piccola comunità. Un villaggio di Asterix che si oppone all’omologazione dell’impero, e che lancia un grido di raccolta a chi, silenziosamente, restituisce alla città una singolarità perduta. È tempo che le comunità passino al contrattacco; che si riprendano la città; che dettino una nuova filosofia della socialità; che pratichino nuove e antichissime forme di condivisione dei saperi tecnici e pratici.
La città e il lavoro
Cosa fare del nostro tempo?
“Lo spazio ha ucciso il tempo e la sua viscosità ci costringe a rallentare”[13]
La pandemia ha messo in discussione il nostro rapporto con il lavoro e, di conseguenza, con la città intesa come centro produttivo di beni e servizi. L’epica dello smart working ha reso la socialità un fattore incidentale, quasi un ostacolo da rimuovere: dopo aver conquistato il nostro tempo e i nostri cellulari, il lavoro ha invaso anche le nostre case. La stanchezza è diventata simbolo di operosità, uno status symbol da esibire: le città sono rumorosi alveari in cui api prosciugate di ogni passione si trascinano da casa a lavoro e viceversa. Lo spazio pubblico, diventato evanescente, è ridotto a sfondo incolore e monotono di esistenze grigie, lontane dalle trionfanti autonarrazioni social.
Le conseguenze psicologiche sono già visibili, come testimonia il fenomeno della Great Resignation[14]. In tutto il mondo, milioni di persone stanno rivedendo le proprie priorità, convinti che il lavoro non debba più essere un mezzo per realizzare desideri indotti, ma soprattutto un’occasione di socialità e di autorealizzazione personale e collettiva.
Una nuova filosofia del lavoro, aliena ai miti collettivi della performance e dell’infallibilità, può essere costruita solo all’interno di una nuova idea di socialità. Se il tempo del lavoro si è preso l’esistenza, che l’esistenza si prenda il tempo del lavoro.
La città e la cultura
La cultura: reiterazione o ricreazione?
La parola cultura è considerata un “termine ombrello” per la sua capacità di racchiudere una moltitudine di significati. Tra le 164 definizioni che gli antropologi Clyde Kluckhohn e Alfred Kroeber formulano, una delle più suggestive riguarda l’eredità culturale. In antitesi al patrimonio, retaggio destinato a consumarsi, l’eredità è una risorsa evolutiva, che si ha il compito di accogliere, migliorare e tramandare. Una sostanziale differenza con l’approccio conservativo che conosciamo, e che la trasforma nel polveroso racconto di un passato mitizzato ed etereo. In un mondo in cui tutto pare dover avere uno scopo, questa concezione autoreferenziale allontana il cittadino da una cultura percepita come inutile. Paradossale, visto il rapporto simbiotico tra materie umanistiche e scientifiche, e le possibilità della cultura di risolvere i problemi, proponendosi come un “enorme strumentario che l’umanità ha costruito nei millenni per compensare le prestazioni fisiche relativamente deboli del corpo umano”[15].
Le città hanno perso la loro capacità di produrre cultura; i cittadini consumatori, stretti tra stati d’emergenza permanenti e nuovi format televisivi da seguire, ne perdono la percezione di valore diffuso.
La cultura è politica, perché produce la cornice di senso in cui la comunità si definisce; è economia, intesa come capacità di stimolare ricerca scientifica e sviluppo tecnologico; è benessere diffuso perché può creare una filiera culturale sostenibile che produce esternalità positive per la società e per l’ambiente[16]. Lavoro e cultura sono quindi concetti simbiotici, imbevuti l’uno dell’altro ed entrambi profondamente inseriti in una dimensione civica; se il lavoro è opportunità di realizzazione collettiva, la cultura è la capacità di produrre condivisione tra esseri umani[17].
La città è il cuore pulsante dove il cambiamento, spesso ispirato dalla marginalità, incontra riconoscibilità pubblica, legittimazione politica e opportunità commerciali: compito della cultura è rendere questo cambiamento un bene comune, attraverso (almeno) tre processi:
– assicurare uno sviluppo diffuso e giusto, capace quantomeno di non alimentare evidenti sperequazioni tra generi, generazioni, classi sociali;
– abilitare i cittadini a leggere la realtà, interpretarla e intervenire su di essa favorendo anche un dialogo trasparente con le istituzioni locali;
– incidere nello spazio pubblico assecondando la sua naturale vocazione e tutelando i membri della comunità – presenti e futuri – da eventuali speculazioni che impoveriscono gli spazi pubblici, omologano le città e appiattiscono il pensiero di chi le abita. Restituire alla cultura una dimensione collettiva è un atto politico, che non possiamo più permetterci di delegare.
La città e il futuro
“La vera sfida sarebbe, è, riuscire a ridare senso al nostro territorio, restituire un’idea di collettività, di spazio comune […] Non bisogna solo cambiare le case, ma anche la testa di chi ci vive dentro.”[18]
Entro il 2030, quasi il 60% della popolazione mondiale abiterà in aree urbane: le città occupano solamente il 3% della superficie terrestre, tuttavia sono responsabili del 60-80% del consumo energetico e del 75% delle emissioni di carbonio[19]. Le metropoli si fanno sempre più dense di abitanti, ma sempre più vuote di relazioni: sembrano svilupparsi verso l’alto, con centri di potere (economico, relazionale, politico) visibili, ma comunque irraggiungibili. Nella Città dei “15 minuti” tutto è vicino, ma niente è modificabile se siamo massa atomizzata, incapaci di essere comunità.
“L’architettura è politica”[20]: gli spazi urbani dettano una filosofia e una grammatica dello spazio comune, che il cittadino si trova a subire salvo che per eventi partecipativi spot, spesso curiosamente vicini a una scadenza elettorale. Il protagonismo diffuso che auspichiamo passa anche attraverso una rigenerazione su base culturale del patrimonio pubblico: una soluzione ecologica, economica e sociality based, capace di soddisfare anche quel criterio di efficienza ormai eretto a totem del neoliberismo più sfrenato. Insomma, “Il futuro è già qui, solo non è stato ancora equamente distribuito”[21].
L’ambizione di farsi voce di un luogo complesso si fa necessità contingente, vista anche l’incapacità della politica di regolare processi assicurando un’allocazione delle risorse – e degli spazi – che risponda a un’etica di giustizia prima che a una logica di mercato. Già nel 2011 José Barroso ricordava che “Social innovation is about meeting the unmet social needs and improving social outcomes […] which are not adequately met by the market or the public sector”[22], riconoscendo una sostanziale inadeguatezza del pubblico nel gestire processi locali estremamente specifici.
I trentenni di oggi sono cresciuti tra aspettative irrealizzabili, puntualmente disattese da una realtà avversa ai ricambi generazionali e agli ascensori sociali. La precarietà professionale si è fatta esistenziale, scomodo alibi per l’inadeguatezza che viviamo tra una pandemia e una crisi ambientale senza precedenti. Abbiamo risposto chiedendo una legittimazione che la politica, di sua sponte, non poteva assegnarci; incapace più di noi di leggere la realtà, come poteva immaginare di darci una responsabilità che abbiamo sempre evitato?
Abitare gli interstizi e cambiare le dinamiche sociali; costruire nuove relazioni per riprendere gli spazi comuni; reinventare la nostra quotidianità assecondando inclinazioni, passioni e desideri.
Questa è politica. Noi siamo politica.
Proviamo a cambiare dall’interno la realtà che abbiamo subito.
La vecchia città è morta. Viva la città.
Note
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Es. Guardian 24/01/2018, New anti-homeless architecture: Seattle uses bike racks to block rough sleepers (link). ↑
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A titolo esemplificativo in un Comune ad alta densità abitativa come Firenze, si possono contare oltre 240 immobili pubblici abbandonati. ↑
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Roberta Franceschinelli (a cura di), Spazi del possibile. I nuovi luoghi della cultura e le opportunità della rigenerazione, Edizioni Franco Angeli, Milano 2021. ↑
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In questi interstizi normativi si collocano situazioni (es cohousing) che spesso l’amministrazione non riesce a normare adeguatamente. ↑
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(Gallino 1983, p. 423) ↑
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C. Caciagli, Vivere senza spazi pubblici, 17 marzo 2020, Jacobin Italia. ↑
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O meglio, “un margine di manovra giuridico”. ↑
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CCCP, Per me lo so, 1987. ↑
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“La marginalità può essere definita solo rispetto a un determinato sistema di riferimento: ne consegue che ciò che è marginale per un sistema può non esserlo per un altro”, cfr. Tomaso Montanari, Gabriele Pasqui, Rocco Sciarrone, Nadia Urbinati, Gianfranco Viesti, Manifesto per riabitare l’Italia: Con un dizionario di parole chiave e cinque commenti, Donzelli Editore, Firenze 2020. ↑
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Es. la tutela dell’ambiente recentemente inserita nei principi fondamentali della Costituzione. ↑
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Il referendum sulla privatizzazione dei servizi idrici del 2011 è stato puntualmente disatteso in maniera bipartisan da tutti i Governi che da allora si sono succeduti ↑
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Treccani definisce la cittadinanza come “Vincolo di appartenenza di un individuo a uno stato”; per chiarezza, abbiamo sostituito il concetto di “comunità” a quello di “stato”. ↑
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Caudo G. e Pietropaoli M. (a cura di), Riabitare il mondo, Ed. Quodlibet Studio, Macerata 2020. ↑
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Secondo il Ministero del Lavoro, tra aprile e giugno 2021 quasi mezzo milione di persone in Italia ha dato le dimissioni. Stando a uno studio globale della McKinsey, quasi il 40% dei lavoratori nel mondo sta valutando se cambiare la propria occupazione nei prossimi mesi. Ovviamente il mercato del lavoro statunitense (alto turnover, vocazione produttiva dei singoli Stati, etc.) presenta enormi differenze con il tessuto produttivo italiano, basato sulle PMI e caratterizzato da squilibri sociali, geografici, di genere e generazionali diversi ma altrettanto gravosi ↑
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Cicerchia A., Che cosa muove la cultura. Impatti, misure e racconti tra economia e immaginario, Ed. Bibliografica, Milano, 2021 ↑
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Il Sistema Produttivo Culturale e Creativo evidenzia un moltiplicatore per il 2020 pari a 1,8. L’intera filiera ha un valore aggiunto di 239,8 miliardi di euro. Fonte: Io sono Cultura 2021, Rapporto Annuale di Fondazione Symbola e Unioncamere. ↑
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Secondo Bauman, sarebbe proprio questo reciproco riconoscimento simbolico a identificare la specie umana. ↑
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G. Biondillo, Metropoli per Principianti, Guanda, Milano 2008. ↑
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Fonte: Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite: https://unric.org/it/obiettivo-11-rendere-le-citta-e-gli-insediamenti-umani-inclusivi-sicuri-duraturi-e-sostenibili/ ↑
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G. Frassinelli, Architettura impropria, Sagep Editori, 2017. ↑
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cit. William Gibson. ↑
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http://europa.eu/rapid/press-release_SPEECH-11-190_en.pdf ↑